Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Obama ritira il Nobel per la pace Tutti estasiati dal suo discorso. Cronaca di Maurizio Molinari, interviste a A. B. Yehoshua, Peter Beinart, David Frum, Michael Walzer
Testata:La Stampa - L'Unità - Corriere della Sera Autore: Maurizio Molinari - Umberto De Giovannangeli - Marco Bardazzi - Francesco Semprini - Ennio Caretto Titolo: «Dottrina Obama: la guerra giusta preserva la pace - Ecco l'America che non vuole fare di testa propria - Sull'Afghanistan dice cose sagge. Sbaglia su Bush - Ha fissato le regole che rendono giusto il ricorso alla forza - I frutti ancora non ci sono. A B»
Barack Obama ha ritirato ieri il Nobel per la pace. I quotidiani di oggi dedicano diverse pagine di commenti al suo discorso. Alcuni vedono nella sua decisione di mandare soldati in Afghanistan un segnale di risveglio del presidente Usa, altri interpretano la sua decisione di intensificare gli sforzi in Afghanistan come una strategia per potersi ritirare al più presto. Tutti, comunque, hanno scritto commenti positivi al riguardo. Gli unici ad aver espresso qualche critica, sono i giornalisti del Manifesto che, in ogni caso, non hanno perso l'occasione per attaccare anche Bush. Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 11/12/2009, a pag. 6, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Dottrina Obama: la guerra giusta preserva la pace ", a pag. 7, l'intervista di Marco Bardazzi a Peter Beinart dal titolo " Ecco l'America che non vuole fare di testa propria ", l'intervista di Francesco Semprini a David Frum dal titolo " Sull'Afghanistan dice cose sagge. Sbaglia su Bush ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 11, l'intervista di Ennio Caretto a Michael Walzer dal titolo " Ha fissato le regole che rendono giusto il ricorso alla forza ". Dall'UNITA', a pag. 26, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a A. B. Yehoshua dal titolo " I frutti ancora non ci sono. A Barack chiedo più coraggio nell’azione ". Ecco gli articoli:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Dottrina Obama: la guerra giusta preserva la pace "
Barack Obama entra nel pantheon dei Nobel per la pace rivendicando il dovere di guidare la «guerra giusta» contro Al Qaeda per contrastare «il Male nel mondo» e promettendo di impegnarsi per far prevalere il rispetto dei diritti umani. Accolto in Norvegia dalle proteste dei gruppi pacifisti che gli contestano i rinforzi in Afghanistan e introdotto ai mille ospiti del Municipio dal presidente del comitato del Nobel, Thorbjorn Jagland, che definisce il premio un «invito ad agire», Obama accetta il riconoscimento rispondendo con franchezza alle critiche per descrivere la propria idea del ruolo dell’America nel mondo. Completo scuro, cravatta blu e con il volto che tradisce le insolite emozioni di un leader noto per essere «cool» (calmo), Obama esordisce con umiltà riferendosi a chi ritiene che il premio sia arrivato troppo presto: «Paragonato ai giganti che mi hanno preceduto, come Martin Luther King e Nelson Mandela, i miei risultati sono modesti». Ma quando affronta l’obiezione sulla legittimità di assegnare il Nobel per la Pace a un presidente in guerra, la risposta è di tutt’altro tono perché va al cuore del problema, spiega che il conflitto iniziato in risposta all’11 settembre 2001 è «giusto». «Sono il comandante in capo di una nazione nel mezzo di due guerre, una sta finendo e l’altra è un conflitto che non abbiamo voluto» dice rivendicando la decisione sui rinforzi «che uccideranno e saranno uccisi» perché «il male sulla Terra esiste» e così come fu giusto combattere contro Adolf Hitler lo è oggi contro «estremisti violenti che stravolgono il messaggio di una religione come l’Islam» e tentano di giovarsi della proliferazione nucleare di Nord Corea e Iran. La «guerra santa» di Bin Laden è l’antitesi della «guerra giusta» di Barack. Parlando in una sala che lo ascolta in silenzio - appena due gli applausi - il presidente ricostruisce la genesi della teoria della guerra giusta con l’approccio del giurista di Harvard: quando si combatteva «fra eserciti» significava «agire per autodifesa, in maniera proporzionale e risparmiando i civili», poi lo scontro è stato «fra nazioni» e per scongiurare i genocidi «si è creato il sistema dell’Onu per governare i conflitti» ma ora siamo nella nuova era delle guerre «dentro le nazioni» dove i terroristi attaccano in abiti civili e l’«uso della forza non solo è necessario ma moralmente giustificato». Obama rivendica il credo nella «non violenza di King e Gandhi» ma ammette che per un «capo di Stato che ha giurato di difendere la nazione» la forza è necessaria perché «nessun negoziato convincerà Al Qaeda a cedere le armi». Le letture fatte sui testi di Sant’Agostino così come il richiamo alla «pace pratica» di John F. Kennedy, lo portano a definire «giuste» anche altre guerre dell’America: i conflitti mondiali, la liberazione del Kuwait da Saddam, gli interventi nei Balcani e la risposta «all’orrore dell’11 settembre». Da qui l’omaggio agli uomini ed alle