Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Al Qaeda: la sua nuova struttura più ramificata e il nuovo leader, Anwar al Awlaki Analisi di Guido Olimpio, Daniele Raineri
Testata:Corriere della Sera - Il Foglio Autore: Guido Olimpio - Daniele Raineri Titolo: «La nuova Al Qaeda: divisa e moltiplicata - L'ultimo allarme è scattato in Libano - Il cattivo maestro»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 30/12/2009, a pag. 11, due articoli di Guido Olimpio titolati " La nuova Al Qaeda: divisa e moltiplicata " e " L'ultimo allarme è scattato in Libano ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Il cattivo maestro ". Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " La nuova Al Qaeda: divisa e moltiplicata "
L'attentatore del volo Amsterdam-Detroit
WASHINGTON— Al Qaeda 2010 è un insieme di gruppi, di individui e di singoli. Più simile a un network sociale che a una struttura eversiva. Tanto è vero che come milioni di essere umani, i qaedisti— in pianta stabile o amatoriali— si tengono in contatto con Internet. Un affascinante spazio virtuale dove incontrarsi, reclutare, condividere le scelte. È qui che trovano gli ispiratori che non sono soltanto la coppia Osama-al Zawahiri ma il siriano Al Tartusi, il giordano Al Makdisi, l’onnipresente Abu Qetada. I loro scritti— centinaia di testi— sono come tavole delle legge. Grazie al web gli estremisti fanno propaganda, rivendicano — come per il volo Northwest— o reclamizzano l’ultima bomba. Un’operazione di marketing a costo zero, visto che saranno i mass media a rilanciare il marchio. Sia quello vero che quello «taroccato». Non faccio parte del movimento ma fingo o cerco di esserlo. Alla frantumazione delle rete estremista corrisponde anche una delocalizzazione. Non c’è più una sola unica e vera Al Qaeda— ricordiamo, vuol dire «la base» — ma tante quante sono le crisi dove ci sono dei musulmani in lotta. Per questo abbiamo kamikaze una guida in qualche vecchia volpe del terrorismo.
Sono mujaheddin diversi rispetto a quelli del 2001. Per l’assalto all’America c’era Mohammed Atta, il «soldato perfetto» e altri 18 kamikaze. Ben scelti, con alle spalle esperienze nei campi d’addestramento. Erano le «forze speciali» di Bin Laden. Oggi il protagonista è uno studente nigeriano con il volto del ragazzino, con una preparazione affrettata e la mente confusa. Oggi Al Qaeda ha delegato gli attentati a volontari che spesso hanno visto l’Afghanistan solo in tv. Sono i i «nomadi globali» della Jihad, che vivono ovunque e da nessuna parte. Stiamo sul caso Northwest: Faruk ha abitato in Nigeria, Gran Bretagna, Togo, Dubai e infine ha trovato la sua ragion d’essere nello Yemen, dove hanno colto le sue debolezze per trasformarlo in un killer. Ai manipolatori interessa molto il passaporto che portano gli adepti: meglio se occidentale, o comunque non arabo, così si passa più facilmente. Oggi sono molti i giovani che non sono reclutati ma si offrono ai gruppi terroristici. Si avvicinano prima su internet, poi se trovano i contatti giusti entrano in un'organizzazione. In alcune zone è più facile. Ad esempio nello Yemen dove Al Qaeda si è proposta come punto di riferimento e sfida. Garantisce l’indottrinamento, provvede all’istruzione militare, ha dei rappresentanti in qualche città europea (Londra). Altro scenario: il Pakistan. Qui operano facilitatori uzbeki, pachistani, qualche arabo. Membri di sottogruppi che fanno da cinghia di trasmissione. David Headley, un americano di origini pachistane cresciuto a Chicago, è stato agganciato da Ilyas Kashmiri, capo dell’Esercito ombra, nucleo nell’orbita di Al Qaeda. La recluta voleva colpire gli occidentali, ma il suo referente gli ha cambiato il nemico. Così Headley è diventato una sorta di agente segreto che ha partecipato alla preparazione del massacro di Mumbai (novembre 2008) insieme ai separatisti del Laskhar. Tutto però non fila liscio. Proprio perché è affidato allo spontaneismo o a progetti affrettati. Diversi aspiranti arrivati dalla Francia in Pakistan con sogni di martirio hanno scoperto un’altra realtà: sono stati derubati, hanno dovuto comprarsi il kalashnikov e le munizioni, hanno perso giornate in attesa di ordini. Una delusione che ha spinto alcuni a tornarsene a casa. Ma, attenzione, questo non vuol dire che non siano pericolosi. Perché c’è sempre la possibilità che il terrorista fai-da-te riesca nella missione e trovi chi sappia armarlo in modo adeguato. Tutto ciò rende difficile il compito delle polizie, chiamate a inseguire attentatori potenziali come le teste calde che si limitano alla Jihad virtuale.
