Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 30/12/2009, in prima pagina, l'articolo dal titolo " La teologia della repressione" con l'analisi di Fouad Ajami. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 9, due articoli di Viviana Mazza titolati " Iran, il regime all’attacco: Morte ai capi della protesta " e " Il premio Nobel: minacciato anche mio marito ". Dalla STAMPA, a pag. 2, l'intervista di Maurizio Molinari a Moises Naim dal titolo " Mosca - Teheran, non si capisce chi comanda ". Dal GIORNALE, a pag. 9, l'intervista di Rolla Scolari ad Azar Nafisi dal titolo " L’ayatollah sa che l’Onda vuole colpire lui ". Ecco gli articoli:
Il FOGLIO - " La teologia della repressione"

Fouad Ajami
Roma. “In Iran è finita la Repubblica islamica che abbiamo conosciuto, sta emergendo qualcosa che non sappiamo ancora decifrare”. Il grande orientalista Fouad Ajami, decano della Johns Hopkins University e medaglia per le scienze sociali della Casa Bianca, non è ancora in grado di dire se la rivoluzione di Khomeini uscirà rafforzata o indebolita dalle proteste. Assieme a Bernard Lewis, Ajami è stato uno dei pochi arabisti a sostenere la guerra in Iraq ed è stato consulente di Bush. Suoi testi sul medio oriente hanno irrobustito i discorsi di Paul Wolfowitz e Dick Cheney. Ajami è anche uno dei pochissimi americani ad aver avuto il privilegio di incontrare il grande ayatollah sciita Ali al Sistani in Iraq. “Le rivoluzioni hanno molte vite e quella khomeinista sta cambiando radicalmente”, dice il noto accademico al Foglio. “Forse uscirà un regime peggiore dopo l’ondata di disillusione della rivoluzione. Questa è una grande storia persiana a causa dell’arroganza iraniana e della storia del paese. Anche se il regime è stato repressivo e sanguinario, è possibile che resista allo scontro perché in questi trent’anni ha conquistato un grande consenso. Ahmadinejad è un figlio dell’ordine rivoluzionario di Khomeini, un uomo delle brigate del regime, austero e indifferente agli stranieri, l’iraniano qualunque mal vestito. Forse gli iraniani accetteranno nuovamente la rivoluzione una volta finite le sommosse. Quel che è certo è che lo status quo è stato scosso per sempre”. Secondo Ajami, tutto è cambiato con il 1979, l’anno del ritorno a Teheran di Khomeini. “Quando studieremo la storia dell’islam, vedremo che il 1979 è stato l’anno in cui la terra si è aperta. Nel 1979 Khomeini tornò dall’esilio, la grande moschea della Mecca fu assediata da fanatici fondamentalisti, a Kabul arrivarono i carri armati sovietici e in Pakistan veniva impiccato Ali Bhutto. Il messaggio di Khomeini a tutto il mondo era che il clero avrebbe governato. Sono nato nel 1945 in Libano, la mia generazione è laica e secolarizzata, sono un figlio del nazionalismo arabo e giudicavamo i religiosi come persone ridicole. Khomeini è stato un grande rivoluzionario. Con lui l’islam politico è entrato in scena”. Pochi giorni fa a Qom è scomparso il grande ayatollah Montazeri, successore designato di Khomeini poi diventato strenuo avversario del regime. “Lo scontro teologico dentro all’islam sciita è la chiave di tutto”, prosegue Ajami. “Alcuni anni fa scrissi un libro sul grande ayatollah libanese Sadr. Dall’inizio della rivoluzione di Khomeini c’è sempre stata una lotta aperta nel clero sciita. I religiosi devono soltanto consigliare il potere o assumerselo in tutto? Il grande ayatollah Khamenei non vale nulla dal punto di vista teologico e quindi con lui è entrata in crisi l’idea khomeinista di imitazione del potere, di autorità morale. Molti iraniani oggi seguono gli insegnamenti di Sistani, che vive e predica in Iraq. Andai da lui come sciita libanese che parlava arabo con accento persiano, non con il mio passaporto americano. Vidi