Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
E' guerra, Obama come Bush Cronaca e commenti, con l'analisi di Fiamma Nirenstein 'vivere con la paura degli attentati'
Testata:Il Foglio-Il Giornale-Corriere della Sera Autore: Fiamma Nirenstein-Marcello Foa-Ennio Caretto Titolo: «E' guerra, Obama come Bush»
Sono stati sufficienti solo pochi giorni, e i commenti recitano quasi tutti " Obama come Bush ", pur con qualche distinguo. E' guerra, contro il terrorismo, ovviamente, esattamente come l'avevano capito Bush e Cheney e non Barack Hussein Obama. Adesso ci è arrivato anche lui. Riprendiamo cronache e commenti, con un'analisi di Fiamma Nirenstein su come si vive sotto la minaccia di attentati, una valutazione che in Europa pochi hanno provato a fare, ma che è purtroppo quotidiana in Israele.
Il Foglio- " Non era Bush il cattivo degli anni zero "
la riabilitazione è in arrivo
Roma. Il centro di New York paralizzato da un allarme autobomba. Squadre speciali spedite in Yemen per dare la caccia ai terroristi. La chiusura di Guantanamo che precipita nella lista delle priorità di Washington. Dopo l’ubriacatura delle elezioni 2008, l’America si scopre di nuovo assalita dalla realtà. Il 10 dicembre il presidente americano Barack Obama ha ritirato il premio Nobel per la pace, “per la speranza suscitata nel mondo” dall’annuncio della sua nuova politica estera. La dottrina Obama prometteva dialogo e un cambiamento netto rispetto al doppio mandato precedente di George W. Bush, segnato dall’attacco dell’11 settembre. Sei giorni dopo la cerimonia svedese del Nobel – in cui Obama ha però sostenuto che fare la guerra può essere necessario per arrivare alla pace – il generale David Petraeus, capo del Comando centrale del Pentagono che sorveglia medio oriente e Asia, è volato nella penisola araba per il vertice arabo sulla sicurezza di Manama, in Bahrein. “Sono preoccupato dallo Yemen – ha detto Petraeus – è la prossima base di al Qaida”. Il giorno dopo, il 17 dicembre, Obama ha mandato una lettera formale al Congresso americano per spiegare i suoi poteri di guerra: “In risposta alle minacce dei terroristi prenderò misure dirette, quando saranno necessarie, nell’esercizio di autodifesa degli Stati Uniti”. Lo stesso giorno, i membri del Congresso non lo sapevano ancora, il presidente ha usato i propri poteri per le stesse ragioni spiegate alla giuria di Stoccolma: le navi della marina americana stazionanti nel Golfo hanno lanciato missili Cruise contro due campi di addestramento di al Qaida in piena attività nello Yemen, uccidendo almeno 34 terroristi – secondo i primi, confusi bilanci. Secondo notizie successive, i morti sarebbero invece una sessantina e ci sarebbero anche civili perché al Qaida aveva allestito le sue basi vicino alle case. Una settimana dopo, alla vigilia di Natale, i vertici di al Qaida nello Yemen si sono riuniti per lanciare la campagna di attentati di rappresaglia contro il bombardamento americano. Fra loro c’era anche Anwar al Awlaki, il mullah nato in America ispiratore del maggiore che ha compiuto la strage di Fort Hood in Texas. Obama ha ordinato un secondo bombardamento per sfruttare la concentrazione di nemici, ma – sebbene ne siano morti due – i capi di al Qaida, compreso al Awlaki, sono riusciti a fuggire. Il governo yemenita sostiene di essere stato lui a bombardare, ma tutti gli osservatori ritengono che il raid non sarebbe stato possibile senza l’intervento americano. La rappresaglia di Aqap, come la chiamano gli americani, “Al Qaida in the