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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
28.12.2009 Cambiare strategia in Iran per evitare il nucleare
Finalmente anche la stampa italiana l'ha capito. Cronache, analisi e interviste di Franco Venturini, Maurizio Molinari, Viviana Mazza, Alix Van Buren

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica
Autore: Franco Venturini - Viviana Mazza - Maurizio Molinari - Alix Van Buren
Titolo: «Cambiare strategia - L'ingegnere sceso in piazza contro il regime - Tutto in rete. Una sfida in diretta mondiale - La Casa Bianca apre al movimento: basta repressione»

Finalmente anche la stampa italiana si accorge che i manifestanti in Iran hanno bisogno di aiuto.
Devono riprendere i finanziamenti ai movimenti di opposizione, ma, soprattutto, deve cessare immediatamente la corsa al nucleare. Non siamo infatti sicuri che un cambiamento di regime potrà garantirlo. Per questo occorre prendere in considerazione, seriamente, un'azione mirata a mettere fuori uso gli impianti nucleari.
Sullo stesso argomento invitiamo a leggere la Cartolina da Eurabia di Ugo Volli di questa mattina, pubblicata in altra pagina della rassegna.

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 28/12/2009, in prima pagina, l'editoriale di Franco Venturini dal titolo " Cambiare strategia ", a pag. 2-3 due articoli di Viviana Mazza titolati "  L'ingegnere sceso in piazza contro il regime" e "  Tutto in rete. Una sfida in diretta mondiale ". Dalla STAMPA, a pag. 2, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "  La Casa Bianca apre al movimento: basta repressione " e la sua intervista a Trita Parsi dal titolo " Ormai la rivolta non si ferma più  ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 4, l'intervista di Alix Van Buren a Tariq Ali dal titolo "  La gente non si fermerà ormai tutto è possibile anche una rivoluzione ", preceduta dal nostro commento. Siamo spiacenti di non poter riportare l'analisi di Livio Caputo dal GIORNALE, non essendo prersente sul sito internet.
Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " Cambiare strategia "

Dopo la mano tesa, dopo le proposte negoziali dell'Agenzia atomica, dopo gli avvertimenti che le sanzioni sono in arrivo e le iniziative militari non vanno escluse, l'Occidente non sa più cosa fare con l'iran. A Teheran la protesta anti-regime è ormai un movimento di massa, ma non di una massa qualunque. I filmati sfuggiti alla censura mostrano che i dimostranti sono quasi tutti giovani. E se questo è un elemento importante ovunque, lo è particolarmente in Iran dove 48 milioni di cittadini (la maggioranza della popolazione) hanno meno di 33 anni. Non basta. I tumulti dalla capitale si sono estesi a tutte le principali città, e a Teheran sono stati teatro di violenze anche quei quartieri della nomenklatura sciita che inizialmente i dimostranti evitavano. La sfida al potere diventa dunque sempre più decisa,: e nulla fa pensare che un regime sulla difensiva possa riassorbire il dissenso militante di chi, pur appoggiando in linea di principio i programmi nucleari iraniani, vuole libertà, modernizzazione, prosperità economica e una politica estera di dialogo. Quella in atto è ormai una rivoluzione strisciante. Che ha avuto per primo risultato quello di invadere i Palazzi di Teheran e sconvolgere gli equilibri preesistenti. E per secondo quello di trasformare l'Occidente in un re nudo. Lo si è visto in occasione delle proposte per l'arricchimento dell'uranio in condizioni di sicurezza: il «falco» Ahmadinejad stavolta pareva propenso al confronto, mentre il presunto moderato Larijani ha guidato il partito del «no». Non si sa più , in pratica, a chi debba rivolgersi la «mano tesa» di Obama, o chi a Teheran sia eventualmente in grado di stringerla senza rischiare l'accusa di tradimento. Certo, abbiamo in riserva le nuove sanzioni. Ma dietro i paraventi formali, chi crede alla loro efficacia? La Cina, sempre in cerca di buoni affari, fa il doppio gioco. La Russia è possibilista con Medvedev e contraria con Putin. In Europa gli unici davvero convinti sono i francesi. Ma anche loro sanno che è difficile colpire il regime senza colpire il popolo, eche l'unica sanzione in grado di spaventare Teheran, quella del blocco del greggio che torna dall'estero trasformato in benzina, è di fatto inattuabile. La conseguenza è che davanti all'iran e ai suoi piani nucleari l'Occidente si muove in un vuoto strategico, prigioniéro dei suoi tentativi falliti. E inevitabilmente avanza così l' opzione militare, pur carica com'è di robuste controindicazioni tanto per Israele quanto per gli Usa e gli altri occidentali. Verrebbe da pensare che Obama, nel 2010, dovrà tentare di guadagnarsi proprio in Iran il suo Nobel per la pace. Ma la bacchetta magica non sembra averla nemmeno lui. Forse è più giusto riporre la nostra speranza nei ragazzi e nelle ragazze di Teheran, pronti a sacrificarsi per quel che noi non sappiamo dar loro.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " La Casa Bianca apre al movimento: basta repressione "


