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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero - Il Foglio Rassegna Stampa
17.12.2009 Shakespeare non era antisemita, il suo 'Mercante' ne è la conferma
Analisi di Giorgio Israel e recensione di Carlo Maria Pensa dello spettacolo di Luca Ronconi

Testata:Libero - Il Foglio
Autore: Carlo Maria Pensa - Giorgio Israel
Titolo: «Nel 'Mercante' di Ronconi l’ebreo è meglio dei cristiani - Perché il Mercante di Venezia non è affetto dall’antisemitismo»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 17/12/2009, a pag. 40, l'articolo di Carlo Maria Pensa dal titolo " Nel 'Mercante' di Ronconi l’ebreo è meglio dei cristiani  ".
Sul presunto "antisemitismo" di William Shakespeare pubblichiamo l'opinione di Giorgio Israel, che condividiamo in pieno, uscita sul FOGLIO del 04/01/2005. Ecco i due articoli:

LIBERO - Carlo Maria Pensa : " Nel 'Mercante' di Ronconi l’ebreo è meglio dei cristiani "

 
Luca Ronconi

E dopo le quattro ore di spettacolo che ogni sera Luca Ronconi concede e offre al pubblico del Piccolo Teatro Strehler di Milano, si ripropone come sempre l’interrogativo se, col “Mercante di Venezia”, Shakespeare abbia voluto esprimere l’onda di un suo spietato antisemitismo o se, al contrario, tra grottesco e fantastico, tragico e ironico, la commedia non rappresenti piuttosto il quadro di una dura inclemenza cristiana. Il primo grande attore a fare, dell’ebreo Shylock, una figura meno odiosa pur nella sua sprezzante drammaticità, fu in Inghilterra, nel 1814, il celebre Edmund Kean. Certo, il famelico usuraio -che peraltro ha precedenti letterari nel “Giudeo” di Stephen Gasson (1579) e nell’“Ebreo di Malta” di Christopher Marlowe (1590)- è a dir poco rabbrividente quando ad Antonio, mercante veneziano, concede un prestito di tremila ducati con la clausola che, se entro tre mesi la somma non sarà restituita, potrà prendersi una libbra di carne del debitore.

Ma come non giudicare riprovevole il cristiano Bassanio che al suo amico Antonio, fingendo di ignorarne le inclinazioni omosessuali, ha chiesto appunto tremila ducati per poter andare a Belmonte, in terraferma, a conquistare le grazie (e la dote) della ricca Porzia? E Antonio, babbeo cristiano, che i tremila ducati per l’amico li va a chiedere proprio allo strozzino giudeo da lui fino a ieri insultato e preso a calci e sputi. A un certo punto, quando cominci a credere che, in fondo, gli ebrei non sono certo peggiori dei cristiani, ecco la figlia di Shylock, Jessica, che pianta il padre, lo deruba e se ne va, convertita, con Lorenzo, altro amico di Antonio.

Non parliamo poi -e qui entriamo nella novellistica rosa- del defunto padre di Porzia, il quale per testamento ha destinato la mano della figlia e le sue ricchezze a quello, tra i molti pretendenti, che sceglierà lo scrigno giusto: oro, argento o piombo? E a pescare giusto, cioè il piombo, è il furbacchione Bassanio. Né dobbiamo dimenticare la faccenda degli anelli, allorché Porzia travestita da giudice, e da nessuno riconosciuta, in presenza del Doge risolve la contesa tra Shylock e Antonio: prenda pure, l’ebreo, la libbra di carne dell’insolvente debitore, ma che sia, come esige il contratto, una libbra, non un’oncia di più o un’oncia di meno, e senza spargere sangue poiché dura sorte toccherebbe, nella Venezia dogale, all’ebreo che versasse anche una sola goccia di sangue cristiano. E fin qui giustizia è fatta. Naturalmente non è tutto; ma ricordare altro non occorre. Anche perché l’interesse di questa nuova edizione del “Mercante” dipende soprattutto dalla “lettura” registica. Ecco, allora, nel vuoto, nel grigiore di uno spazio nel quale Venezia è svaporata e Belmonte non è più altro che una terra di sortilegi, l’intreccio delle vicende shakespeariane è come ghiacciato dalla implacabile mano di Luca Ronconi. Quei pesi, quelle bilance, quelle tavole sospese, quegli attrezzi, quegli scrigni, insomma quelle cose che la scenografia di Margherita Palli genera come misteriose apparizioni sono il segno di un mondo nel quale contano soltanto il denaro, l’interesse, la materia; un mondo nel quale non solo Shylock, ma tutti i personaggi, sono travolti dalla fame dell’essere: la vita, il tempo, la società.