Arabian Peninsula” – Al Qaida in Iraq era chiamata invece con l’abbreviazione “Aqi” – è arrivata presto. Il giorno di Natale uno studente nigeriano si è imbarcato su un volo per Detroit con un piccolo quantitativo di esplosivo militare nascosto, dall’effetto potenzialmente devastante. L’attentato non è riuscito soltanto perché l’innesco dell’ordigno – che l’uomo ha detto essere proveniente dallo Yemen – ha fallito. Ma l’apparato antiterrorismo ha dato una prova di debolezza disastrosa. L’Amministrazione americana, a questa turno democratica, ha di nuovo davanti lo stesso problema di otto anni fa: le misure di sicurezza nazionali sono insufficienti, gli attentatori non possono essere scremati tutti ai varchi aeroportuali in occidente, va risalita la filiera del terrore. Gli uomini di al Qaida devono essere bloccati prima, quando sono ancora nelle loro basi d’Asia e Africa assieme ai loro comandanti e ai loro leader religiosi. Ieri Times Square, nel centro di New York, è stata evacuata e bloccata per un auto sospetta. “Nello Yemen ce ne sono altri 25 come me”, ha detto l’attentatore, che potrebbe essere già il secondo della serie perché il mese scorso a Mogadiscio un uomo è stato bloccato mentre si imbarcava su un volo in partenza per gli Emirati arabi uniti con una bomba identica a quella di Detroit. Obama ha usato toni durissimi contro le falle nei sistemi di sicurezza e la Cnn ha lanciato la notizia di squadre speciali americane mandate nello Yemen per dare la caccia ai terroristi, anche se il governo di Sana’a non avrebbe ancora dato il suo assenso per operazioni a terra. I siti online hanno titolato sull’America pronta a compiere raid – anche se ha cominciato già: da due settimane. Vale anche per le squadre di commando, di cui si starebbe ancora “studiando l’impiego”. In realtà, Obama ha mandato anche le squadre speciali almeno due settimane fa, ne dava notizia il Telegraph in un articolo passato senza clamore prima dell’attentato. Il terzo fronte di guerra dell’America, dopo l’Iraq e quello afghano-pachistano, si è aperto in sordina, senza annunci, ma era tempo. Al Qaida in Yemen si muove impunita alla luce del giorno, aiutata dal governo, che considera il gruppo sunnita un asset prezioso contro i ribelli sciiti – quindi di una tradizione islamica odiata dai binladenisti – e quindi provvede passaporti, case e addestramento militare. L’attentato di Natale è una pietra d’inciampo spaventosa per il piano di Obama di chiudere Guantanamo a un anno dal suo insediamento, piano che era già comunque slittato in avanti con i tempi. L’attentato contro il volo di Detroit è stato pianificato proprio da due ex detenuti del carcere, rilasciati dopo che sono riusciti a convincere le autorità della base di massima sicurezza di essersi ormai ravveduti e di avere abbandonato l’estremismo. Il nucleo irriducibile dei prigionieri è proprio costituito dagli yemeniti, circa novanta, il 40 per cento dei rimasti. Il settimanale conservatore Weekly Standard sostiene da un anno che quei prigionieri, per la loro pericolosità, non possono essere restituiti allo Yemen, che li libererebbe – come ha già fatto con regolarità – dopo poco tempo. La senatrice democratica Dianne Feinstein, che rappresenta il partito alla commissione del Senato sull’intelligence, critica feroce della base, ha detto ieri che gli yemeniti non dovrebbero essere rimandati al loro paese – “è troppo instabile” – anche se non dice dove dovrebbero stare. Il suo omologo repubblicano ha detto della chiusura: “Dovete ripensarci”.