E tutto questo sta accadendo mentre non sappiamo dove sia il Grande Ispiratore. Osama, 52 anni, non appare da tempo. Lo avrebbero visto a Gazni, in Afghanistan. Altri in Pakistan protetto da 15 uomini, la «guardia nera». C’è chi giura che sia «morto da anni» per un presunto malanno ai reni o forse per le conseguenze di un bombardamento. Un suo alleato, il rapace Gulbuddin Hekmatyar, ha giurato che «è vivo». Washington ha appena ammesso: la sua traccia è fredda da anni. Prenderlo sarebbe importante, anche se i suoi imitatori hanno imparato a fare da soli.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " L'ultimo allarme è scattato in Libano "
WASHINGTON — È una minaccia nascosta, che cova sotto la cenere. E potrebbe toccare anche il nostro contingente in Libano, per poi espandersi verso l’Europa. Un pericolo che viene dal Libano.
In un recente incontro tra funzionari greci ed egiziani— svoltosi ad Atene nei primi giorni del mese— non è stato escluso un possibile scontro tra Israele e gruppi terroristici presenti sul territorio libanese. Una situazione che potrebbe mettere in pericolo la stabilità della regione.
A preoccupare i greci— ma anche altri servizi di sicurezza occidentale— sono due formazioni di ispirazione qaedista. La prima è Fatah Al Islam. Composta da palestinesi e militanti del Golfo Persico, è riuscita a riemergere dopo essere stata schiacciata a cannonate dall’esercito libanese. I suoi membri stanno operando in due direzioni. La prima riguarda il teatro locale: attentati contro le istituzioni e i reparti di caschi blu schierati nel Libano del sud (ne fanno parte anche 2500 italiani). Le autorità hanno compiuto negli ultimi tempi numerosi arresti, tuttavia i terroristi hanno creato cellule compartimentate che sono ancora in grado di passare all’azione. La seconda direttrice riguarda l’Europa. Un nucleo di estremisti, usando la Grecia come base d’appoggio e punto di transito, si è poi sparpagliato in diverse città europee.
Sempre in Libano si è fatta notare un’altra fazione, le «Brigate Abdallah Azzam». Gli islamisti hanno lanciato razzi verso Israele il 21 febbraio e l’11 ottobre di quest’anno. Provocazioni per spingere Gerusalemme a reagire e ad accendere una nuova crisi. Fonti diplomatiche non escludono che in caso di nuovi attacchi scatti una rappresaglia israeliana a tutto campo. Per questo i greci, che hanno buone leve in Medio Oriente, avrebbero accentuato il loro interesse verso i movimenti dei dirigenti delle Brigate. In particolare nei confronti del «cuore» del gruppo: Mustafa Al Majid, Mohammed Tawfiq Ta, Naim Abbas, Naim Abu Bakr e Abu Adam Maqdissi. Sarebbero loro a coordinare le attività di alcune cellule.
A preoccupare gli osservatori è la tattica degli estremisti. I qaedisti sono riusciti a infiltrarsi in un’area che è considerata il regno dell’Hezbollah, la milizia filo-iraniana. Ed è chiaro che una serie di gravi incidenti — attentati, lancio di missili — può trascinare anche la guerriglia libanese in una situazione non voluta. Non meno devastante sarebbe un attacco contro le pattuglie dell’Onu che vegliano sulla tregua. Sono già state prese di mira in passato e potrebbero tornare a esserlo. Per i qaedisti la presenza delle Nazioni Unite nel Libano sud è vista come parte di un grande complotto crociato: i soldati con il basco blu sono considerati la barriera che impedisce agli islamisti di attaccare il «nemico sionista». Un’idea espressa più volte da Ayman Al Zawahiri e poi raccolta dai militanti.
Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Il cattivo maestro "
Anwar al Awlaki
Anwar al Awlaki è l’americano che sta sostituendo Osama bin Laden nel cuore delle nuove generazioni di al Qaida, quelle che non capiscono l’arabo e l’urdu parlato dai mazzieri della guerra santa e hanno bisogno di un mediatore che come loro ha vissuto nelle case in affitto e nelle università occidentali. Al Awlaki era in contatto con tre attentatori dell’11 settembre, una “relazione speciale” secondo le indagini americane, e ha incoraggiato il maggiore dell’esercito Nidal Hassan a sparare all’impazzata contro i suoi commilitoni in una base del Texas lo scorso novembre. Di lui ha detto: “E’ un eroe, un uomo di coscienza che ha fatto la sola cosa che può fare un musulmano che serve nell’esercito degli Stati Uniti”. Al Awlaki è ora nascosto nello Yemen, dove partecipa alle riunioni di al Qaida nel ruolo di figura religiosa carismatica, in grado di legittimare le campagne terroristiche. La vigilia di Natale aerei americani hanno bombardato il suo rifugio. Due giorni dopo, un terrorista ha attaccato un aereo con una bomba “made in Yemen”. Il cittadino americano Anwar al Awlaki è nato nel Nuovo Messico nel 1971. Quando suo padre completò gli studi tornò assieme alla famiglia nello Yemen, ma nel 1991, a vent’anni, era di nuovo in America. Laurea in Ingegneria civile alla Colorado State University, master in Pedagogia alla San Diego State University, nel 2001 si iscrisse per il dottorato alla George Washington University, nella capitale, dove cominciò a lavorare come cappellano islamico. Divenne anche imam in uno dei più grandi centri musulmani d’America, il Dar al Hijirah di Falls Church. Nel 2002 abbandonò gli Stati Uniti per Londra, dove conquistò un grande seguito. Da lì, tornò nello Yemen nel 2004. Magro, con gli occhialini ovali, una vaga rassomiglianza con l’attore italoamericano John Turturro. L’educazione islamica di al Awlaki è povera. Pochi mesi qui e là, lui dice di avere letto e “contemplato” i lavori di diversi importanti teologi, attirandosi però su Internet parecchie insinuazioni sul suo effettivo spessore religioso. Eppure, a dispetto della mancanza di credenziali, al Awlaki diventa una guida religiosa rispettata da tanti giovani islamici anglofoni. Del resto già centinaia di ragazzi inglesi avevano abbracciato al Muhajiorun – “I Migranti”, un’organizzazione estremista poi bandita dopo gli attentati del luglio 2005 – perché il leader del gruppo, Omar Bakri Mohamed, che si autodichiara maestro spirituale, li introduce – loro, che parlano ormai soltanto inglese – ai testi jihadisti fino ad allora disponibili soltanto in arabo e in urdu. Con al Awlaki è lo stesso. E la voce di al Qaida recitata finalmente in inglese a orecchie attente. E’ lui a dire ai discepoli: “La maggior parte della letteratura jihadista è disponibile soltanto in arabo e gli editori non vogliono prendersi il rischio di tradurla. Gli unici che se ne prendono la briga, e per farlo spendono il loro denaro, sono i servizi segreti occidentali, peccato che non vogliano condividerla con voi”. In qualche modo però al Awlaki incontra il mercato. Interviene telefonicamente a conferenze pubbliche come ospite principale, da Washington a Londra al Sudafrica, i cofanetti di cd audio con le sue lezioni e i suoi sermoni registrati – secondo il suo editore – vendono cinque milioni di copie, venduti per posta e nei negozi islamici, anche in America. Tutto materiale confezionato con criteri professionali, cd stampati, box di cartone con immagini di cavalieri che alzano bandiere dell’islam e che è naturalmente finito su Internet: al Awlaki aveva un suo blog ed era attivo anche su diversi social network, incluso Facebook. Da tre mesi è sparito, ma i gruppi di fan che si scambiano i suoi messaggi e le sue lezioni sono ancora presenti, anche se stanno mimetizzandosi in fretta: cambiano nome e non pubblicizzano più il nome di Awlaki. YouTube trabocca dei suoi video e delle sue registrazioni, e dei messaggi preoccupati dei seguaci, che si rassicurano a vicenda: “Come sta? E’ vivo?”