Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Non bisogna sottovalutare il pericolo del fondamentalismo islamico Analisi di Fiamma Nirenstein, redazione del Foglio, cronache di Maurizio Molinari
Testata:Il Giornale - La Stampa - Il Foglio Autore: Fiamma Nirenstein - Maurizio Molinari - Redazione del Foglio Titolo: «Cara Italia, dall'America ti dico: la vera follia è minimizzare - Dall’Iraq allo Yemen, caccia ai terroristi ovunque si trovino - Jihadisti dei quartieri alti, tutti college, Corano e tritolo - Quei messaggeri alati del jihad»
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 29/12/2009, a pag 1-4, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Cara Italia, dall'America ti dico: la vera follia è minimizzare ". Dalla STAMPA, a pag. 2, gli articoli di Maurizio Molinari titolati "Dall’Iraq allo Yemen, caccia ai terroristi ovunque si trovino " e " Jihadisti dei quartieri alti, tutti college, Corano e tritolo". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Quei messaggeri alati del jihad ". Ecco gli articoli:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Cara Italia, dall'America ti dico: la vera follia è minimizzare "
Non è come da noi, dove un paio di turisti sbattuti in ginocchio davanti all’integralismo islamico e alla minaccia sanguinaria di Al Qaida sono per l’opinione pubblica italiana un fatto collaterale al panettone; dove ci si seguita a interrogare da un paio di mesi se Mohammed Game, l’attentatore della caserma Perrucchetti armato di esplosivo e dell’ideologia islamista corroborata in Viale Jenner vada preso alla fine sul serio oppure no. Qui è diverso. Senza il bagno di sangue dell’11 settembre 2001 tutta quanta la mente americana sarebbe diversa. Dopo il tentativo di tirare giù dal cielo di Natale sopra Detroit il 353 della Northwest è meglio non farsi ingannare dal candore della neve, nel freddo punteggiato di festoni colorati, di canti natalizi, di sorrisi generosamente distribuiti col Merry Christmas e il Happy New Year, di colorati, pervasivi regali. Obama è alle Hawaii, ma i segnali che non pensi ad altro che a Umar Farouk Abdulmutallab sono abbondanti: Obama tenne gran parte della sua campagna sulla promessa di restaurare il rispetto per i diritti individuali lasciandosi dietro le spalle l’era che Bush stesso aveva chiamato della «guerra contro il terrorismo»; insistette parecchio sulla scelta di conciliare sicurezza e libertà. Ben tre dei suoi discorsi hanno avuto per tema la sicurezza nazionale. Tutti avevano lo stesso obiettivo: mettere d’accordo il diavolo con l’acqua santa. Lo scetticismo non è mancato, la discussione ha impegnato la gente e i commentatori specialmente sul tema di Guantanamo e della scelta di processare gli attentatori dell’11 Settembre a New York con un processo civile; ma non era niente in confronto alla determinazione di farla finita con la continua minaccia del terrorismo che ora permea tutto il discorso politico americano, per la strada, sugli schermi tv, sui giornali. La grande neve di questo bianco Natale è stata macchiata da una minaccia ormai interiorizzata dal cittadino medio, il terrorismo in questi dieci anni è stato un costante compagno di strada che ha portato a guerre e a giovani morti americani, negli Usa, in Irak, in Afghanistan, nello Yemen, in Medio Oriente. La gente si aspetta adesso che Obama dia qualche segnale di aver capito che il decennio del terrorismo non è finito e che la civiltà americana merita di essere difesa meglio, di più, fino in fondo, senza sperare che il fascino della parola possa incantare i serpenti decisi ad avvelenarla. Lo storico Gil Troy descrive gli Usa di oggi, dopo questo decennio come «Il Paese che nonostante la passata cascata di guerre e catastrofi rimane il vero campo da gioco su