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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
02.01.2010 Talebani scatenati su tutti i fronti
Cronache e analisi di Guido Olimpio, Cecilia Zecchinelli, redazione del Foglio

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Guido Olimpio - Cecilia Zecchinelli - La redazione del Foglio
Titolo: «La guerra sporca degli avamposti - Talebani all’attacco su tutti i fronti - Quanto sono ancora duri gli jihadisti da Baghdad al Pakistan»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 02/01/2010, a pag. 6, gli articoli di Guido Olimpio e Cecilia Zecchinelli titolati " La guerra sporca degli «avamposti»  " e " Talebani all’attacco su tutti i fronti  ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo dal titolo "  Quanto sono ancora duri gli jihadisti da Baghdad al Pakistan". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : "La guerra sporca degli «avamposti»"

WASHINGTON — Li chiamano «Crisis Operations Liason Teams», nome criptico per indicare squadre di agenti segreti che operano nel «territorio indiano», ossia nella zona dove i talebani si muovono a loro piacimento. Di solito sono composti da una quindicina di 007, alcuni dei quali provenienti dalle unità paramilitari. Devono sapere fare il lavoro di intelligence ma anche essere pronti a sparare. Una militarizzazione della Cia voluta dall’amministrazione Bush e proseguita anche in questi mesi.

Il generale McChristal, comandante delle forze Usa, ha incoraggiato lo schieramento di questi nuclei integrandoli quanto più possibile con l’azione condotta dalle forze speciali. Un’estensione della missione resa possibile anche dal progressivo aumento del numero di 007 inviati nello scacchiere. Giovani con voglia di far carriera sul campo e gente della vecchia guardia, richiamata dalla pensione per colmare i posti vuoti ma soprattutto i gap di esperienza, cultura e lingua. Tre strumenti senza i quali l’arte della spia non può esistere. I numeri su quanti siano i funzionari impegnati in Afghanistan è riservato, ma si parla di quasi 700 tra uomini e donne.

Donne come la veterana e madre di tre figli che aveva il comando nell’avamposto Chapman. Anche lei è caduta nell’attentato. Una perdita significativa, perché gli agenti — in certe aree — non sono rimpiazzabili come semplici pedine. Nella base vicino a Khost il team della Cia conduceva una serie di missioni piuttosto delicate. Innanzitutto reclutava informatori chiamati a vegliare su una delle rotte usate dai militanti e gestiva quelli mandati dall’altra parte della frontiera, in Pakistan.

Occhi e orecchie che vedono e ascoltano ciò che avviene nei villaggi. Infiltrati che segnalano la presenza di capi terroristi.

Un lavoro pericoloso. Se i qaedisti li scovano gli tagliano la testa. Gli insorti ne sono ossessionati in quanto ritengono che siano questi «traditori» a fornire le coordinate ai velivoli senza pilota della Cia. Armati di missili e telecamere, i droni sono diventati i veri killer di terroristi. E i funzionari Cia dell’avamposto Champman facevano proprio questo: combinavano le notizie raccolte dai loro «cavalli» locali con quelle dello spionaggio elettronico e satellitare. Un binomio uomo-macchina che è stato definito dal direttore della Cia «l’unico show che abbiamo in città». Un modo per dire che è la sola risorsa disponibile per mettere sotto pressione il nemico.

La vita nelle basi avanzate è dura. Ti devi sporcare le scarpe, devi diffidare di tutti e, al tempo stesso, fidarti di ciò che trovi. Anche la sicurezza è precaria. Nei forum dei reduci si possono leggere le recriminazioni— condite di «vaffa» — sulla decisione di lasciare il controllo esterno a soldati locali o a miliziani dei clan che dovrebbe essere a prova di tradimento. A volte lo sono, in altre meno.

A Khost, poi, il quadro era ed è ancora più complesso. Il team si è trovato a competere con il temibile network Haqqani, creatura a due teste, una talebana e una qaedista. Un’organizzazione in grado di lanciare gli attentatori suicidi anche contro obiettivi ben protetti. Non è un caso che i terroristi della fazione siano riusciti a colpire persino nella capitale. Dispongono di un’ottima logistica, contano su un buon serbatoio di reclute e hanno sviluppato il loro intelligence. Fanno saltare gli attentatori suicidi all’ingresso di un hotel oppure li usano come missili umani. Precisi, in grado di superare le difese e di spaccare il cuore dello schieramento nemico. Ed è quello che hanno fatto a Khost.

CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " Talebani all’attacco su tutti i fronti  "

 Talebani

Il 2009 si è chiuso con pessime notizie per i Paesi della missione Nato in Afghanistan, impegnati proprio in questa fase — su pressione di Washington — in una nuova offensiva e spesso nell’invio di altre truppe per tentare di riportare il Paese sotto il controllo di Kabul. In poche ore ci sono stati infatti il primo rapimento di giornalisti francesi dal 2001, la più grave strage tra gli uomini della Cia dal bombardamento alla base di Beirut nel 1983, la morte della prima reporter canadese nel Paese insieme a quattro soldati suoi connazionali. Tutti eventi successi nel penultimo giorno dell’anno, di cui si è saputo solo nelle ore successive, e che stanno causando forti emozioni nei rispettivi Paesi.

Il reporter e il cameramen del canale pubblico francese France3 erano « spariti » a nord-est di Kabul mercoledì mattina e per oltre 48 ore non se ne è avuta notizia. Ieri sera, fonti vicine all’unità di crisi francese hanno finalmente dichiarato che i due «sono vivi, in buona salute e trattati bene». I loro nomi restano coperti da segreto, per un’espressa richiesta del governo di Parigi rispettata da tutti i media. Di loro si sa che erano nel Paese per girare un servizio sull’apertura della strada tra le valli di Shinkai e Kapisa, dove ha sede il contingente francese forte di 800 uomini. Una zona non lontana dal Pakistan con molti gruppi talebani (e di banditi) in attività. Fino a ieri sera la Francia non aveva voluto parlare di rapimenti (il ministro della Difesa Hervé Morin, in missione in Afghanistan, aveva lasciato aperta «ogni ipotesi»). Ma un collega dei due aveva subito dichiarato che «il loro contatto nel villaggio di Surabi aveva avvisato i talebani, che avevano teso un’imboscata e li avevano catturati sulla strada per Tagad». Con loro tre accompagnatori afghani, che sarebbero vivi, ma nessuna informazione sui rapitori nè su possibili riscatti.

Ancor più vicino al confine pachistano, a Khost, è avvenuto l’attentato suicida che ha causato mercoledì la morte di sette agenti della Cia, tra cui la capo missione, madre di tre figli, e il ferimento di sei. Da quanto è emerso, ma per ora non è confermato, il kamikaze sarebbe stato invitato alla base dagli stessi americani per utilizzarlo come possibile informatore e— cosa ancor più grave — non sarebbe stato nemmeno perquisito all’entrata della base. Il presidente Barack Obama in una lettera aperta ai dipendenti della Cia ha reso omaggio ai caduti, «parte di una lunga serie di patrioti che hanno compiuto enormi sacrifici per difendere il nostro Paese e il nostro modo di vivere, spesso all’insaputa dei loro compatrioti, degli amici, perfino delle famiglie». «Questo attacco sarà vendicato con operazioni aggressive di antiterrorismo», ha promesso ieri una fonte dell’agenzia di intelligence Usa, dopo che la strage di Khost era stato rivendicata dai talebani.

E poi i canadesi, anche loro massacrati dagli «studenti di Dio» o da chi ne usa comunque il nome: a Kandahar, nel sud, mercoledì quattro militari ventenni e Michelle Lang, del Calgary Herald, sono stati uccisi da una bomba lungo la strada mentre erano di pattuglia a pochi chilometri dalla base. Per la Lang, 34 anni, era la prima missione in Afghanistan. Ieri alla base di Kandhar una cerimonia con oltre mille persone ha salutato le cinque bare, prima del viaggio verso il Canada.

Mentre le notizie di questa terribile giornata di sangue si diffondevano in Occidente, a renderne più pesante l’impatto sono arrivati i bilanci di morte del 2009, l’anno che ha visto più vittime in Afghanistan dall’inizio della guerra nel 2001. Solo tra gli americani — ha reso noto l’Associated Press utilizzando dati della Nato — i caduti sono stati 304: più del doppio del 2008, quando le vittime erano state 151. E tra tutti i Paesi alleati, Stati Uniti compresi, i morti hanno superato per la prima volta la soglia dei 500: 502 per la precisione, contro i 286 dell’anno prima. A questi vanno aggiunti i civili afghani, su cui è più difficile avere dati ma che secondo l’Onu avrebbero superato i 2 mila: un quarto causati da Usa e alleati.

