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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
22.12.2009 Iran: proteste contro il regime al funerale dell'ayatollah Montazeri
Analisi di Carlo Panella, Giulio Meotti, Maurizio Molinari, Tatiana Boutourline, Luigi De Biase

Testata:Il Foglio - La Stampa
Autore: Carlo Panella - Giulio Meotti - Tatiana Boutourline - Maurizio Molinari - Luigi De Biase
Titolo: «L’ayatollah Topo Gigio - Gli eredi (pallidi) di Montazeri, ayatollah dissidenti perseguitati dal regime - L'ayatollah depresso»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 22/12/2009, a pag. 1-III l'articolo di Carlo Panella dal titolo "  L’ayatollah Topo Gigio", a pag. III,l'articolo di Giulio Meotti dal titolo "  Gli eredi (pallidi) di Montazeri, ayatollah dissidenti perseguitati dal regime", a pag. 1-II, l'articolo di Tatiana Boutourline dal titolo " L'ayatollah depresso ", a pag. II, l'articolo di Luigi De Biase dal titolo "  Toh! Il mistero dell’aereo coreano carico di missili ha un finale in Iran". Dalla STAMPA, a pag. 17, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Ahmadinejad: le vostre sanzioni non ci fermeranno  ".

Il FOGLIO - Carlo Panella : "  L’ayatollah Topo Gigio"