Barack Obama

Barack Obama condanna l’«ingiusta e violenta repressione di civili in Iran» adoperando un linguaggio che avvalora l’impressione di un cambio di rotta nei confronti di Teheran, come suggerito con insistenza da Hillary Clinton e Robert Gates. «Condanniamo duramente la repressione dei civili iraniani che tentano di esercitare i loro diritti universali», afferma il portavoce della Casa Bianca Mike Hammer, sottolineando che «la speranza, la storia e dunque anche gli Stati Uniti sono dalla loro parte».
Il giudizio nei confronti delle autorità di Teheran è severo: «Chi governa con la paura e la violenza non è mai dalla parte giusta». Toni e termini segnano un distacco dall’approccio della Casa Bianca verso Teheran, che nell’ultimo anno ha visto il presidente scrivere almeno due lettere segrete alla guida suprema Ali Khamenei, scegliere ripetutamente il basso profilo sulle manifestazioni di protesta in occasione delle elezioni presidenziali e spedire l’inviato Bill Burns a Ginevra a incontrare i negoziatori di Teheran sul nucleare sostenendo la mediazione multilaterale sotto l’egida dell’Onu. Le ultime due mosse di questo approccio pragmatico sono state, in ordine cronologico, lo smantellamento dell’«Iran Democracy Fund», creato dal predecessore George W. Bush per finanziare l’opposizione iraniana, e il tacito avallo dato all’ipotesi di un viaggio del senatore John Kerry a Teheran in quella che potrebbe essere la visita di più alto rango di un leader politico americano in Iran dal 1979.
Dietro, però, si moltiplicano i segnali di una possibile svolta. A esserne protagonisti sono il Segretario di Stato e il capo del Pentagono, ovvero i due ministri usciti rafforzati dal lungo braccio di ferro sull’invio dei rinforzi in Afghanistan perché sono riusciti a far prevalere la proposta di mandare 30 mila uomini su quella, assai più timida, sostenuta dal vicepresidente Joe Biden. Hillary è stata esplicita nel dire che «nessuno può dubitare del fatto che le nostre aperture all’Iran hanno prodotto molto poco in termini di risposte iraniane». Poi è toccato a Gates far sapere, sfruttando una sosta in Kurdistan, che «nuove sanzioni all’Iran sono in arrivo». Infine il generale David Petraeus, comandante delle truppe in Medio Oriente e alleato di Hillary e Gates nel braccio di ferro sui rinforzi, ci ha messo del suo rilasciando un’intervista alla tv Abc per imputare a Teheran «il sostegno ai militanti sciiti in Iraq e ai taleban nell’Afghanistan occidentale».
A conferma della crescente influenza del tandem Hillary-Gates, il portavoce presidenziale Robert Gibbs nell’ultimo briefing prima delle vacanze di fine anno ha detto che «la finestra per il dialogo con Teheran sul nucleare si chiuderà al termine di dicembre». E un alleato di ferro di Obama come Harry Reid, capo della maggioranza democratica al Senato, prevede che «alla riapertura dei lavori in gennaio» l’aula approverà la legge - già passata alla Camera - che impone sanzioni alle aziende straniere che forniscono benzina all’Iran: le svizzere Vitol e Glencore, l’olandese Trafigura, la francese Total, la britannica BP e l’indiana Reliance. Se alcune settimane fa la Casa Bianca aveva chiesto al Senato di rinviare il varo di tale legge - nel timore di incrinare i contatti con Teheran - il passo di Reid lascia intendere che la situazione è mutata. E in tale diversa atmosfera si spiega perché il liberal «New York Times» abbia pubblicato nella pagina delle opinioni un lungo articolo di Alan Kuperman, direttore del Centro anti-proliferazione dell’Università del Texas, secondo cui «l’unica opzione rimasta per fermare il nucleare iraniano» è «un attacco aereo americano». Nulla da sorpendersi se Kerry ha fatto marcia indietro: «Non è il momento adatto per andare a Teheran».