cui si misura il mondo, la più prolifica ed eccessiva piattaforma per il commercio e il divertimento della storia dell’umanità». È anche un Paese pieno di cultura, di storia dell’idea di libertà, di senso dei diritti umani. Proprio perché il piacere di viverci è grande, il senso della minaccia qui vale una dura battaglia ed è ancora punteggiato dalle immagini di quei corpi che si lasciano cadere dalle Twin Towers. In questi giorni l’America ha di nuovo percepito, a causa del terrorista nigeriano del Petn, l’esplosivo che stava per essere azionato e che era abbastanza per distruggere l’aereo, che la ferita purulenta deve essere curata radicalmente, che forse il pudore nell’ispezionare all'aeroporto persone per altro già sulla lista è molto bello, ma mette a rischio troppe vite. Un analista di terrorismo dice: «Il profiling di chi proviene dal Medio Oriente è piuttosto preciso, ma se poi un ragazzo ha la pelle nera, allora interviene il pudore di fargli troppe domande, e inoltre in genere agli aeroporti si cerca di infastidire il meno possibile, di essere garbati fino al rischio». Il dilemma è grande, ma in questi giorni gli americani, a decine sui giornali, alla tv, nelle chiacchiere di casa, chiedono alle autorità di cercare una strada precisa, quasi matematica, per combattere quello che è identificato ormai come un nemico che va semplicemente bloccato, prevenuto, cui non si deve concedere niente perché non chiede nessun beneficio concreto, vuole semplicemente la guerra.
La cronista si è resa conto che la rabbia contro il terrorismo negli Usa differisce completamente dalla nostra, incerta e pietistica. Qui il terrorismo è per tutti, a destra e a sinistra, un nemico che non può avere giustificazioni. In giro per Natale in mezzo a un bosco innevato della Virginia, in visita alla casa di Thomas Jefferson il terzo presidente degli Stati Uniti dal 1801, ingegnere e scienziato che da solo si disegnò e costruì una villa palladiana; e prima a Williamsbourg, ricostruita identica a com’era nel 1775, quando gli unionisti decisero infine di rompere con la madre patria inglese e scendere in guerra, non avrebbe potuto sentire più chiaramente la voce dell’America natalizia minacciata. La gente ride con i bambini, fa i pupazzi di neve, splendono le vetrine, la vacanza continua ma le domande girano come eliche: l’onta di essere stati di nuovo minacciati da una morte priva di senso comune invade i discorsi della gente. Perché il terrorista non è stato fermato? Dov’è l’errore della sicurezza internazionale? Che cosa si deve fare adesso? Era nella lista nera dei sospettati, il padre era andato a denunciarlo all’ambasciata americana in Nigeria, era noto come un estremista, e ancora, che cosa succede a questi giovanotti che vengono a studiare da noi, in occidente, si laureano, imparano le nostre abitudini il nostro modo di vita mentre ci chiediamo come meglio integrarli? Cosa gli facciamo per umiliarli, si chiede Christiane Amampur su Cnn, e su Fox News John Gallagher si arrabbia contro la segretaria per la sicurezza Janet Napolitano (che certifica un po' scioccamente che «il sistema funziona») chiedendole se non abbia mai pensato di sospettare di più meglio di tutti gli Ahmad e i Muhammad che prendono un volo americano. È la domanda della gente in gita di Natale: cosa avvelena la mente tanto da rendere un ricco ragazzo nigeriano capace di sognare un’esplosione con centinaia di morti? Cosa c’è di sbagliato in loro? Cosa in noi? E poi: per colpa loro, quante nuove ore di coda ci aspettano negli aeroporti, quali stupidi disagi per affrontare questo nemico strano, che va ad allenarsi nello Yemen per poi ammazzarci a casa nostra? Non si potrà andare in bagno, non avremo coperte, per la loro fissazione religiosa assassina. La gente