 
Ayatollah Montazeri

Roma. “La Repubblica islamica dell’Iran non si fonda più sulla ‘velayat-e faqih’, la supremazia del giureconsulto, ma sulla “velayat-e nezami”, la supremazia dei militari”. Con questa felice sintesi Hossein Ali Montazeri aveva preso atto, il 9 luglio scorso, del fallimento del sogno della sua vita. Aveva soprattutto dato al movimento d’opposizione iraniano lo spessore di una critica teologica, tutta interna all’islam sciita, al regime ormai controllato da ayatollah – anzi, pseudo ayatollah – oltranzisti incarnati nella figura di Ali Khamenei e da pasdaran, i “militari”, il cui simbolo e speaker è il presidente Mohammed Ahmadinejad. I “militari” di cui parla Montazeri non sono generali di regimi dittatoriali golpisti, ma quel “clero combattente” che fece la sua comparsa, con la benedizione di Khomeini, con la occupazione dell’ambasciata americana di Teheran del 1979. Un’edizione in chiave sciita e moderna della figura del “ghazi”, il monaco guerriero dell’era araba classica, un mix tra l’uomo di religione e il guerriero che è la vera, intrinseca caratteristica del pasdaran. Quel “clero combattente” che Khomeini – con l’acquiescenza di Montazeri – pose quale fulcro del suo blocco di regime quando eliminò – e spesso uccise – non soltanto i laici alla Bazargan a cui aveva affidato in prima battuta il governo, ma anche i quattromila tra mullah e ayatollah che imprigionò – o mandò sulla forca – dopo il 1981. La vita, gli errori, ma anche l’onestà intellettuale – tardiva – di Montazeri rispecchiano tutto il percorso e l’evoluzione della Rivoluzione iraniana dal 1979 in poi. Nella sua denuncia finale sul ruolo egemonico dei “militari” islamici, Montazeri ha fornito, pochi mesi fa, anche la traccia per comprendere quale sarà il futuro dell’Iran e quanti errori faccia oggi l’occidente “dialogante” alla Obama nel relazionarsi al suo regime. L’ignoranza delle vicende interne al mondo sciita e alla sua misteriosa gerarchia ha sempre fatto credere in occidente che con Khomeini avessero preso il potere gli ayatollah, i religiosi, la gerarchia sciita. Niente di più falso. Con la Rivoluzione del febbraio del 1979, Khomeini riuscì a compiere un’operazione opposta: impedì con ferocia e determinazione che i grandi ayatollah dell’Iran (e soprattutto quelli ben più importanti per gli sciiti dell’Iraq, di Najaf) potessero condizionare la gestione della Repubblica islamica e formò invece un gruppo di comando in piena rottura con la millenaria tradizione sciita. Una rottura sul piano dottrinale – la sua teoria dello stato è assolutamente “scismatica” – e una rottura sul piano politico più stretto. In questo processo Montazeri, sino al 1988, ha svolto un ruolo chiave. Tanto che della sua degenerazione totalitaria, che solo tardivamente ha denunciato – pur pagandone un terribile peso personale – porta tutte le responsabilità. Montazeri è stato l’archetipo del religioso sciita su cui Khomeini ha costruito il suo “Partito di Allah”, o “Hezbollah”. Nato nel 1922 da una famiglia di agricoltori nella provincia più profonda, a Najafabad, nell’Iran centrale, Montazeri cominciò gli studi religiosi a dieci anni, prima a Isfahan e poi a Qom, cioè in università coraniche periferiche rispetto a quella di Najaf, in Iraq, che è il vero e unico “Vaticano sciita”, che forma la più importante Marjia a cui gli sciiti di tutto il mondo guardano. Marginale, come Khomeini, rispetto alle intricate e misteriose correnti che costituivano la direzione teologica e politica degli sciiti iraniani, Montazeri è stato uno dei pochissimi ayatollah che Khomeini si trovò al suo fianco nel 1963, quando chiamò il popolo iraniano alla rivolta contro la Riforma agraria antifeudale dello scià. Riforma che J.F. Kennedy impose (quasi con la forza) allo scià Reza Pahlevi col fine di liberare i contadini da rapporti di servitù della gleba, di favorire la formazione di una classe di agricoltori medio-alti e di accelerare così un minimo di accumulazione finanziaria su cui innestare lo sviluppo. Quella “rivoluzione bianca”, pilotata da un kennedismo dogmatico e velleitario, conseguì un discreto successo strutturale, ma produsse un disastro culturale e sociale, di cui Khomeini – con Montazeri – fece pieno profitto. Nella primavera del 1963 i loro appelli alla rivolta contro la Riforma agraria ebbero grande eco, le manifestazioni scossero Teheran e tutto il paese. Il regime scricchiolò, rispose con una repressione feroce, seminò morte per le strade e superò la crisi soltanto con la repressione più dura. Khomeini fu prima condannato a morte – pare – e poi grazie al grande ayatollah Shariat Madari (il più autorevole di Qom) fu costretto all’esilio a Najaf. Ma lasciò in Iran il fido Montazeri che – più volte arrestato – si rivelò nell’arco di 15 anni un eccezionale organizzatore e catalizzatore di consensi in tutte le moschee delle campagne e in quelle delle periferie di Teheran. I suoi interlocutori erano le decine di ayatollah e le migliaia di mullah che controllavano i grandi latifondi che possedevano le Waqf, le Fondazioni islamiche, che avevano visto colpiti a morte interessi fondiari e ruolo sociale. E non erano isolati dai loro fedeli. La Riforma agraria produsse un’epocale urbanizzazione di braccianti e piccoli contadini travolti e privati del loro reddito di sussistenza, che si riversarono su una Teheran passata dalle poche centinaia di migliaia di abitanti dei primi anni Sessanta agli attuali 10-12 milioni. Per 15 anni, dal 1963 al 1978, Montazeri fu al centro della trama di una resistenza sotterranea, i cui nodi principali erano religiosi di scarso peso teologico, ma molto radicati socialmente nelle province e nelle campagne. Ali Khamenei, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani (latifondista di pistacchi) e Hossein Behesti erano i più tipici rappresentanti di questa leadership parallela, guardata dall’alto in basso dai grandi ayatollah di Qom, nettamente opposti al cosmopolitismo moderno di un altro ayatollah, Mohammed Taleghani, che era la figura più amata e seguita a Teheran. Per usare un termine europeo: in quegli anni Montazeri ha organizzato capillarmente l’insurrezione della Vandea iraniana. Con la differenza che quella Vandea di mostafazin ( i “diseredati”) e di religiosi marginali materialmente circondava – e poi ha “mangiato” – la capitale, la polis, la sua rivoluzione e i dirigenti laici che aveva prodotto. Conquistato il potere con la Rivoluzione del 1979, si scoprì che la dirigenza laica che Khomeini era stato in un certo senso obbligato a porre al vertice della sua Repubblica islamica era in realtà priva di spessore, che aveva un’esile base popolare di consenso. Usando prima l’occupazione dell’ambasciata americana di Teheran e poi la guerra con l’Iraq, Khomeini ebbe buon gioco a eliminare dal governo i laici Mehdi Bazargan, Abolhassan Banisadr, Ibrahim Yazdi, Ahmed Salamatian e Ghotbzadeh Sadegh, per affidare il compito di gestire lo stato, ai suoi ordini, al partito della Repubblica islamica di Rafsanjani e Khamenei. Il “partito della Vandea islamica iraniana”, con i suoi dirigenti dal secondario peso dottrinale (sia Khamenei sia Rafsanjani non erano ayatollah, ma solo hojatoleslam), esercitò da allora in poi il controllo di tutti i gangli del potere. Montazeri ebbe da subito da Khomeini il pieno riconoscimento del suo ruolo centrale nella formazione del proprio blocco di potere e fu da lui, da subito, indicato quale suo successore come Guida della Rivoluzione, Rahabar, giureconsulto. Montazeri assecondò per anni, senza mai fiatare, la più crudele ed efferata gestione del potere khomeinista, l’eliminazione dei laici (anche fisica, Ghotbzadeh Sadegh finì sulla forca), la repressione in Kurdistan e l’uccisione di migliaia di oppositori di provata fede musulmana, a iniziare dai mujaheddin del popolo fondati dall’ayatollah Teleghani. Al suo fianco aveva Mir Hussein Moussavi, nominato primo ministro nel 1981, oggi leader degli oppositori, allora fedele esecutore dei più crudeli ordini di Khomeini. Ma Montazeri fece anche di più: fu complice nell’estirpazione – il termine è quasi un eufemismo – del ruolo dei grandi ayatollah dalla gerarchia sciita iraniana. Morto l’ayatollah Taleghani, Khomeini portò a termine questa emarginazione con una mossa magistrale: accusò il più seguito e autorevole ayatollah di Qom, Shariat Madari, di aver complottato contro di lui. Gli risparmiò la vita (perché gli doveva la sua, dal 1963), ma lo ridusse allo stato laicale e agli arresti domiciliari. Poi arrestò o fece uccidere – come testimonia Amir Taheri – non meno di 4.000 tra ayatollah e mullah. Infine e senza problemi, grazie a questa stagione di terrore, costrinse i grandi ayatollah a occuparsi – pena la