. I video di solito cominciano in stile new age, ruscelli che scorrono, albe, la terra che rotea nello spazio; poi arrivano le sequenze prese da Gaza, dall’Afghanistan e dalla Cecenia. La sua platea occidentale dimostra di avere molta più fame di cose forti rispetto al fedele arabo medio. E’ una costante del terrorismo islamista. Persino Osama bin Laden fu influenzato dalla pubblicistica degli esuli sunniti a Londra negli anni Novanta, che chiamavano alla guerra globale. Il ruolo di ponte di al Awlaki funziona anche in senso inverso, per aiutare sauditi che tentano di operare in America. Gli attentatori dell’11 settembre Khalid al Midar e Nawaf al Hazmi entrano in contatto con al Awlaki da quando lui è a San Diego, studente ma già imam alla locale moschea Rabat. Secondo la Commissione d’inchiesta sull’11 settembre al Midhar e al Hazmi stringono con lui una “relazione speciale”: lui è il loro mentore spirituale e i tre hanno “meeting a porte chiuse”. Nell’aprile del 2001, quando Awlaki è diventato imam a Falls Church, in Virginia, il futuro dirottatore al Hazmi si presenta da lui, questa volta con un terzo dirottatore Hani Hanjour. In Virginia al Awlaki conosce un fedele che è anche psicologo nell’esercito: è Nidal Hasan, che otto anni dopo compie una strage – la seconda più grave dopo l’11 settembre – a novembre dentro la base militare di Fort Hood in Texas, mettendosi a sparare all’improvviso contro una fila di soldati – ne uccide tredici – che aspettano di partire per l’Afghanistan. L’Fbi interroga al Awlaki già dopo il 2001, a ripetizione, per i suoi legami con individui sospetti. Nel 2004 torna nello Yemen a insegnare alla Iman University, che tra i suoi volenterosi studenti annovera anche John Walker Lindh, il primo “talebano americano”, catturato mentre combatte a fianco dei guerriglieri afghani nel 2001. La vigilia di Natale al Awlaki è sopravvissuto a un bombardamento aereo americano – ma il governo dello Yemen sostiene di averlo compiuto senza aiuti esterni – nella provincia yemenita di Shabwa. Amici e parenti hanno confermato di avere visto il predicatore vivo, ma rifiutano di aggiungere altri particolari e soprattutto dove si trova. Al Awlaki era nel mezzo di un incontro di al Qaida in Yemen – Aqap in gergo militare, “Al Qaida in the Arabian Peninsula” – per fornire la sua approvazione religiosa a una campagna di rappresaglia contro il raid americano della settimana precedente. La campagna è cominciata ugualmente. Due giorni dopo i passeggeri di un volo transatlantico per Detroit hanno bloccato un nigeriano di 23 anni mentre tentava di far scoppiare una piccola carica di esplosivo militare dall’effetto potenzialmente disastroso. Tra le prime ammissioni dell’attentatore c’è che l’ordigno gli è stato dato in Yemen, e che altri dopo di lui tenteranno di compiere stragi. Il giorno prima della vigilia e del bombardamento, al Awlaki, che vive di mass media e comunicazione, aveva rilasciato un’intervista ad al Jazeera. Deride i sistemi di sicurezza americani. Quando nel dicembre 2008 il maggiore dell’esercito Nidal Hasan lo contattò chiedendogli se fosse lecito ammazzare soldati e ufficiali lui dice di averlo incoraggiato e aggiunge: “Mi chiedo dove fossero le forze di sicurezza americane, che sostengono di poter leggere persino i numeri di una targa dovunque nel mondo”. Al Awlaki nega di essere coinvolto materialmente nella strage, ma lo fa a malincuore: “Se avessi potuto avrei fatto di più. Io ho soltanto indicato la direzione”. Ma non è stato – chiede al Jazeera – un tradimento di un ufficiale americano ai danni del proprio paese? “La cosa più importante è che non ha tradito la propria religione. A un musulmano non è permesso servire nell’esercito americano a meno che non abbia intenzione di seguire i passi di fratello Nidal. La lealtà, nell’islam, va ad Allah e al suo profeta e a i suoi fedeli, non a una manciata di terra che loro chiamano ‘nazione’. La lealtà del musulmano americano va alla nazione dell’islam, non all’America, e per questo l’azione di Nidal è così eroica e benedetta”.
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