la sua grandissima autorità morale. I suoi fedeli non lo hanno mai visto, non lo hanno mai sentito parlare, non conoscono la sua voce, in Iraq non ci sono audiocassette di Sistani. Anche l’ayatollah iraniano Montazeri, appena scomparso, era una voce morale, non politica. Non sono Guardie rivoluzionarie, sono autorità giuridiche e morali come nella grande storia dell’islam”. I manifestanti a Teheran hanno chiamato Khamenei “Yazid”. “E’ importantissimo, perché Yazid è il male per eccellenza secondo gli sciiti, è il demone che uccise Hussein a Karbala. Ricordo la sollevazione contro lo Shah Pahlevi, veniva chiamato ‘Yazid’. La rottura fra guida e popolo è ormai profonda. E’ vero però che moltissimi iraniani dipendono dal regime moralmente come guida religiosa, economicamente per il petrolio e a causa dell’apparato di sicurezza. E’ un petro-dispotismo che può sopravvivere anche se le sue fondamenta religiose e morali si sono erose. Una tenebra è scesa sull’Iran. Ahmadinejad e i custodi clericali erano convinti che la storia fosse dalla loro parte e che l’America era una ‘bestia ferita’ in Iraq. Non avevano bisogno di dare un po’ di normalità al tormentato popolo iraniano. C’è poi l’impatto di tre decenni di zelo e indottrinamento. Ci sono iraniani che anelano alla libertà, ma non dobbiamo sottovalutare il potere e la determinazione di chi è mosso dalla pietà”. Il giudizio di Ajami su Obama è netto: “Ha rassicurato i despoti del mondo islamico. Dal 1979 al 2009 molti presidenti americani hanno affrontato Teheran, da Carter a Reagan, e l’Iran ha sempre rifiutato ogni compromesso con gli Stati Uniti, perché l’inimicizia antiamericana è un pilastro del regime iraniano. Obama ha rigettato la ‘guerra al terrore’, perché coniata da Bush. Ma la minaccia esistenziale del jihad è rimasta altissima”. Già, un fallito attentato sui cieli fra Amsterdam e Detroit ci ha riportato sotto gli occhi il pericolo terrorismo. “Mi interessano sempre moltissimo le biografie dei jihadisti”, prosegue Ajami. “Nell’11 settembre c’era Ziad Jarrah, libanese come me radicalizzato in Europa, proveniva da una famiglia agiata di Beirut. Adesso uno studente nigeriano figlio di un banchiere londinese. Il terrorismo non è il prodotto della povertà. Non è guerra e non è pace, siamo nel mezzo. E’ un ragazzo che ha preso un aereo ad Amsterdam. Obama capirà che al Qaida non ha rinunciato a uccidere perché è stato eletto un nuovo presidente. La guerra continuerà e noi continueremo ad avere a che fare con autocrati alla Mubarak e teocrati alla Khamenei”. “E’ una questione di cinismo” Pesa il silenzio islamico sulle stragi che hanno segnato il mondo dopo l’11 settembre. “I musulmani sono gente molto cinica”, dice Ajami. “Il terrorismo e il jihadismo vanno bene se non avvengono in casa loro. Il terrorismo va bene in Iraq se lo guardi da Amman. Così il giordano Zarqawi ha portato la morte a Baghdad. Ma quando ha seminato distruzione in Giordania, la gente si è rivoltata. Conosco bene l’Arabia Saudita; lei potrebbe vivere a Riad o a Jedda tranquillamente e fare terrorismo all’estero. Ma quando i terroristi hanno colpito il suolo saudita, gli imam wahabiti hanno denunciato le operazioni suicide. Se uccidi a Bali, Londra, Madrid o gli americani, l’establishment islamico non dirà nulla, ma condanna il jihad se colpisce i paesi islamici. E’ una questione di cinismo. Il ripensamento sul jihad può avvenire soltanto perché il terrorismo ha ucciso più musulmani che infedeli. Osama bin Laden è un uomo molto intelligente, una volta disse che la gente ammira il cavallo più forte. Tutto è cambiato quando Bush ha portato a casa loro la guerra”. La domanda finale è sulla guerra irachena. “Resto un partigiano della guerra in Iraq, un falco fiero