persecuzione più dura – unicamente di studi teologici. Montazeri fu decisivo, materialmente, per la scrittura della Costituzione teocratica della Repubblica islamica, emarginando sia Shariat Madari (che chiamò invano il popolo a opporsi) e altri ayatollah. Già negli anni Sessanta Khomeini – che non era affatto un gran teorico ed era marginale nella gerarchia sciita – aveva trovato in Montazeri il teorico in grado di permettergli di sviluppare il suo scisma. Montazeri aveva prodotto testi che risolvevano in modo originale e propositivo il dilemma che aveva sempre travagliato il mondo sciita: dando per assodato il rifiuto della legittimità dei califfi sunniti (che avevano usurpato la carica emarginando i discendenti di Maometto, a partire dalla figlia Fatima e da suo marito Ali) e ancor più dei sovrani laici (vuoi le dinastie Safavidi e Qajar, vuoi quella dei Pahlavi), qual era il modello di stato cui gli sciiti dovevano ispirarsi? Shariat Madari, Taleghani e altri grandi ayatollah avevano risposto nel 1978, quando la Rivoluzione era ancora in marcia e il potere dello scià, ancora regnante, iniziava a scricchiolare: a causa dell’assenza dalla Storia del dodicesimo Imam (che è in un certo senso il Messia sciita), il compito di interpretare il volere di Allah si era “diffuso nella umma” in cui risiede la sovranità (ovviamente escludendo o marginalizzando i non musulmani). Era un’originale concezione in alveo islamico della democrazia, della necessità teologica del pieno esercizio della sovranità popolare. E’ questa oggi la concezione della sede della sovranità, teorizzata dalla Marjia di Najaf e dal grande ayatollah Ali al Sistani, che nel 1979 si oppose fieramente alla Costituzione voluta da Khomeini. E’ questo il principio che ispira la Costituzione della Repubblica dell’Iraq, quella Costituzione democratica cui oggi guardano gli oppositori del regime iraniano. Montazeri, in sintonia con Khomeini, propendeva per tutt’altra e opposta opzione: in assenza del dodicesimo Imam il potere, tutto il potere, va riconosciuto solo e unicamente ad Allah e sulla terra non deve affatto essere esercitato dalla sovranità popolare della umma, ma da un uomo e un uomo solo: il Giureconsulto, secondo la formula della “Velayat-e faqih”, il governo del Giureconsulto. Questa è l’essenza dello scisma khomeinista. Questo è il fondamento della teocrazia iraniana. La Costituzione iraniana è la riproposizione moderna della concezione dello stato del grande filosofo sciita Abu Nasr al Farabi, vissuto a cavallo tra il IX e il X secolo, che aveva delineato uno stato neoplatonico piramidale (simile alla Città del Sole di Tommaso Campanella o a Utopia di Thomas Moore) in cui al Filosofo, meglio, al Giureconsulto, al Conoscitore della Legge spettava il ruolo apicale, di Guida, mentre una serie di Consigli ne avrebbero accompagnato e aiutato la direzione dello stato. In realtà, Montazeri non concepiva il ruolo del Giureconsulto esattamente come Khomeini e pensava che il suo fosse solo un ruolo di supervisione autorevole e inappellabile, rispetto a un potere politico, militare e giudiziario che si sarebbe dovuto formare secondo la volontà popolare della umma. Ma tacque e non fece la minima fronda quando Khomeini lo intese, e lo esercitò, quale sede del potere pieno e incontrastato sullo stato, sul governo, sulle Forze armate e sul sistema giudiziario. Tacque per nove anni, in cui continuò a essere indicato – con elezione formale da parte del Consiglio dei Guardiani nel 1985 – quale Rahabar dopo la morte di Khomeini. Il tarlo della sua dissidenza teologica e politica con Khomeini, nonostante nove anni di pieno opportunismo politico, anche a fronte di migliaia di iraniani massacrati, lo spinse, in extremis, a una ribellione tanto coraggiosa quanto inaspettata – gli oppositori filoBanisadr lo chiamavano “Topo Gigio”, trasmissione molto popolare in Iran, venduta proprio dopo la Rivoluzione dalla Rai alla tv iraniana. Nel 1988 Montazeri protestò improvvisamente contro l’ennesimo bagno di sangue di migliaia di mujaheddin del popolo che Khomeini ordinò di fucilare nelle carceri iraniane in cui erano rinchiusi da anni. Poi giudicò immotivata la fatwa con cui Khomeini aveva condannato a morte Salman Rushdie e i suoi “Versetti satanici”. Fornì così – con tardiva resipiscenza – il fianco scoperto ai suoi ex pupilli Rafsanjani e Khamenei che avevano tutto l’interesse a eliminarlo dalla successione, come si vide alla morte di Khomeini. Rafsanjani aveva uno scabroso conto aperto con lui, perché nel 1986 era stato proprio Montazeri a spingere un suo fidato collaboratore, Mehdi Hashemi, che gestiva il sostegno all’Hezbollah libanese, a rivelare alla rivista libanese al Shiraale le forniture di armi degli Stati Uniti a Teheran (in parte poi girate ai Contras nicaraguegni) nel pieno della guerra con l’Iraq. Era scoppiato così lo scandalo “Iran-Contras”, un affaire gestito dallo stesso Rafsanjani, che vi aveva lucrato cospicue mazzette (questo suo fiduciario, Mehdi Ashemi, è stato probabilmente il mandante degli attentati che nel 1983 a Beirut uccisero 225 marine americani e 180 parà francesi). La “scandalosa” fronda di Montazeri offrì ampi argomenti a Rafsanjani (presidente del Parlamento, il Majlis) e Khamenei (presidente della Repubblica) per convincere il Rahabar – che già aveva molti dubbi – a sconfessarlo. Nel marzo del 1989, soltanto tre mesi prima della morte, Khomeini lo eliminò brutalmente dalla successione e gli tolse il titolo di ayatollah. Sferzanti le parole con cui Khomeini motivò la sua destituzione: “La guida della Repubblica islamica è una grave responsabilità e per la sua ingenuità e mancanza di tolleranza Montazeri non è in grado di assumerla.” Morto Khomeini, i suoi ex due sodali, Rafsanjani e Khamenei, portarono a frutto l’eliminazione dello scomodo rivale: Rafsanjani fece promuovere sul campo Khamenei ayatollah e, quale presidente del Consiglio dei Guardiani, lo fece nominare Giureconsulto. Emarginato, privo di ogni prospettiva di potere, allora, ma solo allora, Montazeri, finalmente, diede il meglio di sé. Continuò a sferzare il regime, tanto che nel 1997 fu messo agli arresti domiciliari e ottenne la piena libertà solo nel 2008. E’ quindi naturale che nel giugno 2009, dopo la sterile esperienza riformista di Khatami, suo sodale, e dopo la grande truffa elettorale, abbiano guardato a lui tutti gli oppositori di Ahmadinejad e i seguaci di Moussavi. E nell’occasione Montazeri è stato coerente con l’ultimo sé stesso. Nel luglio del 2009 ha emesso una fondamentale fatwa in cui legittimava la necessità islamica di rivoltarsi contro il regime e la motivava teologicamente. Un atto coraggioso, una specie di manifesto dell’opposizione sciita in cui, finalmente, con trenta anni di ritardo, smontava dal punto di vista teologico le basi dittatoriali della “Velayat-e faqih” a cui lui stesso aveva dato un contributo essenziale e auspicava un ritorno alla sovranità popolare, quantomeno all’interno della umma islamica. In questa fatwa denunciava il cambiamento di natura della teocrazia, dal Giureconsulto ai pasdaran, al “clero combattente”, ai “militari islamici”, che hanno in Ahmadinejad il loro portavoce e che per otto anni, tra il 1980 e il 1988, hanno combattuto per esportare la Rivoluzione khomeinista in tutta la umma islamica (e che oggi vogliono la bomba atomica per lo stesso identico fine). Questa mutazione è l’esito dovuto dello scisma khomeinista che tanto deve a Montazeri: se il “prius” della umma è l’esportazione della Rivoluzione islamica, se la gerarchia sciita deve essere emarginata a favore dei “mullah della Vandea”, ispirati a un islam dogmatico e feroce, è nella natura delle cose che “l’esercito della Vandea islamica”, i nuovi monaci guerrieri alla Ahmadinejad ne assumano il comando politico. Questa è la contraddizione dell’Iran di oggi: a partire da Montazeri, per finire con Moussavi, passando per Rafsanjani, tutti i leader spirituali e politici che vorrebbero abolire la “Velayat-e faqieh” di Khamenei furono in prima fila con Khomeini per instaurarla. E hanno di fronte oggi, a contrastarli e perseguitarli, il grande blocco sociale rivoluzionario e filodittatoriale che loro stessi hanno contribuito a rafforzare. Questa contraddizione è uno dei grandi limiti dell’onda verde. Soprattutto perché, anche grazie a Montazeri (di cui era uno dei pupilli), Rafsanjani (che l’ha intronato) e Moussavi (che, premier, ne era un fedele esecutore, quando era presidente della Repubblica), Khamenei e il suo “clero combattente” possono contare oggi su una solida base sociale di consenso tra gli iraniani. Anche per costruire l’atomica. Anche per distruggere Israele, che è stato sempre il grande sogno dell’ayatollah Montazeri.