in gita sui fuoristrada infangati, mentre beve il sidro fumante servito dai serissimi cittadini di Williamsbourg in costume filologicamente perfetto, misura nell’allegria della gita natalizia fuori porta la capacità di reagire a una crisi economica che ancora segna il paese di case in vendita, di imprese chiuse visibili a occhio nudo. Di nuovo il giorno di Natale come al tempo di Richard Colvin Reid, al secolo Abdul Rahem, lo shoe bomber del dicembre 2001, le renne, Babbo Natale, i bambini che tornano a casa in aereo, la vita, tutto è appeso alla capacità di Umar Farouk di sgusciare dentro. Le orme del terrorismo tracciano larghe impronte scure sulla luminosa neve del Mall di Washington, colori di guerra sui suoi dintorni fitti di boschi che ornano le rive del Potomac. Gli americani non ci stanno, qualsiasi cosa ne dica Obama. www.fiammanirenstein.com
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Dall’Iraq allo Yemen, caccia ai terroristi ovunque si trovino "
Meglio tardi che mai
Al Qaeda rivendica il fallito attentato di Natale al volo 253 come un «atto eroico» e Barack Obama risponde con una promessa: «Non staremo solo in difesa, andremo all’attacco di chi ci minaccia». La rivendicazione del tentativo di far esplodere l’aereo Northwest-Delta con 270 persone a bordo sul cielo di Detroit è arrivata con un comunicato di «Al Qaeda nella Penisola Arabica» nel quale si rende omaggio al kamikaze nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab definendolo «un fratello» e vantando di aver «testato un nuovo tipo di esplosivi capace di evadere i controlli». «E’ stata una risposta ai recenti attacchi aerei contro di noi in Yemen» si legge nel testo. «Poiché gli americani sostengono i loro leader devono aspettarsi nuovi attacchi - continua Al Qaeda - abbiamo addestrato uomini che amano morire». Anche Abdulmutallab ha detto all’Fbi di essere solo uno dei kamikaze: «Ci sono molti altri come me». Fonti di intelligence parlano di 25 islamisti pakistani o somali intenti ad «addestrarsi a colpire l’America». Al Qaeda incita i mujaheddin anche a uccidere tutti gli impiegati delle ambasciate occidentali nella Penisola araba in una «guerra totale contro i crociati» e a tutti i soldati musulmani arruolati negli «eserciti nemici» a «pentirsi» e a uccidere «i crociati», citando il caso del maggiore Nadal Hasan, autore della strage di Fort Hood. Neanche un’ora dopo, il presidente americano ha parlato dalle Hawaii rendendo omaggio all’«eroica reazione» di «passeggeri ed equipaggio» riusciti a bloccare il kamikaze e promettendo: «Non ci fermeremo fino a quando non avremo trovato i responsabili di questo tentato attentato, non ci limiteremo a difenderci ma andremo all’attacco dei violenti estremisti che complottano contro di noi ovunque si trovino, in Afghanistan o Pakistan, Somalia o Yemen». Tanto il comunicato di Al Qaeda che la risposta di Obama lasciano intendere che è lo Yemen il nuovo terreno di scontro fra l’America e il terrorismo jihadista. «Al Qaeda nella Penisola Arabica» è infatti la denominazione del gruppo terroristico creato nel 2008 in Yemen dal saudita Said Ali al-Shihri - ex detenuto a Guantanamo - riunendo attorno a sè gran parte dei jihadisti yemeniti che nel febbraio 2006 riuscirono a fuggire dal supercarcere di Sana’a. Fino al 2007 «Al Qaeda nella Penisola Arabica» era la denominazione delle cellule saudite ma dopo essere state sgominate dalle forze di Riad si sono riorganizzate nello Yemen, terra natale di Osama bin Laden. Al-Shihri è il vice della Al Qaeda yemenita, guidata da Nasir al-Wuhayshi (detto Abu Basir), che nell’ultimo numero del magazine online «Sada al-Malahim» ha esaltato il ruolo delle «piccole bombe» per «colpire gli infedeli». Era stato proprio un seguace di al-Wuhayshi a testare