Il FOGLIO - " Quanto sono ancora duri gli jihadisti da Baghdad al Pakistan"

Roma. E’ una campagna di rappresaglia dei talebani contro i civili per fare pagare al governo del Pakistan l’azzardo – cominciato l’ottobre scorso – di muovere con l’esercito contro i santuari intoccabili. Ieri i guerriglieri hanno colpito i duecento spettatori di una partita di pallavolo a Shah Hassan Khel: un uomo si è fatto esplodere e ha ucciso più di settanta persone. Non è ancora chiaro se l’attacco è stato compiuto con un corpetto esplosivo o con un’autobomba perché la violenza dello scoppio ha fatto crollare il tetto della palestra e quelli degli edifici attorno: la polizia e tutti i soccorritori hanno dovuto estrarre cadaveri e sopravvissuti da in mezzo le macerie. Shah Hassan Khel era un obbiettivo segnato della campagna punitiva dei talebani pachistani. La città era considerata dalla guerriglia un rifugio certo, almeno fino allo scorso mese di agosto, quaranta giorni prima dell’affondo dei militari contro le aree tribali: poi sono arrivati i soldati e la gente del luogo ha approfittato di quell’occasione di stabilità insperata per mettere assieme un piccolo esercito di volontari e impedire ai talebani di tornare. E’ quello che i guerriglieri di solito facevano dopo essersi dissolti davanti alle colonne di militari, ma soltanto per la loro tattica sparisci-al mattino- e-riappari-la-sera. La costituzione del piccolo lashkar, la miliza spontanea locale, era un affronto da reprimere alla cieca, è così è stato. Nella vicina provincia del Nord Waziristan i droni americani hanno colpito due volte nel giro di 24 ore. Nelle ultime settantadue ore gli Stati Uniti hanno incassato due sconfitte sui due fronti più combattuti della guerra al terrorismo. In Afghanistan, un terrorista si è infiltrato in una base dell’intelligence americana a Khost, nella parte occidentale del paese vicino al confine con il Pakistan. Con indosso la divisa dell’esercito afghano, l’uomo è arrivato fin nella piccola palestra a disposizione degli americani, si è fatto esplodere e ha ucciso sette agenti operativi della Cia, compresa il capo della base, una madre di tre figli veterana delle operazioni clandestine all’estero (gli attacchi sul Pakistan non sono mai stati ammessi ufficialmente dal governo americano). Dalla base Chapman l’intelligence segue i movimenti dei leader di al Qaida e talebani oltre il confine e manda i droni a intercettarli e a ucciderli. La Cia sta dando la caccia in particolare ai membri dell’Haqqani network, una fazione mista fatta di talebani e di stranieri di al Qaida responsabile – tra gli altri attacchi – anche di quello che costò la vita a sei paracadutisti italiani a Kabul lo scorso settembre. I droni della Cia stanno infliggendo colpi durissimi con la loro campagna di sorveglianza dall’alto e di bombardamenti improvvisi, ma ora il loro centro di coordinamento è stato violato con un contrattacco grave, considerate le misure di sciurezza strettissime che in teoria lo circondano. Secondo una prima ricostruzione, l’uomo è stato ammesso dentro la base perché la Cia puntava a reclutarlo come informatore. Ma le spie sono state giocate. Ieri il New York Times ha raccontato con un pezzo dell’inviato Mark Mazzetti il ruolo sempre più attivo della Cia sul fronte, dove è presente con le sue unità paramilitari. La seconda sconfitta arriva da Baghdad. Gli americani hanno acconsentito a liberare Qais Qazali, leader della Lega dei Giusti, un gruppo terrorista iracheno armato e finanziato dall’Iran, responsabile di una lunga campagna di attacchi e attentati. Qazali era così importante dentro il gioco spietato fra terroristi e cacciatori di terroristi in Iraq che la sua rete prendeva il suo nome, “Qazali network”, come l’Haqqani network in Afghanistan. Tre anni fa i suoi uomini, parlando in inglese e con divise americane, riuscirono a infiltrarsi in una base americana e a rapire – e poi uccidere a sangue freddo – cinque soldati. Ufficialmente il rilascio fa parte delle mosse americane per favorire la riconciliazione pacifica tra elementi pericolosi e il governo di Baghdad. In realtà, dicono fonti militari nella capitale, si è trattato di uno scambio di prigionieri. Qazali è stato rilasciato in cambio della liberazione di Peter Moore, contractor inglese rapito con altri quattro davanti al ministero delle Finanze nel 2008. Non è stato uno scambio simmetrico: “Loro ci hanno restituito quattro cadaveri e un ostaggio vivo, noi abbiamo rilasciato il capo e decine di suoi aiutanti”. E’ il nuovo clima a Baghdad: tre settimane fa l’Economist ha scritto – poi smentito – che il comandante degli americani in Iraq ha parlato con il capo all’estero dei pasdaran.

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