Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Dopo un anno anche Obama si è reso conto che la mano tesa non funziona Moussavi pronto a morire per la causa dei riformisti. Cronaca e analisi del Foglio, intervista a Maziar Bahari di Francesca Caferri
Testata:Il Foglio - La Repubblica Autore: La redazione del Foglio - Francesca Caferri Titolo: «Il change di Obama sull'Iran - Moussavi dice agli ayatollah che la piazza non è affatto sola - È una dittatura militare la rivolta è solo all´inizio»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 02/01/2010, a pag. 3, l'editoria dal titolo " Il change di Obama sull'Iran " e l'articolo dal titolo " Moussavi dice agli ayatollah che la piazza non è affatto sola". Da REPUBBLICA, a pag. 15, l'intervista di Francesca Caferri a Maziar Bahari, giornalista irano-canadese di Newsweek arrestato nel giugno scorso e detenuto per più di tre mesi nel carcere di Evin,dal titolo " È una dittatura militare la rivolta è solo all´inizio ". Ecco gli articoli:
Il FOGLIO - " Il change di Obama sull'Iran "
Qualcosa sta cambiando, a Washington. Il progetto americano di engagement, di dialogo e persuasione, nei confronti degli ayatollah di Teheran è fallito sotto i colpi della repressione barbara, violenta e sanguinosa del regime iraniano. Su queste colonne avete letto decine di analisi che anticipavano questo risultato. Barack Obama ha offerto ai mullah la mano, ha rinunciato alla politica del cambio di regime auspicato da Bush, ha riconosciuto per la prima volta la natura islamica della Repubblica iraniana e ha mandato messaggi scritti e digitali all’establishment politico e religioso. Per dimostrare che faceva sul serio, ha dimezzato i finanziamenti ai movimenti democratici, ha evitato di incoraggiare le manifestazioni di piazza dell’opposizione e non s’è voluto mischiare nella vicenda dei brogli elettorali alla base di quella grande rivolta popolare che ha messo in discussione i principi cardine della rivoluzione khomeinista. Soprattutto, Obama ha proposto agli ayatollah un accordo molto favorevole sul nucleare, quasi un cedimento agli obiettivi iraniani. La Casa Bianca non si aspettava tutto e subito, si sarebbe accontentata di un segnale. Ne sono arrivati parecchi, ma del senso opposto. Ora a Washington il clima politico è cambiato. Il Congresso di centrosinistra chiede sanzioni dure e la Casa Bianca ci sta lavorando seriamente, anche se ha lasciato scadere l’ultimatum di fine anno. Il New York Times ha ospitato analisi che invocano la soluzione militare come l’unica possibile. Un ex consigliere obamiano sulle questioni iraniane, Ray Takeyh, ha scritto l’articolo che probabilmente segnala più di ogni altro il cambiamento di strategia in corso. Takeyh era uno dei sostenitori della politica di engagement, ma sul Washington Post ora consiglia a Obama di seguire l’esempio di Ronald Reagan, il presidente capace di dichiarare l’Urss “impero del male”. Obama, scrive Takeyh, deve sfidare la legittimità dello stato teocratico iraniano e denunciare gli abusi dei diritti umani, anche nel caso Teheran decidesse di accettare le offerte della comunità internazionale. Un anno dopo l’uscita di scena di Bush, dopo che è stato tentato tutto quello che andava tentato, l’America sta per tornare all’unica analisi seria elaborata nei mesi successivi l’11 settembre: il problema è la natura del regime, l’obiettivo è cambiarlo.