in agosto una di queste microbombe inserendola nel retto e facendosi esplodere di fronte al ministro dell’Intelligence saudita. Mohammed bin Nayef è sopravvissuto per miracolo. La terza figura di spicco della filiale yemenita è Anwar al-Awlaki, l’imam nato nel New Mexico ed emigrato a Sana’a nel 2004 che si è vantato di aver ispirato la strage di Fort Hood (13 vittime). Da circa un anno Pentagono e Cia collaborano con Sana’a per sgominare queste cellule che operano in collegamento con altri gruppi islamisti in Somalia ein Egitto - Washington ha stanziato 70 milioni di dollari per i prossimi 18 mesi - e negli ultimi dieci giorni l’intelligence Usa ha guidato gli aerei yemeniti in due blitz contro raduni di Al Qaeda, eliminando almeno 50 militanti fra i quali forse alcuni dei leader. Ma la campagna militare in Yemen appare solo all’inizio. Anche per questo il generale David Petraeus e John Brennan, consigliere antiterrorismo di Obama, si sono recati in successive visite segreta a Sana’a.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Jihadisti dei quartieri alti, tutti college, Corano e tritolo "
L'attentatore del volo Amsterdam Detroit
Le origini agiate del kamikaze nigeriano Umar Farouk Abdul Mutallab portano gli esperti di terrorismo negli Stati Uniti a porsi l’interrogativo su come affrontare la minaccia della «radicalizzazione della classe media musulmana» che non sembra più confinata all’Europa. «L’episodio di Detroit ha messo a nudo il falso mito dei terroristi figli della povertà alimentato dalla cultura terzomondista degli anni Settanta - afferma Jonathan Schanzer autore del libro «Al Qaeda Army» sulle nuove generazioni jihadiste -. In realtà sappiamo che Osama bin Laden e il suo vice Ayman Al-Zawahiri vengono da famiglie benestanti, in Arabia Saudita e in Egitto, così come i terroristi islamici che hanno colpito a Londra nel 2005 o che sono stati arrestati negli ultimi anni negli Stati Uniti non erano certo dei disoccupati o dei diseredati». Rachel Ehrenfeld, che ha dedicato all’evoluzione della struttura di finanziamento di Al Qaeda lo studio «Funding Evil», ritiene che il legame fra radicalizzazione religiosa e agiatezza economica nasca «dalla rivolta dei giovani contro il tipo di vita che vedono condotto dalle loro famiglie, spesso in grandi città europee» portandoli a essere «sensibili, vulnerabili, ai messaggi del fondamentalismo che arrivano dalle moschee che si trovano a frequentare». «L’ideologia di Al Qaeda spinge questi giovani a rivoltarsi contro tutto quanto hanno attorno per poterli poi usare nella Jihad contro l’Occidente e l’America» aggiunge la studiosa. Patrick Clawson, specialista di terrorismo al «Washington Institute», suggerisce di «ricercare la genesi di questo fenomeno nel tipo di educazione ricevuta da personaggi come il kamikaze nigeriano» che si sono formati «grazie ai soldi delle loro famiglie ma in solitudine e nel cuore del sistema dell’istruzione britannico». Se fino a due anni fa si pensava che questo problema riguardasse soltanto l’Europa, adesso le cose stanno diversamente. Mitchell Silber, capo degli analisti della Divisione Intelligence del Dipartimento di polizia di New York, lo dice a chiare lettere: «Pensavamo che radicalizzazione della classe media musulmana fosse un fenomeno soprattutto europeo, legato alle difficoltà di integrazione presenti in alcuni Paesi, ora invece è chiaramente arrivato anche negli Stati Uniti». A dimostrarlo sono episodi recenti come gli arresti compiuti a Dallas, Detroit, Raleigh in North Carolina e Minneapolis di giovani islamici cittadini americani che, pur cresciuti in famiglie senza difficoltà economica, avevano scelto di dedicarsi alla Jihad. «È un gruppo di individui nel quale rientra anche il maggiore Nidal Malik Hasan, che