Il FOGLIO - Giulio Meotti : "  Gli eredi (pallidi) di Montazeri, ayatollah dissidenti perseguitati dal regime"


Giulio Meotti

Roma. All’ayatollah Hossein Ali Montazeri, escluso dalla successione a Khomeini dopo aver criticato apertamente la Repubblica iraniana, sopravvive una grande scuola di dissidenti-teologi perseguitati dal regime. Con il loro quietismo, questi “ayatollah senza turbante” sono la minaccia più grande per la Rivoluzione islamica. Nel viaggio verso la città santa di Qom, dove ieri si sono svolti i funerali di Montazeri, è stato arrestato dai pasdaran l’ayatollah Ahmad Qabel, allievo di Montazeri e critico del khomeinismo. Assieme all’ayatollah Assadollah Zanjani imprigionato dallo scià e che ha denunciato Ahmadinejad, troviamo l’ayatollah Youssef Saanei, moderato ex khomeinista, noto per essere contrario al potere assoluto dei mullah e per aver detto sulla bomba atomica: “Nell’islam è proibita, la funzione di queste armi è uccidere civili innocenti”. “Il nuovo volto dell’islam”, scrive Newsweek dell’erede principale di Montazeri, Mohsen Kadivar. La polizia in Iran annulla spesso i suoi sermoni e per il suo appoggio alla dissidenza studentesca Kadivar si è fatto un anno e mezzo di carcere a Evin, dove migliaia di prigionieri politici sono stati torturati e giustiziati. Kadivar ha studiato nel seminario sciita di Qom, il più famoso al mondo. Da lì ha appreso i rudimenti del khomeinismo, che poi avrebbe definito una “eresia” dello sciismo, per sostenere la scuola “akhbari” che separa “hilafa”, la direzione politica dell’islam riservata al califfo, e “hilama”, la direzione spirituale degli ulema. Kadivar ha speso anni a formulare la sua critica devastante alla “velayat-e faqih”, il noto principio che assegna il potere ai chierici. “Poiché il principio fu concepito dai religiosi e non da Allah, non può essere considerato sacro e infallibile”. Kadivar lamenta i privilegi del clero e l’inaccessibilità dei ruoli chiave ai non religiosi e ai non musulmani. Dice persino che il regime ha fallito: “La transizione dalla monarchia alla repubblica non è mai stata ultimata”. Poi c’è il grande ayatollah ribelle Kazemeini Borujerdi. Dal carcere tempo fa ha fatto uscire una lettera a Benedetto XVI e ai rabbini di Israele, chiedendo il loro intervento a favore dei prigionieri di coscienza rinchiusi nelle carceri iraniane, sottolineando come “l’islam politico sta cancellando la parola di Allah e del suo profeta Maometto”. Il religioso iraniano chiede di “far sentire al mondo il grido dei musulmani in catene in Iran”. Borujerdi è stato arrestato l’8 ottobre 2006, assieme a un gruppo di sostenitori. La sua colpa è aver detto che “l’islam vero è privo di ornamenti politici”. Accusato di eresia, Borujerdi è stato duramente torturato in questi due anni. Si oppone all’islam politico e predica una visione tradizionale che non vede di buon occhio la presenza dei mullah e degli ayatollah al governo e nelle istituzioni. Prima del suo arresto, migliaia di persone riempivano gli stadi per ascoltarne i sermoni. L’ayatollah crede che, in assenza del dodicesimo imam che deve far ritorno sulla terra come messia, politica e religione devono restare separate e che il potere sia del popolo. “Soltanto l’imam ha il potere di giudicare”, ripete Borujerdi. La sua moschea, fondamentale attrattiva per una buona fetta della popolazione iraniana, è stata espropriata dai mullah del regime. Assieme all’ayatollah iracheno Ali al Sistani, suo padre è stata una figura venerata dello sciismo pre Khomeini. Persino la sua tomba è stata dissacrata dalle Guardie della Rivoluzione. Borujerdi figlio è arrivato a dire che “questo regime non è diverso da quello di Osama bin Laden e del mullah Omar”.