Il Giornale- Fiamma Nirenstein: " Ecco come si vive con la paura dei kamikaze
In un altro mondo, quello in cui il terrorismo è vita quotidiana, come accade in Israele, l’eventuale bomba si chiama semplicemente «hefez hashud», oggetto sospetto. Quando lo si scopre sotto l’apparenza di un pacco, di una valigia, di qualsiasi cosa, si avverte la polizia che viene con un piccolo robot a farla saltare. È un’unità molto occupata. Un «hefez hashud» non fa urlare di paura, non induce a fughe inconsulte, non spinge a investigare con occhi ansiosi dove sia il rifugio più vicino, mentre ti chiedi semmai come passare sopra la testa dell’anziana signora in piedi dietro di te. Dove il terrorismo delle bombe è uno slalom quotidiano, capita di fare tardi a un appuntamento. Sì, mi scusi tanto, c’era un «hefez hashud» sull’autostrada Tel Aviv-Gerusalemme. Sei fermo da un’oretta di fronte all’entrata di un ufficio, o di una scuola, di un grande magazzino dove hai lasciato un pacco e non puoi entrare finché non arriva il robot e danno il via libera? Pazienza, a volte capita, in una giornata puoi incontrarlo anche due volte. La radio annuncia con voce piatta durante le notizie sul traffico: «Rallentamenti sulla strada numero 6 per la presenza di un hefez hashud vicino a Bacha el Garbiya». Non lo dice mai durante le notizie. Ok, si sa, speriamo non ci siano altri contrattempi, altrimenti faccio tardi. Si può vivere con la minaccia costante del terrore; è un pensiero remoto, una serie di comportamenti che diventano regolari, familiari, uno sguardo circolare che si fa abitudine, una veloce occhiata dietro la schiena. Ma anche una maggiore fame di vita, un indicibile gusto di incontrare, di parlare, di prendere l’autobus, di godersi gli amici nei posti pubblici. Mi ricordo, quando ogni angolo di Gerusalemme scoppiava, come, in visita a Roma, mi piaceva prendere l’autobus per Largo Argentina, godermi la folla in piedi, le curve in cui ci si attacca alle maniglie, chiedermi alle fermate, guardando i passeggeri che salivano, se magari ci fosse, lusso di un pensiero un po’ vano, un qualche ladro. Non dei terroristi. Che sollievo. Nel Paese dell’«hefez hashud» impari a farti automaticamente verificare la borsa a ogni ingresso in un locale pubblico, scuola o supermarket; persino sulla porta della clinica ti frugano, e hanno ragione, alcuni si sono fatti scoppiare dal dottore; impari la tenerezza verso quei ragazzi che siedono sul panchetto fuori del caffè e per due lire fanno da scudo col proprio corpo al prossimo terrorista. Impari a tornare al tuo caffè, al tuo tavolo preferito dopo che è già saltato per aria una volta facendo una strage; anzi, ti piace di più tornarci per sberleffo, e per tigna vuoi il tavolo nella prima fila dopo l’ingresso. E anche se la seconda Intifada è finita, quando entra qualcuno con una giacca troppo voluminosa lo guardi bene, lo segnali al cameriere, valuti se allontanarti. Durante l’Intifada chi poteva accompagnare a scuola i figli in macchina o a piedi evitava di prendere l’autobus, ma anche il contatto parafango a parafango in una città che è esplosa a ogni angolo ti fa ricordare che un tuo amico è rimasto ucciso nell’onda del fuoco quando è esploso l’autobus davanti al suo veicolo. Quando il terrorismo diviene parte della vita quotidiana, nel tuo mondo entrano feriti e famiglie orbate e che tali resteranno per sempre, perché il terrorismo comincia, non finisce con lo scoppio e resta con te per sempre.
Diventano normali episodi incredibili in cui c’è chi ci resta preso due, tre volte nella stessa città, bambini rimangono senza genitori, genitori senza i loro bambini, qualcuno perché mangiava una pizza, qualcuno perché faceva la spesa... Questo è il terrorismo, la guerra peggiore del mondo, quella contro i soli civili innocenti. E tuttavia si disegna una mirabile compensazione psicologica, ogni cena fuori è preziosa, ogni film che vedi al cinema è un godimento, il senso di solidarietà e la forza d’animo che si disegna fra la gente è speciale. Ognuno resta attaccato con le unghie e con i denti alla propria normalità, e quella normalità, quella mancanza di paura, quel restare vivo e attivo è la sua vittoria. Una volta ho intervistato un cameriere del Café Cafit al Quartiere Tedesco, il quartiere bohémien di Gerusalemme: era uno studente bello e quieto che scoprì sul cancello del bar un terrorista carico di esplosivo, gli prese lo zaino e lo portò lontano dal pubblico. Quando gli chiesi se aveva avuto paura disse che gli avventori erano cinquanta, lui uno solo, il resto veniva da sé. Mi raccontò anche che quando arrivò a casa, la mamma che aveva sentito tutto alla radio non gli dette il tempo di salutarla: gli tirò uno schiaffone. Ho sentito mille di queste storie. Così si fa quando si vive in mezzo aglii hefez hashud: si cerca di essere eroi, e di restare persone normali.