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " L'ingegnere sceso in piazza contro il regime " 

LONDRA— Il corpo dell’uomo è disteso a terra, in strada. Capelli neri, faccia contro l’asfalto. Lo circonda una folla urlante. Gli denudano la schiena sollevando la maglietta zeppa di sangue. Si intravedono graffi profondi e quella che potrebbe essere una ferita d’arma da fuoco. È il presunto video della morte del nipote del leader dell’opposizione iraniana Mir Hossein Mousavi. Messo su YouTube, è stato linkato ieri su Facebook, Twitter e sui blog con foto dello stesso uomo scattate con i cellulari. Non è possibile provare se sia davvero lui nel filmato, ma la morte di Seyed Ali Habibi Mousavi Khameneh è stata confermata da diverse fonti (tra cui Parleman News, sito attendibile dei riformisti nel Parlamento; stretti consulenti di Mousavi; e la stessa tv di Stato che accusa però «assalitori sconosciuti», mentre altre fonti del regime smentiscono). Di lui si sa poco. Secondo i siti dell’opposizione, era un ingegnere di 35 anni, figlio della sorella di Mousavi. Aveva due figli. Il titolo «Seyed» indica i discendenti del Profeta Maometto, «Khameneh» la provenienza da una cittadina dell’Azerbajan orientale. Suo fratello Ibrahim era un «martire»: morto nella guerra contro l’Iraq negli anni 80. Ali manifestava ieri in piazza della Rivoluzione a Teheran quando verso mezzogiorno un proiettile l’avrebbe colpito al cuore (altri dicono a una spalla). Portato all’ospedale di Ebn-e Sina, l’avrebbero dichiarato morto all’arrivo. Secondo Parleman News c’erano Mousavi, sua sorella e sua moglie Zahra, e una gran folla fuori, anche se l’ospedale ha negato di avere un paziente con tale nome. Su Facebook, nel gruppo di sostenitori di Mousavi «Green Revolution» è stato messo ieri sera il primo piano di un cadavere, con un lenzuolo annodato sulla testa: sarebbe lui, in ospedale. Non era un attivista politico, ma un membro di una famiglia solo di recente scesa in campo contro il regime e trovatasi nel mirino delle autorità (anche il cognato di Mousavi, fratello di Zahra, l’ingegnere Shahpour Kazemi è stato rinchiuso in carcere per mesi). «Martire», lo chiamano, per aver combattuto in difesa dell’Iran, come suo fratello Ibrahim, ma stavolta contro le autorità.