La STAMPA - Maurizio Molinari " Ahmadinejad: le vostre sanzioni non ci fermeranno "

 
Ahmadinejad

Mahmoud Ahmadinejad sceglie gli schermi della Abc per far sapere all’America che Teheran si prepara a sfidare Barack Obama su più fronti. Il presidente iraniano ama dialogare direttamente con gli americani: negli ultimi anni ha sfruttato le interviste con i più noti conduttori tv per spiegare i motivi dell’avversione per Israele e i dubbi sull’Olocausto, nel 2007 salì sul palco della Columbia University per difendere il diritto allo sviluppo del nucleare.
Ma se finora l’approccio è stato di spiegare all’America le ragioni dell’Iran - nell’evidente convinzione personale di poter fare seguaci nella terra del Grande Satana - l’intervista concessa a Diane Sawyer a margine del summit di Copenhagen sul clima segna un brusco cambiamento di agenda: adesso Ahmadinejad insulta e minaccia gli Stati Uniti, al fine di mettere la Casa Bianca sulla difensiva. Gli insulti sono quelli che riserva all’amministrazione Obama accusandola di aver «fabbricato» il documento segreto iraniano sullo sviluppo del detonatore per la bomba atomica di cui si è avuta notizia la scorsa settimana. Sawyer ne aveva portato con sé una copia per mostrarlo all’intervistato ma Ahmadinejad non lo ha voluto neanche vedere, parlando di «lavoro da falsari» che non meritava neanche di essere commentato.
Le minacce riguardano invece i tre ragazzi della California accusati di spionaggio in Iran dopo essere stati arrestati come clandestini ai confini con l’Iraq. A Sawyer che gli chiedeva notizie sulla sorte di «tre ragazzi che amano il turismo avventuroso», Ahmadinejad ha risposto, con toni inquisitori: «Ma lei come fa a sapere che cercavano delle cascate? Chi glielo ha detto, forse sono stati gli agenti dei servizi segreti?». E se fino a poche settimane fa non ne escludeva la liberazione adesso rimette tutto «al giudice competente» lasciando intendere che potrebbero essere condannati come spie, che in Iran implica la pena capitale.
Nel finale dell’intervista i toni di sfida sono andati in crescendo: «Volete davvero imporre le sanzioni? Bene, allora avanti, fatelo. Non ci arrenderemo di certo». Da qui l’evidenza che Teheran si prepara ad un 2010 di confronto su più tavoli, guardando anche oltre le nuove eventuali sanzioni da parte delle Nazioni Unite. Nulla da sorprendersi dunque se l’ammiraglio Mike Mullen, capo degli Stati Maggiori Congiunti delle forze armate Usa, parla di «un conto alla rovescia oramai iniziato con l’Iran».
Il ministro degli Esteri iraniano Manoucher Mottaki ha detto ieri nel corso di una visita a Beirut che la recente disputa di frontiera tra Iran e Iraq è finita. «La questione è stata chiusa da una telefonata con il ministro degli Esteri iracheno Hoshiyar Zebari. Abbiamo concordato che il comitato congiunto per i confini continui le sue riunioni», ha detto il ministro Mottaki ai media libanesi al termine della visita ufficiale a Beirut. Giovedì scorso un gruppodi soldati iraniani aveva effettuato un’incursione in territorio iracheno all’interno del modesto campo petrolifero di Fakka (con una produzione di 10.000 barili al giorno), nella provincia sud-orientale frontaliera di Maysan, dove avevano issato una bandiera iraniana, per poi in parte ritirarsi. L’Iran considera il campo petrolifero sul proprio territorio,mentre il governo iracheno ha ammesso che si tratta di una zona contesa, su cui già in passato una commissione mista aveva lavorato.

Il FOGLIO - Tatiana Boutourline : "  L'ayatollah depresso"