Il Giornale- Marcello Foa: " Obama imiti Bush, servono leggi di guerra "
doveva dirlo a Bin Laden, non agli americani
Arthur C. Brooks va ancora una volta controcorrente. Di Obama non si è mai fidato e non ha cambiato parere nemmeno quando i repubblicani parevano in disarmo e molti intellettuali americani si ricollocavano su posizioni progressiste. Brooks da un anno è il presidente dell’American Enterprise Institute, uno dei più influenti think tank di Washington, ma non è un neocon, né un falco. Al contrario, è un cattolico che si batte per un liberalismo solido, saggio e incline a una certa spiritualità, ma che quando parla di terrorismo non fa concessioni, come dimostra in questa intervista concessa al Giornale. Obama starebbe preparando un raid nello Yemen e c’è già chi in queste ore lo paragona a Bush. È diventato davvero un falco? «Assolutamente no. Penso che stia commettendo degli errori piuttosto gravi, di cui peraltro non mi stupisco. Da sempre i presidenti democratici e in particolare più di sinistra come lui, sono sospettati di essere troppo cedevoli sulla difesa e la sicurezza dello Stato. Il modo in cui ha reagito all’attentato sul volo Amsterdam-Detroit lo conferma». Che cosa gli rimprovera in particolare? «Di non essere abbastanza simile a Bush. Gli americani riconoscono al suo predecessore di aver ottenuto un risultato che non era affatto scontato alla fine del 2001: non c’è stato un altro 11 settembre. Ma Obama ha abbandonato quella linea e ora rischiamo di pagarne il prezzo». Ovvero che cosa dovrebbe fare Obama? «Combattere la guerra al terrorismo continuando ad applicare leggi di guerra, che prevedono misure eccezionali. E invece l’attuale presidente pretende di fermare i bombaroli di Al Qaida chiudendo Guantanamo e trattandoli come se fossero criminali comuni, garantendo loro un processo normale. È una tattica disastrosa e controproducente». Eppure Obama intende colpire lo Yemen. Non basta questo a dimostrare la sua determinazione? «Sta commettendo lo stesso errore di Bill Clinton, che negli anni Novanta reagì ai primi attentati di Al Qaida ordinando raid tanto spettacolari quanto, alla prova dei fatti, inutili, perché non inseriti in una strategia coordinata di lungo periodo. E infatti proprio in quegli anni Bin Laden ha potuto preparare quasi indisturbato l’11 settembre». Anche Bush, però ha usato la forza... «Sì, ma non si è limitato a questo. Ha arginato il terrorismo fondamentalista islamico grazie ai servizi segreti e alle forze speciali che hanno lavorato incessantemente per smantellare le reti di supporto del gruppo fondato da Bin Laden. Il loro è stato un lavoro sotterraneo, poco mediatico, ma straordinariamente efficace». Che Obama ha abbandonato? «In parte sì; nel senso che ha posto vincoli e paletti tali da rendere inefficace l’opera di prevenzione. Non mi stupisco: il suo atteggiamento riflette un atteggiamento arrendevole tipico della sinistra, che nel lungo periodo è foriero di nuovi guai. Secondo gli esperti oggi Al Qaida è debole e divisa, ma se l’America smette di braccare i terroristi, questi troveranno il tempo e le risorse per ristrutturarsi. Purtroppo dubito che Obama si ricrederà». Come giudica le nuove misure di sicurezza negli aeroporti? «Inutili. I viaggiatori dovranno recarsi tre ore prima all’aeroporto e probabilmente i trasporti diventeranno più cari per coprire i costi dei nuovi controlli. Perché per intercettare pochi terroristi bisogna danneggiare milioni di cittadini onesti e innocenti?».E in alternativa cosa propone? «Una politica mirata a bloccare i veri sospetti, che però è possibile solo quando le forze di sicurezza possono operare con rapidità e disinvoltura. Se vengono paralizzate dalla burocrazia il risultato è quello che abbiamo visto pochi giorni fa. Il nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab era noto alla Cia, ma l’informazione non è arrivata a chi di dovere. E Umar si è imbarcato sull’aereo».