ha ucciso 13 commilitoni nella base texana di Fort Hood» afferma l’ex ministro della Sicurezza Interna, Michael Chertoff, che lo assimila al gesto commesso in precedenza da «un soldato convertito all’Islam che ha ucciso un militare in un centro reclute dell’Arkansas». Per questi individui «l’ideologia della Jihad conta di più delle origini familiari e dello status sociale», aggiunge Matthew Levitt, ex alto funzionario dell’antiterrorismo nel ministero del Tesoro di Washington, secondo il quale «bisogna fare di più per contrastare l’incitamento all’odio che viene dai predicatori fondamentalisti» tanto attraverso il Web che nelle moschee. «Dobbiamo fare i conti con il fatto che si può appartenere al ceto medio-alto, e diventare un kamikaze della Jihad - conclude Farhad Khosrokhavar, autore di «Inside Jihadismo» - e questo può avvenire tanto in Europa quando in Africa, in Asia o negli Stati Uniti». Per Chertoff non è un fenomeno del tutto spontaneo: «Per anni i capi di Al Qaeda hanno mandato in Occidente una moltitudine di persone addestrate a propagare la loro ideologia, e adesso hanno iniziato a raccogliere i frutti desiderati».
Il FOGLIO - " Quei messaggeri alati del jihad "
E’stato uno studente inglese di origini nigeriane, figlio di un ricco banchiere di Londra e laureato al City College, arruolato da al Qaida nello Yemen che orgogliosa rivendica l’attacco, a ricordare a tutti che la minaccia islamista non è un flatus vocis o una fissazione degli allarmisti dello scontro di civiltà. I 278 passeggeri del volo 253 fra Detroit e Amsterdam devono la vita soltanto a un giovane olandese che ha fermato in tempo il terrorista. Ieri persino un editoriale di quell’ammiraglia progressista un po’ ebbra che è il Guardian si concludeva così: anche se ci ritirassimo dall’Afghanistan, non cambierebbe la voglia di al Qaida di ammazzarci tutti. E’ il più grave attentato fallito dopo quello di due anni fa che una cellula di musulmani inglesi stava per realizzare a Heathrow. La campagna terroristica contro l’occidente come sistema di valori e interessi non si è certo fermata perché Guantanamo sta per essere chiusa e la Casa Bianca ha giudicato inservibile l’espressione “guerra al terrore”. Tagliagole hanno rapito una coppia di italiani in Mauritania, sbattendoli davanti a una telecamera che ricorda le esecuzioni rituali di al Zarqawi. Dopo l’11 settembre molte voci si sono levate per criticare la “deriva securitaria” delle democrazie liberali impegnate a difendere le popolazioni dalla minaccia del terrorismo islamico. Il fallito attentato ricorda a tutti perché dobbiamo continuare a scambiare una parte della nostra libertà con la speranza di una maggiore sicurezza. Nel discorso di Oslo, Obama ha chiarito che non si tirerà indietro nella lotta contro “il male”. Parole all’altezza della sfida che lo aspetta. Questi fattori di morte che si fregiano di combattere per il Profeta portano avanti un’azione volta a spazzare via le libertà individuali con l’imposizione di un regime di sottomissione oscurantista. Il Londonistan fermenta nel culto della morte. Questa ideologia tetra e grandiosa stavolta ha assunto il volto del ragazzo bene della City che tronca tutti i rapporti con la famiglia agiata per andare in Yemen, ultimo paradiso del jihad. Al Qaida non sarà la stessa che ha buttato giù le magnifiche torri di New York. Ma come spiega un grande vescovo anglicano, Michael Nazir Ali, in un saggio che pubblichiamo domani, l’ideologia islamista resta la più sensazionale sfida alla democrazia occidentale dai tempi del comunismo sovietico. Tutta la nostra vigilanza ha un senso soltanto se comprendiamo che stiamo ancora combattendo una guerra multifronte contro l’islam radicale.
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