 
Khamenei

Roma. C’è un detto che dal ’79 cattura la doppia morale degli iraniani. “Prima della rivoluzione si beveva in pubblico e si pregava in privato, ora preghiamo in pubblico e beviamo in privato”. Da sei mesi a questa parte le regole sono saltate. In Iran si urla quello che prima si sussurrava. I bassiji seguitano a usare i manganelli, moltiplicano le contromanifestazioni, inaugurano presidi nelle scuole, ma i contestatori non si arrendono, sovvertono le ricorrenze del regime e gridano “mercenari”, mentre stivali lucidi li pestano in una nebbia di lacrimogeni. Non ci sono molti dati razionali a cui aggrapparsi. I prossimi due mesi Moharram e Sahar, sono centrali nel calendario sciita e offriranno ai ribelli suggestioni, luoghi e date che di per sé evocano la rivolta. La morte del grande ayatollah Montazeri caricherà questi giorni speciali di ulteriori significati, anche se la protesta resta frammentata, Mir Hossein Moussavi e Mehdi Karroubi sono leader accidentali, l’apparato di sicurezza è poderoso e la copertura internazionale tiepida. Eppure qualcosa di impalpabile sta cambiando, l’asticella del politicamente corretto continua a scivolare in avanti. “I bastioni del regime stanno tremando”, titola perentorio l’Economist. Nonostante la repressione e, forse anche in virtù della sua virulenza, l’insubordinazione si radicalizza. Dove erano le guardie del regime mentre Ruhollah Khomeini, il venerabile padre della rivoluzione, era dissacrato dalle fiamme fotogramma dopo fotogramma sul secondo canale della tv di stato Irib? Tra sequenze di vetri frantumati e cassonetti rovesciati lo speaker ha denunciato le responsabilità degli universitari sedotti dalle chimere occidentali, ma dell’affronto alla memoria dell’imam non è stato censurato neanche un momento. A giugno la parola d’ordine dei manifestanti era “dov’è il mio voto?”, ma già questo dicembre “morte a Khamenei” è un’invocazione familiare. Più del provocatore Mahmoud Ahmadinejad è la Guida Suprema a rappresentare l’essenza del nezam (regime, in farsi). Che la mano sacrilega che ha bruciato l’effigie di Khomeini appartenga a uno studente o – come appare più probabile – a un solerte pretoriano pronto a immolare l’imam sull’altare della ragion di stato, la sostanza non cambia: in Iran non ci sono più totem inviolati. Nei palazzi del potere di Teheran Khomeini è ormai soltanto un nome da rinfacciarsi per accampare patenti di legittimità e disconoscere quelle degli altri. Nelle piazze della rivolta rappresenta un ideale tradito, o semplicemente un modello sbagliato, ma trent’anni sono una generazione, un tempo troppo lungo per infervorarsi contro un fantasma. L’obiettivo è sempre Khamenei. E la sua unica difesa davanti alla furia della ribellione è farsi scudo della memoria profanata di Khomeini. La storia iraniana è ricca di svolte inattese e la natura senza forma della contestazione rende poco praticabili le previsioni. Tanto che commentatori di rango come Karim Sadjadpour del Carnagie Endowment non si sbilanciano al di là di un generico “le proteste potrebbero cuocere a fuoco lento per anni o esplodere all’improvviso”. Per capire dove andrà l’Iran bisogna continuare ad esplorare i sogni delle sue Neda, ma altrettanto imprescindibile è l’ indagine dei sentimenti del rahbar. L’implosione del sistema o il suo rinnovamento saranno tanto determinati dai martiri di stato, dai leader studenteschi e sindacali quanto dalla reazioni del potere costituito. Saranno le paure di Khamenei, la sua capacità di dominarle o di soccombervi a decidere, in buona misura, il destino dei manifestanti iraniani. “Io non credo nelle purghe, ma l’impressione è che alcune persone insistano nell’allontanarsi dal sistema e abbiano trasformato una disputa familiare in una battaglia contro il sistema”, ha detto Khamenei due domeniche fa, assecondando i falchi ed il loro desiderio di avere mano libera nei confronti dei “terroristi” e dei loro ispiratori. E’difficile quantificare il dissenso, ma per i campioni dell’ortodossia i segnali non sono incoraggianti. Mohammad Mohammadian, capo dell’ufficio di Khamenei per gli Affari universitari ha riconosciuto che “secondo i dati esistenti il 70 per cento degli studenti ha votato contro Ahmadinejad”. Più preoccupante ancora per Khamenei è il fatto che la sfiducia verso le istituzioni islamiche sia in crescita anche nelle tradizionali roccaforti del conservatorismo. Un sondaggio pubblicato da insideIRAN. org ( un progetto legato al think tank liberal Century Foundation) condotto in quattro intervalli di tempo tra l’estate del 2008 e l’autunno del 2009 nelle zone rurali delle province di Fars ed Isfahan ha registrato un consistente calo di consenso di Ahmadinejad proprio nei suoi territori dell’elezione. Il 57 per cento degli intervistati, definitisi sostenitori delusi del presidente, hanno dichiarato di aver tratto giovamento dai sussidi governativi, ma di essere comunque pentiti di averlo votato dopo le denunce di stupri, assassinii e torture. “La disputa familiare” tra due diverse generazioni di rivoluzionari si è riverberata fuori dai circuiti politicoeconomici dei potenti di Teheran molto al di là degli ambienti intellettuali in cui da anni monta il malcontento. E tuttavia per il rahbar il consenso popolare non è il criterio predominante delle scelte. “Khamenei tende a non assumersi mai la responsabilità del gioco politico – spiega al Foglio Mehdi Khalaji – così è facile speculare sul potere del figlio Mojtaba o sull’esistenza di qualche oscuro burattinaio, la realtà è che la Guida suprema esercita un enorme potere e che questo potere è il frutto di un percorso lungo vent’anni”. Analista del Washington Institute for Near East Policy, figlio di ayatollah ed ex seminarista a Qom, Khalaji è tra gli esperti di cose persiane il più brillante esegeta del pensiero di Khamenei. “Ci sono state due, tre settimane l’estate scorsa in cui Khamenei ha davvero avuto paura. Potrebbe tornare a tormentarlo e l’unica chance di successo contro il regime è agire in quella finestra di tempo. Perché appena riprende fiato e gli ordini partono coerenti dal suo ufficio, il regime torna a sentirsi forte e Khamenei sa come giocare le sue carte”. Dopo ilfallimento dei colloqui di Ginevra, i provocatori test missilistici e il roboante annuncio relativo alla costruzione di ulteriori centrali per l’arricchimento dell’uranio, il capitolo sanzioni è tornato nell’agenda della comunità internazionale. Il segretario alla Difesa statunitense Robert Gates ha invocato misure “significative” e per gennaio si attendono le mosse dei membri del Consiglio di sicurezza. Nel frattempo, per colpire le importazioni di gasolio vitali per Teheran, il Congresso ha approvato l’Iran Petroleum Sanctions Act. “Gli incentivi non ammorbidiranno il regime. Né tantomeno l’isolamento o le sanzioni. Tutti fanno affari con l’Iran”, sottolinea Khalaji (ed è di qualche giorno fa la notizia della sanzione da 536 milioni di dollari che crédit Suisse pagherà alle autorità americane per aver facilitato le transazioni in dollari di Iran, Libia, Sudan e Myanmar). “L'Iran non cede sotto una normale pressione, Khamenei cederà soltanto sotto l’onda di una