Corriere della Sera-Ennio Caretto: " Obama come Bush, ma serve più intelligence "
Michael Walzer
WASHINGTON — Per Michael Walzer, la lezione del mancato attentato al volo 253 della Delta è chiara: Obama non deve seguire in Yemen la strada di Bush in Afghanistan. Il terrorismo, afferma l’autore di Guerre giuste e ingiuste, non può essere sconfitto con le bombe, «ma soltanto con l’intelligence, la polizia, la diplomazia, la politica e l’economia», strumenti che vanno condivisi da tutti i Paesi di buona volontà. Vedere nello Yemen di oggi l’Afghanistan del 2001, rileva il filosofo politico, è errato: «Tempi, circostanze, condizioni locali sono molto diversi». Il fallito attentato ha denunciato gravi carenze nel sistema di sicurezza americano.
«Ha confermato che è un sistema burocratico le cui varie componenti a volte non comunicano tra di loro né comunicano con i sistemi alleati. Se lo avessero fatto, Abdulmutallab sarebbe stato fermato facilmente. A oltre 8 anni dalla strage delle Torri gemelle è inaccettabile. Obama si è trovato spiazzato come si trovò Bush».
L’America si accinge a reagire con attacchi missilistici e bombardamenti delle postazioni di Al Qaeda nello Yemen.
«È una reazione legittima sul breve periodo, ma non è un mezzo valido a lunga scadenza. Lo dimostrò il fiasco di Bush in Afghanistan. Le nostre forze speciali nello Yemen non sono la prima linea di difesa del terrorismo come non lo furono a Kabul. Sul lungo periodo occorrono un’opera di prevenzione globale e un’opera di mobilitazione delle nazioni islamiche». Ma sono opere realizzabili? «Secondo me sì. Bisogna istituire un’ intelligence globale coordinata ed efficiente, premendo su chi non collabora o collabora poco, magari ricorrendo alle sanzioni, ma mantenendo sempre aperto il dialogo. Flettere militarmente e unilateralmente i muscoli militari, come fece Bush e come minacciamo di fare adesso, serve poco contro dei fanatici».
Perché considera la situazione dello Yemen nel 2010 diversa da quella dell’Afghanistan otto anni fa?
«Non so fino a che punto l’esercito yemenita sia forte e il governo abbia il consenso popolare. Ma entrambi combattono il terrorismo e il Paese non è nelle mani del nemico. Lo Yemen mi sembra in grado di vincere il confronto, anche perché gli altri Paesi arabi lo aiutano, non vogliono che vi nasca un regime come quello dei talebani. Obama dovrebbe tenerne conto». Mentre nel 2001 in Afghanistan… «La strage delle Torri gemelle fu un atto di guerra e Bush fece bene a rovesciare i talebani. Sbagliò ad andare in Iraq, perché per farlo dovette trascurare Al Qaeda. Oggi ne paghiamo le conseguenze: i talebani occupano una parte del territorio, Al Qaeda è risorto nel Pakistan, noi siamo ancora invischiati nella guerra. È un precedente che Obama deve valutare bene».
In America c’è chi sostiene che il caso Abdulmutallab impedirà di chiudere Guantánamo.
«Anche se Abdulmutallab finisse davanti a una corte marziale, Guantánamo va chiuso, come promise Obama. È divenuto un centro di reclutamento di terroristi. I processi devono essere celebrati di fronte a tribunali regolari e i detenuti dirottati in varie carceri. Bush non capì che la competenza è delle istituzioni civili, polizia e magistratura, e non di quelle militari».
Come suggerisce all’Occidente di comportarsi con nazioni come l'Iran?
«La situazione in Iran è cambiata. C’è un movimento di opposizione popolare e coraggioso. Penso che noi dovremmo appoggiarlo, come appoggiammo quello nell’Urss durante la Guerra fredda, senza rinunciare a negoziare con il regime, la strategia opposta a quella di Bush. Qui l’Europa può avere un ruolo importante, per via dei suoi rapporti commerciali, come la Cina e la Russia».
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