E ad animare la storia che Luca Ronconi sembra raccontare con distacco e indifferenza, è forte l’impegno dei suoi (quasi tutti) giovani attori, a cominciare da Fausto Rosso Alesi, uno Shylock dalle rabbiose sofferenze, e Riccardo Bini nella composta solitudine dei silenzi di Antonio; è Elena Ghiaurov ad agitare con saggezza i tormenti di Porzia, mentre alle ambigue inquietudini di Bassanio provvede Ivan Alovisio. E, ancora, si affermano Bruna Rossi (Nerissa), Silvia Pernarella (Jessica), Giovanni Crippa.

Tutti, purtroppo, muniti dell’odioso microfonino guanciale, cui sono condannate le parole di Shakespeare, questa volta nella traduzione di Agostino Lombardo e Sergio Perosa.

Il FOGLIO - Giorgio Israel : " Perché il Mercante di Venezia non è affetto dall’antisemitismo "

 
William Shakespeare

L’interessante articolo di Nicola Fano su “Il Mercante di Venezia” di Shakespeare e le sue vicissitudini attraverso la censura fascista (Il Foglio, 28 dicembre) stimola alcune riflessioni che possono essere di qualche interesse in un periodo in cui si fa gran parlare delle “radici giudaico-cristiane” dell’Europa e poi accade spesso che il primo termine cada, o vada e venga come un “optional”, senza che si sappia alla fin fine di cosa si tratti; e senza che si capisca in che cosa sia consistito l’apporto ebraico alla formazione dell’identità europea, che cosa di vivo e dinamico abbia effettivamente rappresentato. Sarebbe un triste travisamento dei fatti storici se questo apporto non venisse concepito altro che in due sensi: come una presenza irriducibile, immobile e statica, nella sua separatezza dall’ambiente circostante; e come l’immagine vivente di una delle più grandi forme di intolleranza della storia, l’antisemitismo. Se l’apporto ebraico alle “radici” fosse riducibile soltanto a questi due aspetti, esso non evocherebbe altro che l’idea di un ingombro e di una colpa. È per questo che il riferimento all’antisemitismo deve essere evocato a ragion veduta e non quando rischia paradossalmente di oscurare proprio alcuni aspetti fondamentali della presenza ebraica nella storia culturale dell’Europa.

È evidente che qui ci riferiamo all’“antisemitismo di Shakespeare”, tradizionalmente identificato con il contenuto de “Il Mercante di Venezia”. Certo, ad una prima lettura, il protagonista della storia, l’ebreo Shylock è soltanto un malvagio, colui che concepisce la perversa idea di prestare denaro a un cristiano prendendo come pegno una libbra di carne e che esige ciò che gli è dovuto con implacabile e disumana durezza. Già una seconda lettura permette di comprendere come Shakespeare non si muova affatto all’interno dei consueti stereotipi antisemiti, perché l’attitudine crudele di Shylock è spiegata con i torti che egli ha subito e che hanno indurito il suo cuore, ed anzi si può dire che la parte finale dell’opera contenga una vera e propria filippica contro le crudeltà di cui il mondo cristiano si è reso colpevole nei confronti degli ebrei.

Ma così siamo ancora fermi a una lettura superficiale. In un denso e profondo articolo di venticinque anni fa, la grande storica inglese Frances A. Yates esaminò l’opera di Shakespeare sotto un profilo simbolico più profondo e che risalta chiaramente alla luce del contesto culturale dell’epoca. Secondo Yates, Shakespeare utilizzò materiali stereotipati (convenzionali, direbbe Fano) per costruire una sofisticata allegoria sul tema della Legge. Non si tratta però della solita consunta contrapposizione fra la dura legge ebraica dell’Antico Testamento e la legge dell’amore del messaggio cristiano, come suggerirebbe una lettura superficiale del brano in cui Porzia chiede che la clemenza temperi la giustizia. Queste interpretazioni trascurano i profondi influssi che avevano su Shakespeare i temi della Kabbalah, che gli erano pervenuti attraverso il circolo del cabbalista cristiano John Dee, nel quale avevano largo corso le teorie sull’armonia universale del frate veneziano Francesco Giorgi, a loro volta ispirate a una filosofia giudaizzante in cui i temi kabbalistici venivano usati per corroborare la teologia cristiana, fino a vere e proprie forme di sincretismo religioso. Questi ambienti e personaggi erano fortemente influenzati dal misticismo ebraico esportato in tutta Europa dalla Spagna, dopo l’espulsione degli ebrei alla fine del Quattrocento.