di esserlo, ammiro Bush, Cheney e Rumsfeld, ho lavorato con questi uomini, ho visto come ragionano e ho scritto un libro sull’Iraq. La guerra irachena è stata un classico esempio di intervento umanitario e la democrazia è il dono che l’America ha fatto al popolo iracheno. Abbiamo posto fine alla tirannia del clan di Tikrit dopo gli stermini sciiti e curdi. Una donna irachena mi ha detto: ‘Sotto Saddam vivevamo in una grande prigione, ora nel deserto. Preferisco il deserto’. E’ stata una guerra nobile, il futuro dirà se è stata un nobile successo o un nobile fallimento. Al momento dico con fierezza che è stato un successo, di tanto in tanto vado in Kurdistan e mi meraviglio a pensare a cosa hanno costruito dopo il genocidio di Saddam. Gli arabi hanno fatto del loro meglio per rovinare la spedizione americana col jihad, al Jazeera, i media arabi di Londra, ma americani e iracheni insieme hanno raggiunto una grande vittoria strategica. La guerra in Iraq sarà vendicata”.
CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " Iran, il regime all’attacco: Morte ai capi della protesta "

Khamenei
LONDRA— La guerra psicologica non è meno importante della repressione delle proteste di piazza. Mentre manca tuttora un chiaro bilancio dei morti nelle proteste di domenica, le autorità hanno sferrato ieri violentissimi attacchi verbali ai «nemici interni ed esterni» dell’Iran e almeno 10 nuovi arresti, tra cui attivisti e giornalisti, si sono sommati a quelli dei giorni scorsi.
Una cosa è certa: il regime è deciso a mettere fine una volta per tutte alla protesta. Gli oppositori vengono puniti anche indirettamente, prendendone di mira i familiari.
Agenti dell’intelligence hanno arrestato lunedì alle 9 di sera a Teheran la sorella del Premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi, conducendola in un luogo ignoto. Noushin Ebadi, docente alla facoltà di Medicina di Teheran, non svolge alcuna attività politica o per i diritti umani ma negli ultimi due mesi è stata più volte minacciata per convincere Shirin ad abbandonare le attività per i diritti umani, ha detto la stessa Premio Nobel ieri.
Figli e nipoti di diversi ayatollah riformisti e attivisti politici sono stati arrestati. L’ingegnere Shahpur Kazemi, cognato del leader dell’opposizione Mir Hossein Mousavi, già incarcerato a giugno per 4 mesi, è tornato in manette. Tafferugli tra studenti e milizie del regime sono continuati ieri all’università di Azad a Teheran.
Per le vittime di domenica, il regime nega ogni responsabilità, anzi accusa gli stessi manifestanti: si sparano tra loro, ha suggerito la polizia.
Ma le minacce più pesanti sono indirizzate a Mousavi e a Mehdi Karroubi, l’altro leader dell’Onda Verde. I sostenitori temono da giorni il loro imminente arresto. L’ayatollah Abbas Vaez-Tabasi, vicino alla Guida suprema Khamenei, li ha accusati d’essere «mohareb», nemici di Dio. «E la legge è molto chiara a proposito sulla punizione», ha aggiunto. È la morte.
Secondo il figlio di Karroubi a quest’ultimo è stata tolta la scorta della polizia, un modo per costringerlo agli arresti domiciliari visti i passati attacchi dei paramilitari quando esce in strada.
Sul fronte esterno, il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha rivolto ai Paesi occidentali nuove accuse di fomentare le proteste: quelle di domenica sarebbero state una «nauseante messinscena» orchestrata da «americani e sionisti». Oltre al «Grande Satana» (gli Usa), Teheran se la prende in particolare col «Piccolo Satana»: il ministro degli Esteri britannico David Miliband aveva elogiato l’altro ieri (come Obama) il coraggio dei manifestanti; il «collega» iraniano Mottaki l’ha avvertito che «se Londra non cesserà di dire stupidaggini, riceverà un pugno in bocca».