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " Tutto in rete. Una sfida in diretta mondiale "

LONDRA— «Abbiamo messo insieme una lista di link a filmati che la gente ci ha mandato dall’Iran». Subito dopo le elezioni del 12 giugno Maysam Makhmalbaf, figlio del regista di Viaggio a Kandahar, dissidente a Parigi, inviò una trentina di link al Corriere e ad altri media stranieri. Erano video su YouTube, girati nelle strade iraniane coi cellulari durante le prime proteste contro la rielezione di Ahmadinejad. Oggi non c’è più bisogno che i dissidenti li inoltrino. I giornalisti e gli spettatori di tutto il mondo che vogliono seguire gli eventi in Iran sono attaccati da un cordone ombelicale a Facebook e Twitter. È una rivoluzione dell’informazione che ha permesso all’opposizione di scavalcare la censura del regime e che è parte integrante della rivoluzione che sta avvenendo nelle strade dell’Iran. La cacciata dei giornalisti stranieri, il divieto a quelli residenti di scendere in strada, il filtraggio dei siti sgraditi e il rallentamento della Rete nel suo complesso non riescono a sigillare il rubinetto: le informazioni gocciolano fuori e filtrano lo stesso. Il lavoro difficile è verificarle.

«Siamo stati disconnessi. Telefoni fissi e cellulari non funzionano, non abbiamo dettagli», lamentava ieri la giornalista Nooshabeh Amiri del sito Rooz Online. Dalla Francia aveva tentato undici volte di contattare un leader riformista a Isfahan per verificare voci diffuse su Facebook sull’uccisione di suo fratello. La linea cadeva ogni volta dopo poche parole. Uno dei siti principali che ieri dava notizie delle proteste era Jaras, che ha sede negli Usa. È legato a Mohsen Kadivar e altri riformisti vicini all’Onda Verde, dice Amiri. «Ma la distanza fa sì che in passato abbia dovuto smentire informazioni che aveva dato». Kaleme e Tagheer dei due leader dell’opposizione Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, con sede in Iran, come pure Rahesabz.net (ieri fuori uso) e Nouruz (direttore belga ma sede a Teheran), tutti in farsi, sono tra i siti principali dell’Onda Verde, insieme a Parleman News (dei riformisti in Parlamento). Ma l’esperienza su cui si basano è quella maturata negli anni dagli attivisti dei diritti umani, dalle donne e degli studenti, molti dei quali fanno parte del movimento verde. Siti come Advar News (del movimento studentesco Advar Tahkim) e Autnews.ws (dell’ateneo di Amir Kabir) sono in prima fila nel diffondere informazioni oltre la censura. E a girare video nelle strade ci sono anche professionisti come Jafar Panahi: il regime censura i suoi film, ma non ha potuto bloccare il suo filmato di un attacco contro una centrale di polizia da lui postato ieri su Facebook.

Non è una rete organizzata. «Anzi un punto di forza di questo movimento è che non ha un singolo leader ma si basa sulla società civile», dice da Oslo l’attivista Mahmood Amiry Moghaddam. Lui cerca di verificare con proprie fonti ogni notizia. Le agenzie più o meno ufficiali del regime come Fars, Irna e Isna, e le tv di stato mostravano ieri (come sempre) le processioni ufficiali, inclusa quella con Ahmadinejad, e accusavano i media stranieri di esagerare nel dare notizia delle proteste dell’opposizione. Ma quando le immagini drammatiche di manifestanti insanguinati erano ormai sui siti di tutto il mondo, non hanno più potuto negare.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Ormai la rivolta non si ferma più "