pressione molto forte. Una pressione eccezionale, come la minaccia di un attacco militare”. Khalaji ricorda il precedente del 2003: quando fu attaccato l’Iraq, Khamenei si persuase che l’Iran potesse essere la prossima tappa della guerra al terrore dell’amministrazione Bush. Attraverso la mediazione svizzera inviò una lettera a Washington in cui proponeva all’America colloqui a tutto campo, persino sul nodo spinoso di Hizbollah. Khalaji non si augura affatto un’offensiva militare contro l’Iran, tutt’altro, ma ritiene che soltanto la minaccia di un attacco potrebbe convincere Khamenei della bontà di un cambio di rotta. Del resto la visione strategica di Khamenei non è poi tanto insondabile. “Khamenei è convinto che l’America abbia paura. Nel Corano la vittoria sul nemico non si esplica con la potenza bellica, ma attraverso la capacità di spaventare il nemico” In questa luce si capisce anche la corrispondenza d’amorosi sensi con Ahmadinejad. Quello con i pasdaran – dice Khalaji – è un rapporto di interdipendenza. “Islamizzazione per Khamenei significa militarizzazione. Durante la guerra con l’Iraq i pasdaran hanno preso in mano le redini del paese. Finita la guerra l’establishment clericale ha provato a riportare indietro l’orologio”. L’alleanza è stata del tutto naturale”. I pasdaran non avevano sponsor nel palazzo e Khamenei era una rahbar debole, una guida priva di una base elettorale e di pedigree teologico, un vali (guida) volutamente scialbo, scelto proprio per questo da un presidente forte come Rafsanjani. Poi però, nonostante la decantata astuzia del grande manovratore, Khamenei si è rivelato un giocatore più abile del previsto, capace di liquidare un’intera generazione di rivoluzionari – la sua – grazie al patto di mutuo soccorso siglato con i pasdaran. Contrariamente alle speculazioni che lo descrivono spesso come moribondo secondo Khalaji, Khamenei soffre di alcuni disturbi minori, ma nessun morbo fatale minaccia la sua vita: “Khamenei può vivere altri 10-15 anni e la sua fragilità è piuttosto derivante dalla depressione” . Di contro, in Khamenei alberga una coerenza di pensiero granitica. A differenza di Hashemi Rafsanjani e di Mohammed Khatami, la Guida suprema non si è distaccata dai convincimenti maturati nei giorni della passione rivoluzionaria. Khalaji sta scrivendo un libro sulla Guida suprema e avendo analizzato i suoi pronunciamenti da trent’anni a questa parte ne rileva l’assoluta concordanza. “Khamenei ha seguito sempre una sua logica, ma non è il tipo di persona che ragiona secondo schemi pragmatici. Le sue decisioni emergono all’interno di uno schema dialettico tra i principi dell’islam e gli interessi del regime. Quando le due categorie sono in contrasto, il rahbar opta per la seconda via e questo è in nuce il fondamento del velayat-e-faghih (il potere supremo di un giureconsulto eletto a vita teorizzato da Khomeini), la licenza di calpestare, all’occorrenza, persino la sharia” . Il paradosso è che nella Repubblica Islamica la legge islamica è diventata irrilevante e l’indipendenza teologica del clero è stata neutralizzata dalla dipendenza economica verso Khamenei. Teheran ha vampirizzato Qom prosciugando per sempre i pozzi dell’islamismo politico. Per Khalaji la “democrazia islamica” propugnata a suo tempo da Khatami non potrà avere migliore fortuna in futuro. “Non avrebbe senso ritentare ancora con delle ricette “islamic- light”. I grandi ayatollah Hossein Montazeri e Yousef Sanei, gli intellettuali Mohsen Kadivar, Abdolkarim Soroush non sono che emanazioni di un’idea che ha già fallito e non c’è ragione di ritentare. Khatami era un riformista senza voglia di riformare alcunché, non ha neanche provato a toccare la scorza del velayat-e-faghih. Ha perso la sua occasione d’oro, non se ne ripresenterà un’altra”. Mehdi Khalaji parla con la sapienza di un insider che ha messo molta distanza tra sé e il suo passato. Ma cosa ha prodotto nel figlio dell’Ayatollah il distacco da tutto ciò che costituiva il suo mondo? “L’amore e le donne. Ma faccio un passo indietro”. “Prima della mia epifania è arrivata la scoperta che tutto quello che imparavo nel seminario era irrilevante. Ai miei tempi nessuno entrava in seminario per soldi o ambizione, non si trattava di una carriera ambita”. Ma gradualmente il seminario si è trasformato in un centro per la formazione di funzionari governativi con il risultato che dopo trent’anni i seminaristi sono intellettualmente molto poveri e finanziariamente molto soddisfatti. “La mia generazione invece aveva varcato le porte del seminario pensando che l’islam avesse tutte le risposte. Sono stato deluso. Mi sono reso conto che le risposte erano inutili. A cosa serviva imparare la legge islamica? Le vie per la salvezza erano menzogne. L’economia non è stata islamizzata, la cultura non è stata islamizzata, la moralità non è stata islamizzata e l’Iran esporta il maggior numero di prostitute di tutta la regione. La società iraniana è al collasso, governata dalla sfiducia e dal sospetto”. Accantonata la teologia, Khalaji si è avvicinato alla filosofia occidentale. In “Natani” il primo ed unico romanzo di Khalaji pubblicato in farsi in Germania, l’analista del Washington Institute torna nei luoghi della sua infanzia e della sua giovinezza raccontando una storia d’amore, religione e politica ambientata tra Parigi e Qom. “Non ho mai capito perché nell’islam le donne facciano tanta paura. Niente minaccia tanto gli uomini religiosi quanto le donne. Ho iniziato a interessarmi al rapporto tra la fede islamica e paura delle donne. Ne ho ricavato che la fede ti infonde sicurezza e le donne te la sottraggono. Nel Corano, il libro sacro più erotico mai scritto, i giuristi codificano le pratiche sessuali fino agli ultimi dettagli, ma resta il fatto che l’islam teme il corpo. E’ paradossale: puoi avere centinaia di mogli attraverso matrimoni temporanei, eppure continui a temere le donne. Diffidare delle donne implica patire la corporeità, ed io credo che temere il corpo significhi avere paura della vita”. Per Khalaji la questione democratica in Iran è inscindibilmente legata al destino delle donne: “Fino a quando anche i maître à penser revisionisti come Kadivar e Soroush non parleranno solo di diritti in astratto ma inizieranno a interessarsi anche alle donne ed ai loro diritti, fino a quando non smetteranno di averne paura, non andremo lontano”. Ma ci sono altri ostacoli che si frappongono tra la piazza ed i suoi castelli in aria. La storia iraniana – sottolinea Khalaji – contempla 3.000 anni di dispotismo e 30.000 anni di resistenza. “Siamo un popolo antico incapace di ripensare la storia con distacco. Riviviamo il passato, non lo elaboriamo a distanza di sicurezza, piuttosto lo riattualizziamo come in occasione dell’Ashura e della rievocazione del martirio dell’Imam Hossein”. Si tratta di ostacoli immateriali sulla strada della conquista della democrazia significativi tanto quanto l’esistenza minacciosa di cinque milioni di persone legate al corpo dei Sepah-e-pasdaran. “Io però amo citare il vostro Gramsci che diceva: il pessimismo riguarda l’intelligenza, l’ottimismo la volontà. Io guardo ai ragazzi e alle donne e spero”.