La Casa Bianca, intanto, ha fatto sapere di spingere per un accordo su nuove sanzioni contro il programma nucleare iraniano, mentre fonti dell’intelligence di Vienna rivelavano che Teheran starebbe cercando di importare 1.350 tonnellate d’uranio dal Kazakistan, in violazione delle risoluzioni Onu.
CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " Il premio Nobel: minacciato anche mio marito "

Shirin Ebadi
LONDRA — «Avevo parlato con Noushin proprio la mattina di lunedì, il giorno in cui è stata arrestata. Le ho chiesto come stavano lei, i due figli e il marito perché domenica era l’Ashura. Le ho domandato se erano andati alle manifestazioni. “No”, mi aveva risposto, “siamo rimasti a casa”». Shirin Ebadi, l’avvocato che per il suo coraggio nella lotta per la democrazia e i diritti umani in Iran ha ricevuto nel 2003 il Premio Nobel per la Pace, risponde al cellulare nel tardo pomeriggio. Dopo l’arresto di sua sorella Noushin lunedì sera a Teheran è stata la stessa Shirin a lanciare l’allarme con un comunicato sul sito riformista Rah-e Sabz. Noushin fa la dentista, insegna all’università, ha 46 anni, 16 meno di Shirin e i loro appartamenti a Teheran sono adiacenti. L’Intelligence voleva che convincesse Shirin a smetterla di opporsi al regime, le avevano chiesto pure di cambiar casa.
Il Premio Nobel Ebadi è a Londra, dove studia Nargess, la sua figlia minore, 26 anni, che ha seguito le orme della mamma, diventando avvocato. L’altra, Nager, 29 anni, ingegnere come il papà, sta ad Atlanta. In un momento in cui il regime prende di mira non solo attivisti, giornalisti, manifestanti ma anche le loro famiglie, l’avvocato ha paura per i cari rimasti in Iran. «Anche mio marito e mio fratello sono stati minacciati», dice al Corriere attraverso un’interprete. Il marito Javad Tavassolian è stato consulente dell’ex presidente riformista Khatami. «Gli hanno ritirato il passaporto, non l’hanno fatto partire. Hanno bloccato anche i suoi conti in banca oltre ai miei, ed entrambe le nostre pensioni. E mio fratello, come mia sorella Noushin, è stato più volte convocato dall’Intelligence e minacciato: gli dicono che deve fare in modo che io cessi le attività per i diritti umani». Osservando poi però con distanza intellettuale questa escalation repressiva, la Ebadi vi vede «una reazione al fatto che la gente non ha più paura del regime, di essere uccisa o ferita, di finire in carcere. E allora le autorità si fanno più violente perché vedono che ormai non hanno più effetto sul popolo». E se dovessero arrestare Mousavi e Karroubi, aggiunge, «allora aggraveranno ancora di più la crisi. Spero che siano abbastanza intelligenti da evitarlo».
Il giorno prima delle elezioni presidenziali di giugno, l’avvocato partì da Teheran per un convegno di tre giorni in Spagna. Dopo le proteste per l’elezione di Ahmadinejad, molti suoi collaboratori sono stati arrestati, licenziati da impieghi pubblici, e lei stessa, se torna, rischia d’essere arrestata. Ma afferma di non avere alcuna intenzione di vivere all’estero. Rifiuta di considerarsi in esilio e preferisce definire questo come un «periodo di viaggi». «Mi sto vedendo con le autorità di tutti i Paesi e anche delle Nazioni Unite». Alla comunità internazionale ha chiesto di rifiutare il risultato delle elezioni iraniane. In passato, ha criticato Obama per aver offerto la mano alle autorità di Teheran, che «hanno le loro sporche di sangue». L’altro ieri il presidente Usa è stato più critico del solito nei confronti della «brutalità» di Teheran. «Il problema iraniano dipende dal popolo iraniano — dice comunque la Ebadi —. Qualunque cosa faccia Obama, che la sostenga o meno, la gente ormai ha deciso di continuare le proteste». Per questo, spiega, «finiti gli incontri, tornerò in Iran. Niente mi tratterrà».