Il FOGLIO - " Moussavi dice agli ayatollah che la piazza non è affatto sola "
Moussavi
Roma. Mir Hossein Moussavi, leader dell’opposizione iraniana, dice di essere “pronto a morire” per la causa dei riformisti, l’onda verde che protesta da sei mesi contro il regime di Teheran. La risposta del governo agli oppositori è stata violenta: nell’ultima repressione, iniziata il 27 dicembre, ci sono state, secondo il governo, quindici vittime (fra loro c’è il nipote di Moussavi, Ali Habibi, sepolto in gran segreto pochi giorni fa), ma le organizzazioni umanitarie prevedono un bilancio decisamente superiore, e ormai non si contano più né i feriti né gli arrestati. La piazza da sempre s’ispira a Moussavi, ma lui, a parte i primi momenti, è stato per lo più defilato e silenzioso. Paura o strumentalizzazione della piazza per ottenere risultati a palazzo? Difficile dirlo, certo l’annuncio di Moussavi – che insiste nel dire che è la piazza il vero leader – segna una svolta rispetto al passato: le sue parole sono una risposta agli esponenti del clero e del governo che, stando ad alcune indiscrezioni, avrebbero come primo obiettivo quello di separare i leader dalla piazza (per poi andare verso la repressione totale). “Non ho paura di essere uno dei martiri”, dice Moussavi ai suoi, in un comunicato apparso sul sito Kaleme.org, “gli ordini a uccidere o imprigionare Mehdi Karroubi, Moussavi e le altre persone come noi non risolveranno nulla”. Moussavi fa anche un appello al presidente Ahmadinejad a mettere fine alle violenze, “riconoscendo la crisi” e cercando quindi di risolverla. Il regime ha tuonato contro queste ultime parole, “non c’è alcuna crisi, siete voi che la create, smettetela”, ha detto il conservatore Ahmad Khatami (da non confondere con l’ex presidente Mohammed Khatami, anche lui considerato leader della piazza contro il regime), ma il segnale che il primo punto dello schema di reazione – deciso, secondo alcune indiscrezioni, in un vertice di regime blindato il 13 dicembre scorso – è forte e chiaro. La protesta ha raggiunto l’intensità massima domenica scorsa, quando migliaia di persone radunate a Teheran hanno scandito slogan contro il leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei. Il governo ha ordinato ai leader dell’opposizione di denunciare l’episodio, ma loro si sono rifiutati. Per Moussavi, le proteste di domenica sono state pacifiche sino a quando la polizia e le milizie paramilitari non hanno usato la forza. “Diciamo che si possa mettere a tacere la piazza per qualche tempo con arresti, censure e minacce ai giornali – ha detto – Ma come farete a convincere la gente che deve cambiare opinione nei confronti del regime? Come farete a ricostruire la legittimità?”. Molti esponenti del regime hanno chiesto di prendere provvedimenti severi contro i due, giudicati “mohareb”, nemici di Dio e per questo condannabili a morte. L’Irna, l’agenzia di stampa del regime, ripete che i due leader sono fuggiti, hanno abbandonato il campo, perché questo prevede il copione scritto dal palazzo. Il sito su cui è apparso il comunicato, Kaleme.org, ribatte: “Moussavi è a casa sua, non ha mai lasciato Teheran neanche un istante negli ultimi giorni”. Il leader c’è ed è disposto a morire per la causa della piazza. Prossimo appuntamento: domani, si va in piazza per tutti i prigionieri politici.
La REPUBBLICA - Francesca Caferri : " È una dittatura militare la rivolta è solo all´inizio "
Maziar Bahar
L´Iran sta diventando una dittatura militare, con un governo ormai incapace di controllare la sua stessa gente. Ne è convinto Maziar Bahari, giornalista irano-canadese di Newsweek che al suo paese di origine ha dedicato anni di lavoro, fino a essere arrestato nel giugno scorso e detenuto per più di tre mesi nel carcere di Evin, il più famigerato del paese. Signor Bahari, lei ha assistito in prima persona alla prima fase delle proteste, la scorsa estate. Si aspettava una ripresa così violenta e prolungata? «Sì. Da quando sono stato rilasciato ho sempre detto che la mia maggiore preoccupazione stava nel fatto che l´opposizione potesse diventare sempre più violenta e militarizzata. È quello che sta accadendo. Del resto l´Iran sta diventando sempre più una dittatura militare, più che uno stato religioso: le Guardie rivoluzionarie cercheranno di creare una dittatura militare. Io credo che alla fine falliranno, ma in questo momento ci stanno provando. Lo fanno usando sempre maggiore violenza. L´opposizione seguirà la stessa strada: all´inizio si trattava di persone che chiedevano pacificamente dove fosse finito il loro voto. Ma poi la decisione di Khamenei di usare la violenza contro i manifestanti e arrestare i moderati, come me, lo ha trasformato in un nemico, allargando il fronte di quelli che sono contro il governo. Per questo mi aspetto ulteriori ondate di violenza e forse anche la fine di questo governo». Crede che siamo davanti all´inizio della fine per il regime? «Credo che questo sia l´inizio della tempesta. Non abbiamo ancora visto nulla. Nessuno si sarebbe immaginato questa situazione un anno fa. Tutti pensavano che Khamenei fosse più intelligente, che non scommettesse tutte le sue carte su Ahmadinejad: ma non l´ha fatto e ne pagherà il prezzo. Avrebbe potuto sacrificare Ahmadinejad qualche mese fa e salvarsi: ora temo che sia tardi». Ma questo movimento è abbastanza forte da far cadere il governo? «Forse non subito. Potrebbero volerci mesi. Il problema maggiore è la mancanza di un leader vero. Moussavi è più un supervisore che una guida. L´onda verde è cominciata per rovesciare i risultati del voto: ma ormai è un movimento per abbattere l´autorità di Khamenei. La contraddizione sta nel fatto che molti dei suoi rappresentanti, da Karroubi a Khatami, sono troppo legati al potere per volerlo davvero rovesciare. Potrebbero emergere nuovi leader e non apparterranno all´establishment: il movimento potrebbe diventare più violento e più radicale. E questo sarà responsabilità del governo».
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