 Daniel Banes, in un articolo pubblicato anch’esso venticinque anni fa (“The provocative Merchant of Venice”) ha tenuto conto in modo puntuale degli influssi del “De harmonia mundi” di Francesco Giorgi e si è spinto fino a ricostruire lo schema kabbalistico che sarebbe l’architrave nascosta del “Mercante di Venezia”: lungi dall’essere una contrapposizione fra legge ebraica e amore cristiano, la dialettica sul tema della Legge sarebbe interna a una rappresentazione di tipo kabbalistico delle emanazioni divine – le cosiddette Sefiròth – la quale era largamente diffusa negli ambienti dei cabbalisti cristiani. Shylock rappresenterebbe la sefirà “Ghevurah” o “severità di giudizio”, Antonio la sefirà “Hesed” o “tenerezza amorosa” e Porzia sarebbe “Tifereth” o “bellezza- clemenza” che tenta di conciliare le prime due. Pertanto, secondo Barnes, il tentativo di Porzia di convertire Shylock alla clemenza sarebbe condotto all’interno di un’argomentazione di tipo ebraico-kabbalistico.

Non meno interessanti sono le osservazioni di Yates concernenti il peso che ha il tema dell’armonia universale, inteso in senso neoplatonico e kabbalistico, che pervade l’opera e che ricorre in molti dialoghi. Così, quando Lorenzo proclama: «Siedi Gessica, guarda come il pavimento del cielo è tutto costellato di stateri d’oro scintillanti; e neanche uno, neanche il più piccino, di questi globi, che non percorra l’orbita sua cantando come un angelo in coro coi cherubini dagli occhi novelli. E la stessa armonia è anche nelle anime nostre immortali…». Ma è soprattutto la metafora dei tre scrigni tra cui debbono scegliere i corteggiatori di Porzia che attira la sua attenzione. È largamente accettato che i tre scrigni – d’oro, d’argento e di piombo – rappresentino le tre religioni monoteiste (come, del resto, in Boccaccio). Ed è ben noto che, secondo la tradizione di cui si fa interprete Francesco Giorgi, il piombo, metallo di Saturno, simboleggia la religione ebraica. Bassanio, secondo Banes, sceglie seguendo l’ammonimento biblico dei Proverbi: «Scegliete la mia dottrina e non l’argento; scegliete la sapienza più che l’oro fino, perché la sapienza è buona più delle perle e nessun tesoro l’uguaglia»: scegliendo lo scrigno di piombo Bassanio opta per la legge ebraica e così conquista la principessa cristiana Porzia. Osserva Yates: «In quest’opera, Shakespeare parrebbe muoversi fra i misteri della Sapienza-Torah e fra le personificazioni di essa nate in quella profusione di immagini e di canti religiosi d’amore con cui, nella persecuzione, gli ebrei sefarditi espressero la loro religione, messa al bando nella patria d’origine». La conclusione più interessante che deriva da queste analisi è che “Il Mercante di Venezia” non è affatto un’opera antisemita. Una conclusione che risalta ancor di più ove si confronti l’opera di Shakespeare con “L’ebreo di Malta” di Cristopher Marlowe – che Shakespeare certamente conosceva – e in cui la figura dell’ebreo Barabba è il prototipo dell’ebreo disgustoso della letteratura antiebraica, «figura destinata a fomentare l’antisemitismo della specie più brutale». Anzi, secondo Yates, “Il Mercante di Venezia” è una sorta di risposta a Marlowe: gli spettatori del prima «udivano l’armonia universale echeggiata dall’opera del frate cabbalista di Venezia, mentre quelli de “L’ebreo di Malta” erano portati a trasformarsi in folle antisemite”. A differenza di Shakespeare, Marlowe proponeva un testo di violenta propaganda in cui, con singolare modernità, proponeva la figura dell’ebreo avido e dominatore con una singolare anticipazione dei temi dei “Protocolli dei Savi di Sion”: era la reazione aspra di quella parte dell’Europa animata da intransigenza e oscurantismo contro la cultura rinascimentale e la sua straordinaria capacità di realizzare delle grandi sintesi culturali e spirituali. Era quella parte dell’Europa troppe volte pronta – dice Yates – a prendere la direzione sbagliata e a «dissipare le risorse spirituali che avrebbero potuto essere usate in modo costruttivo». Sono analisi dottte, e che qui abbiamo riferito in modo semplicistico ma che forse può bastare a dare l’idea di interazioni molto complesse e straordinariamente ricche e che non sono riducibili agli stereotipi di contrapposizioni banali. E le analisi dotte possono fare assai di più ch tante chiacchiere politico-moralistiche. Per esempio, possono farci scorgere nel pensiero di una delle più grandi menti della storia europea non la piatta ripetizione di slogan intolleranti ma il vivo intreccio delle tanto citate (spesso a sproposito o senza sapere bene di cosa si parli) radici giudaico-cristiane.
(FOGLIO del 04/01/2005. )

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