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Mosca - Teheran, non si capisce chi comanda "
Moises Naim
A Teheran e Mosca Barack Obama si trova ad affrontare lo stesso problema: non è chiaro chi comanda». È questa la chiave di lettura con cui Moises Naim, direttore di «Foreign Policy», interpreta le difficoltà della Casa Bianca assediata dalle sfide degli ayatollah come dalle mosse sullo Start di Vladimir Putin.
Teheran accusa Obama di fomentare i disordini di piazza e Putin pone nuove condizioni al trattato Start. Che cosa sta avvenendo?
«La Casa Bianca è alle prese con quelli che sono due dei maggiori problemi del mondo: a Teheran e Mosca non è chiaro chi decide. La difficoltà è trovare gli interlocutori giusti».
Iniziamo da Mosca. Perché Putin dice di voler conoscere i segreti dello scudo antimissile americano prima di avallare la revisione del trattato Start?
«Lo fa per attestare la titolarità sul tema strategico, a dispetto del presidente Medvedev. Il contrasto Putin-Medvedev a volte mette in ombra i dissidi Usa-Russia. Obama a Copenhagen ha parlato del nuovo Start con Medvedev e ora Putin lo rimette in discussione. Sta dicendo a Obama che è lui a fare tali accordi».
Quali sono le opzioni di Obama con una Russia a più voci?
«Deve parlare delle questioni specifiche. Ciò che Putin propone è uno scambio squilibrato: le conoscenze missilistiche russe in cambio dello scudo Usa. È come offrire una casetta per una villa. Difficilmente Obama potrà accettare ma, ripeto, è verosimile che Putin stia parlano anzitutto a Medvedev».
Veniamo all’Iran. Teheran imputa a Usa e Gran Bretagna di essere i registi delle dimostrazioni...
«Anche qui, come a Mosca, non sappiamo chi decide. Fino a pochi mesi fa si pensava che il potere fosse nelle mani del clero ma ora l’iniziativa è nelle mani delle Guardie Rivoluzionarie, che sono una milizia. Obama ha tentato per mesi di negoziare con il clero sul nucleare ma l’interlocutore ora appare indebolito. Queste accuse all’America arrivano dai pasdaran. L’incertezza su chi guida l’Iran è un problema anche della Cina e dell’Ue».
Quali sono le opzioni di Obama di fronte alle proteste in Iran?
«Dentro la Casa Bianca ci sono posizioni diverse. C’è chi sostiene che per aiutare le proteste Obama deve fare il meno possibile, proprio per impedire al regime di accusare i manifestanti di essere eterodiretti, e c’è chi invece ritiene che Obama deve condannare con forza le violenze del regime, perché tacendo spingerà il mondo a fare altrettanto».
Come giudica la reazione di Obama al fallito attentato di Al Qaeda al volo 253?
«Obama si trova a gestire il sistema di sicurezza aerea ereditato da Bush, che si basava su due pilastri: le liste dei sospetti da non far salire a bordo e le ispezioni prima dell’imbarco. Questo sistema ha dato prova di inefficienza perché non è bastata la denuncia di un padre per fermare il kamikaze. È possibile dunque che si vada verso una complessiva revisione del sistema di sicurezza aerea».
La scelta di dirsi pronto a colpire ovunque il terrorismo lascia intendere che Obama seguirà la strategia di Bush?
«Quanto detto da Obama dalle Hawaii suggerisce per il momento che, a differenza di Bush, non vede un solo fronte geografico prioritario rispetto agli altri nella lotta contro Al Qaeda. Le minacce vengono da Somalia, Yemen, Afghanistan, Pakistan, Eritrea, Indonesia, e molti altri posti ancora. Obama vuole far capire che l’elemento geografico sta passando in secondo piano».