Il FOGLIO - Luigi De Biase : "  Toh! Il mistero dell’aereo coreano carico di missili ha un finale in Iran"

Roma. Le forze speciali thailandesi sorvegliano da giorni un cargo fermo nell’aeroporto di Bangkok. E’ un Ilyushin-75 fabbricato in Georgia, ma appartiene a una società misteriosa che fa base negli Emirati. Trasportava armi, trenta tonnellate di missili e sistemi di guida coreani diretti a Teheran dopo un viaggio tortuoso fra l’Oceano indiano e l’Europa orientale. Lo hanno intercettato la scorsa settimana grazie all’aiuto della Cia: ora quell’aereo rischia di aprire un nuovo caso diplomatico che coinvolge gli Stati Uniti, la Cina, l’Iran e la Corea del nord. Il viaggio comincia all’inizio di dicembre. Il primo radar che segnala la posizione del cargo è quello di Nsosnaja, una base aerea nel cuore dell’Azerbaigian. Dopo una tappa negli Emirati arabi, l’Ilyushin riparte alla volta di Pyongyang, dove si ferma per alcuni giorni. L’equipaggio è composto da cinque persone, tutti kazaki e bielorussi: entrano in Corea con la stiva vuota e lasciano il paese a pieno carico. La traversata si chiude a Bangkok l’11 dicembre, con una retata della polizia thailandese. Secondo gli investigatori, nei container non ci sono trivelle per l’esplorazione petrolifera, come dicono i documenti, ma parti non assemblate di Taepodong 2, missili a lunga gittata che possono colpire in un raggio compreso fra i quattro e i seimila chilometri. Lanciati da Pyongyang, possono colpire il Giappone, le principali città dell’Asia e la costa occidentale degli Stati Uniti; se partono da Teheran, mettono in crisi i sistemi di difesa di Israele e delle principali capitali europee. E’ il genere di arma che l’esercito iraniano cerca di costruire da tempo, una circostanza poco confortante se si pensa che il regime islamico porta avanti un piano nucleare clandestino già condannato dall’Onu. La relazione fra il carico di armi e gli ayatollah emerge pochi giorni dopo il sequestro. Il piano di rientro dell’Ilyushin prevede una tappa a Colombo, la capitale dello Sri Lanka, e una a Kiev, in Ucraina. Da lì, dice il Wall Street Journal, i container dovevano essere trasportati a Teheran. L’intervento delle forze speciali thailandesi, allertate da una informativa americana, ha impedito che il carico di armi prendesse il volo. Ora i cinque membri dell’equipaggio rischiano di essere condannati alla pena di morte. L’operazione è partita mentre un inviato della Casa Bianca in estremo oriente, Stephen Bosworth, chiudeva a Pyongyang un vertice con i rappresentanti del governo coreano, che presto potrebbe tornare al tavolo dei negoziati per discutere il proprio programma atomico. Gli investigatori di Bangkok sono stati i più rapidi, ma questo non significa che fossero gli unici a conoscere i segreti dell’Ilyushin. Negli ultimi giorni, alcuni quotidiani di Kiev hanno scritto che i servizi segreti ucraini avevano ricevuto informazioni al riguardo e sarebbero entrati in azione appena il cargo avesse superato i confini nazionali. Soltanto l’intelligence cinese ha deciso di tenersi alla larga da questa caccia. Secondo Larry Niksch, un esperto del Congressional research service (Crs), la fondazione pubblica incaricata di eseguire ricerche per i deputati americani, Pechino aveva tutti gli elementi per capire che c’era qualcosa di strano: dopotutto, dice l’analista, “l’Ilyushin ha compiuto due terzi del proprio tragitto nello spazio aereo della Cina”. Non si tratta di un fatto nuovo. La scorsa estate, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione che spiega che cosa bisogna fare con le navi e gli aerei sospetti partiti dalla Corea per evitare inconvenienti come questo; il capo della Casa Bianca, Barack Obama, ha chiesto più volte la collaborazione della autorità cinesi, ma non ha ancora ricevuto una risposta soddisfacente. Il caso dell’Ilyushin rilancia il problema dei rapporti fra Pechino a Pyongyang. L’ultimo mistero riguarda la società incaricata di recapitare questo pacco scomodo. Secondo il Wsj, si tratta di Overseas Cargo, una holding con sede a Sharia, negli Emirati. Altri sostengono che sia un affare buono per Tomislav Dmanjanovic, un trafficante serbo famoso per aver rifornito i peggiori dittatori d’Africa. Dmanjanovic è legato a Viktor Bout, il mercante di morte reso celebre da un film di Nicolas Cage arrestato proprio a Bangkok lo scorso anno.

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