Trita Parsi

Stiamo andando verso una svolta nelle manifestazioni a Teheran: o ci sarà un compromesso o una delle due parti in lotta prevarrà sull’altra». Trita Parsi, direttore del «National Iranian American Council», la più rappresentativa organizzazione degli iraniani in America, interpreta le violenze in corso a Teheran come lo specchio «dell’incapacità da parte del regime di mettere a tacere l’opposizione popolare».
Perché la polizia ha fatto fuoco sui dimostranti?
«Le forze di sicurezza non sono più in grado di contenere le manifestazioni nelle strade perché coinvolgono migliaia di persone. Il presidente Mahmoud Ahmadinejad aveva considerato le proteste un capitolo chiuso, archiviato. Ma non è così perché oramai il movimento di opposizione è cresciuto rispetto alla fase in cui chiedeva solamente la riconta dei voti espressi alle scorse elezioni presidenziali».
Che cosa distingue, a suo avviso, le nuove proteste da quelle post-elettorali?
«Due fattori. Primo: si autorigenerano e dunque non dipendono più da alcun leader politico, non è più Mir Hossein Mousavi a guidare la piazza e non c’è una guida riconosciuta. A una protesta ne segue un’altra, portando nelle strade un numero crescente di persone comuni, a cominciare dai giovani e dalle donne. Secondo: l’obiettivo dei manifestanti non è più ridiscutere il risultato presidenziale ma contestare Ali Khamenei, la Guida Suprema della rivoluzione, considerato un despota, un vero e proprio dittatore. Al quale si chiede di lasciare al più presto il potere».
Dunque, che cosa può avvenire?
«Siamo in una fase di crescita delle manifestazioni. Il regime è stato preso alla sprovvista e la polizia, in difficoltà, spara, iniziando a uccidere».
Teme repressioni indiscriminate?
«Non siamo ancora all’escalation in grande stile delle violenze. Se Khamenei e i suoi seguaci avessero scelto di ordinare la repressione, avremmo visto non quattro ma centinaia di morti e la reazione dei manifestanti sarebbe stata durissima. Ciò che oramai è evidente a tutti è che nessuna delle due parti in campo è in grado di prevalere».
Si va a una resa dei conti?
«Siamo a un bivio: il regime e i manifestanti possono trovare un compromesso oppure andare verso un confronto totale, che si preannuncia molto doloroso. Saranno i prossimi giorni, le prossime settimane, a suggerire la direzione presa dagli eventi. Tutto può ancora avvenire».
Che cosa pensa dell’uccisione di Ali Mousavi?
«Non conosco la dinamica di quanto è avvenuto ma potrebbe essere stato un avvertimento recapitato dal regime a Mousavi per fargli capire che lui e la sua intera famiglia potrebbero pagare un prezzo molto alto se le proteste dovessero continuare. Si tratta però di un avvertimento destinato ad avere scarso esito perché, come dicevo, Mousavi non sembra più in grado di coordinare nulla. La fase in cui era lui il leader di riferimento è superata, anche se forse Ahmadinejad e Khamenei non se ne rendono ancora pienamente conto. Ciò che tiene banco in questo momento in Iran, e non solo nella capitale, è la rabbia della popolazione contro il despotismo di Ali Khamenei».
Come giudica le contromisure adottate dal presidente Ahmadinejad?
«Il presidente sembra oramai relegato in un ruolo marginale. All’estero parla solo del programma nucleare, ignorando cosa avviene in patria, è incapace di riportare l’ordine nelle piazze delle maggiori città e ha delegato la gestione delle forze di sicurezza a Khamenei. La sua debolezza politica è evidente. La soluzione della crisi non sembra più essere nelle sue mani».

La REPUBBLICA - Alix Van Buren : " La gente non si fermerà ormai tutto è possibile anche una rivoluzione "

Povero Tariq Ali, dopo una vita trascorsa a credere nel comunismo, gli è rimasto solo l'odio verso gli Stati Uniti. Ecco l'intervista:


Tariq Ali

«Gli scontri a Teheran fra manifestanti e guardie rivoluzionarie segnano una nuova, rischiosissima fase. In queste ore, tutto è possibile, persino una deriva rivoluzionaria come alla vigilia della fuga dello Scià». Tariq Ali, storico, autore di saggi molto letti dall´Amministrazione Obama (l´ultimo è il polemico I protocolli dei Saggi di Sodom sulla politica occidentale in Oriente) studia, in queste ore da Londra, le piazze iraniane. «La decisione di sparare su una manifestazione pacifica è una provocazione davvero irragionevole da parte del regime. Per di più, capita in un momento fra i più scivolosi per le autorità».
Signor Ali, lei calcola un rischio tanto alto?
«Perché no? I chierici non sono mai stati tanto divisi al loro interno quanto lo sono oggi. L´Iran è di nuovo sotto i riflettori mentre l´America stringe il cappio con nuove sanzioni. In più, il mondo sciita adesso celebra la festa religiosa del Muharram, quando per definizione è proibito il ricorso alla violenza. In questo scenario, fare fuoco sui civili vuol dire allineare con i manifestanti larghi segmenti della popolazione finora non ostile al regime. Insomma, s´è prodotta una miscela esplosiva».
A che punto esplosiva?
«Che oramai tutto è possibile. Le prossime 24, 36 ore ci diranno in quale direzione andrà il Paese. Ascolti: nella tradizione sciita, a ogni morte seguono 40 giorni di lutto. Oggi si svolgeranno i funerali dei civili uccisi, altre migliaia di dimostranti si riverseranno nelle piazze. Il fatto che i miliziani basiji abbiano sparato sulla folla vuol dire che questi sono sfuggiti al controllo. Se verrà versato altro sangue, potremmo assistere a una campagna simile a quella che alla fine degli Anni Settanta rovesciò lo Scià».
Che similitudini vede?
«La più inquietante, dall´osservatorio dei chierici, è che l´opposizione sia pronta a sfidare la morte. Successe proprio così nel ´78 e nel ´79. Se i civili non si fermeranno di fronte ai fucili, la protesta di massa potrebbe mobilitare nuove fasce della popolazione».
Quali?
«Innanzitutto la classe media, finora più o meno ai margini, ma che scalpita per un accordo con l´Occidente. Poi c´è l´esercito. Diviso com´è fra lealtà al regime e inclinazione verso i riformisti, non sappiamo come questo reagirà. Potrebbe disobbedire agli ordini di sparare contro i dimostranti, come trent´anni fa. Fu allora che lo scià scappò e i rivoluzionari presero il potere».
Che peso ha la morte del Grand Ayatollah Montazeri nell´accelerazione di questi giorni?
«Ha peso, eccome, e per più d´una ragione. Intanto, lui era una figura fondamentale del dissenso, fin dai tempi di Khomeini. In secondo luogo, ispirava rispetto oltre i ranghi degli oppositori. L´avere proibito ogni pubblica funzione in sua memoria il 24 dicembre s´è rivelata una delle prime mosse avventate. Se poi dovesse arrivare la conferma dell´uccisione del nipote di Moussavi, il leader dei riformisti, si spalancherebbe una stagione di una brutalità straordinaria».
L´America di Obama che parte ha in questo suo scenario?
«Le illusioni su una svolta della Casa Bianca stanno tramontando. Il presidente Obama continua a dettare condizioni all´Iran senza promuovere un vero negoziato. Ha forse modificato il linguaggio, ma nella sostanza ricalca la politica di Bush. Dunque, le sanzioni resteranno ancora una volta senza effetto».
Perché ne è sicuro?
«Perché verranno ignorate, come già in passato. La Cina e la Russia, che hanno contratti importanti con l´Iran, non si taglieranno da sé la gola sotto il profilo economico. La speranza in Occidente è che il regime venga scalzato dall´interno, che si possa trattare con un nuovo governo».
Signor Ali, e l´Occidente ha ragione?
«No: s´illude. Infatti nessun governo iraniano tratterà in base a ciò che l´America offre. Però la questione pressante è un´altra: è quel che accadrà in Iran nelle prossime ore: una faccenda tutta interna a quel Paese. Mi creda, la stupidità e la debolezza del regime possono riservare molte sorprese».

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