Il GIORNALE - Rolla Scolari : " L’ayatollah sa che l’Onda vuole colpire lui "

Azar Nafisi
Conosce bene gli studenti che da mesi in Iran scendono in piazza a contestare il regime. Azar Nafisi ha insegnato all’università di Teheran e ha convissuto con la frustrazione di una generazione per la quale «andare a una festa è un gesto politico». L’autrice di Leggere Lolita a Teheran e Le cose che non ho detto (Adelphi) racconta oggi da Washington come il regime abbia paura proprio di questi giovani che mettono in questione le fondamenta di un intero sistema.
Chi sono i giovani nelle strade, che cosa rappresenta il movimento studentesco?
«Il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha detto che gli atenei, alcuni nati nel secolo scorso, sono bastioni del liberalismo. È vero, è sempre stato così. Quando insegnavo, i miei studenti più “fanatici”, venendo a lezione e leggendo libri, hanno imparato a ragionare con la propria testa. Uno mi disse: “Con il mio master in letteratura inglese non ci faccio nulla: un venditore di sigarette guadagna più di me”. I giovani iraniani non vedono futuro davanti a loro. Vogliono fare quello che i loro coetanei fanno nel resto del mondo. E combatteranno per il loro avvenire».
Cosa vogliono oggi i manifestanti?
«Gli slogan sono diretti contro i leader della Repubblica islamica, primo fra tutti Ali Khamenei. La guida suprema rappresenta le fondamenta stesse del regime iraniano. Quando metti in questione la sua autorità metti in questione l’intero sistema. Ecco perché il regime è così spaventato».
È dunque minacciata la stessa Rivoluzione islamica?
«È per questo che il regime è diventato così violento. La leadership della Rivoluzione islamica è strettamente legata al sistema. Sarebbe stato diverso se i manifestanti avessero messo in questione Ahmadinejad. Il presidente è sotto l’autorità della guida suprema. Il governo sta diventando più violento perché è in pericolo. I manifestanti stanno diventando molto espliciti. Gridano: “Moriremo ma ci riprenderemo l’Iran”».
Come stanno evolvendo le proteste?
«Quello che succede non è più legato alle elezioni di giugno. Sono molti gli aspetti della vita di cui la popolazione non è soddisfatta. All’inizio, l’obiettivo delle proteste era Ahmadinejad. Non era messo in questione l’intero sistema. Le reazioni del regime hanno fatto venire fuori tutto quello che la popolazione odia del governo».
Cosa si aspetta dai prossimi giorni?
«Ho sempre pensato che quando le richieste della società civile vanno oltre la possibilità di risposta di un regime, la situazione non può tenere. Le proteste hanno raccolto troppa energia, non possono spegnersi ora. E il governo sta perdendo sostegno. Hosain Mousavi per esempio era un membro molto importante del regime, era lui che ordinava le repressioni contro donne e studenti. E ora è definito una spia americana».
Mousavi è diventato meno visibile recentemente. C’è un distacco tra leadership delle proteste e i manifestanti?
«È Mousavi a seguire i manifestanti e non il contrario. Gli slogan più recenti non erano indicati da lui».
I manifestanti sono dunque andati oltre la loro leadership nell’opposizione al regime e nelle richieste?
«Ognuno deve fare una scelta: stare o no con la popolazione. Più il regime usa la violenza, più il Paese è instabile. Più il regime usa la violenza, più fazioni interne al sistema si uniscono ai manifestanti. E il movimento è diventato molto radicale nelle sue richieste».
Pensa che dopo questi giorni di violenze il governo possa reagire dando spazio alle domande dell’opposizione?
«Non lo hanno fatto finora. Con le loro azioni hanno radicalizzato le proteste e le posizioni della comunità internazionale. Obama era conciliante, ma loro hanno tenuto posizioni radicali. Si sono messi contro il pubblico in casa e fuori».
Che cosa prova ad assistere dall’estero ai fatti di queste ore a Teheran?
«È un momento di forti emozioni. Ho sempre creduto che la società civile iraniana fosse molto più avanzata del suo regime. Sono però triste nel vedere molte persone uccise».
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