donne in uniforme «che per sei decadi hanno versato il sangue» per combattere il Male. E ai pacificisti irrudicibili manda a dire: «Desiderare la pace raramente basta per ottenerla». Alla base della teoria che espone c’è il concetto di «responsabilità» che fu l’architrave del discorso dell’inaugurazione. Essere «responsabile» per un leader significa «affrontare i sacrifici che la pace richiede»: mandare soldati nelle aree di crisi, rispettare la Convenzione di Ginevra, mettere al bando la tortura e chiudere Guantanamo perché «l’America deve incarnare gli standard sulla condotta della guerra». In cima a tali responsabilità c’è l’impegno per i diritti umani, con il quale Obama conclude il discorso lasciando intendere che è il timone per i prossimi anni. La promessa è di combattere «il genocidio in Darfur, gli stupri in Congo, la repressione in Birmania» e di sostenere il «coraggio degli elettori in Zimbabwe e dei manifestanti in Iran». Ai popoli sotto questi regimi promette, parafrasando King, di «fargli sapere che la Storia è dalla loro parte». E’ un linguaggio da leader idealista come lo fu Woodrow Wilson - il primo presidente americano a ricevere il Nobel per la Pace - ma Obama crede che ciò sia compatibile con il pragmatismo. Da qui la ricetta di «bilanciare isolamento e dialogo, pressioni e incentivi» nell’approccio ai dittatori. Alla fine la platea rompe il silenzio e si unisce ai reali in una standing ovation che accompagna Barack e Michelle verso l’uscita, da dove raggiungono il Grand Hotel per salutare dal balcone la fiaccolata dei fan che ritmano il grido «Obama, Obama». La serata si chiude con il banchetto reale: «Ho vinto grazie a mia mamma», ha detto il Presidente alzando il bicchiere.
L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " I frutti ancora non ci sono. A Barack chiedo più coraggio nell’azione"
A. B. Yehoshua
Si è detto, e a ragione, che il Nobel per la Pace conferito a Barack Obama sia stato un investimento sul futuro. Un futuro di dialogo e di pace.Unfuturo di “ponti” da realizzare e di “muri” da abbattere. Sono anch’io di questo avviso, ma con la stessa onestà intellettuale va riconosciuto che questo investimento non ha dato ancora i frutti sperati, almeno in Medio Oriente». A sostenerlo è uno dei più grandi scrittori contemporanei: l’israeliano Abraham Bet Yehoshua. Obama e il Nobel per la Pace. Visto da Israele, il presidente Usa è stato all’altezza di questo prestigioso riconoscimento? «Non mi sembra che sia già giunto il tempo per emettere giudizi definitivi, tanto meno “sentenze”. Certo le aspettative erano grandi, forse troppo grandi, ma va anche detto che è stato lo stesso Obama ad alimentarle. Nonparlerei di delusionemadi un giudizio sospeso. Sospeso in attesa di fatti». Più volte Obama ha affermato che la soluzione del conflitto israelo-palestineseeratra le priorità dellasuaagenda internazionale. È stato così? «L’impegno non può essere misurato dal numero dei viaggi che la signora Clinton (segretaria di Stato Usa, ndr) o il senatore Mitchell (inviato speciale di Obama per il Medio Oriente, ndr) hanno fatto in Israele, nei Territorio nei Paesi arabi. L’impegno si misura dalla capacità di smuovere le acque stagnanti di un processo di pace che non si schioda dalle dichiarazioni di principio». Partendo da questa considerazione di fondo, cosa si sente di imputare al Presidente- Nobel per la Pace. «Non sono un pubblico ministero né ungiudice che deve emettere sentenze o comminare pene…Ciòche posso dirle è che, da estimatore di Obama, mi sarei aspettato, e continuo a farlo, più determinazione, più coraggio nell’azione. Se guardo al Medio Oriente, alle incertezze delle leadership israeliana e palestinese, dico che ci vorrebbe più pressione sulle due parti, e invece ». Invece? «Invece il presidente Usa sembra frenato dalla volontà di non produrre scosse, di evitare drammi, ma senza “strappi” è impossibile ricucire poi i fili del negoziato». Anche Lei è tra coloro che imputano a BarackObamadi produrre bei discorsi ma pochi fatti? «Vede,comescrittore so bene l’importanza, il peso delle parole. Le parole sono la mia vita. Le parole possono aprire o chiudere i cuori e le menti; possono emozionare, indignare, provocare dolore o alimentare speranze. Per tornare alla sua domanda, posso dirle che resto convinto che le parole pronunciatedaObamanel suo discorso del giugno scorso all’Università egiziana di Al-Azhar, abbiano colto ciò che gran parte degli israeliani ha nel cuore.MaObamanon è uno scrittore, non è un predicatore, anche se è un grande, grandissimo comunicatore. Barack Obama è un leader mondiale. E come tale è “condannato” a dare un seguito concreto alle sue parole. Ma di questo il presidente Usa è pienamente consapevole, e ciò è beneagurante ». Tra i critici diObamasono in molti, riferendosi all’invio di altri 30mila soldati in Afghanistan, a sottolineare che a ricevere il Nobel per la Pace sia il capo di una nazione impegnata in due guerre. «Non condivido questa critica. La trovo sbagliata, oltre che ingenerosa. E dico questo avendo ben presente il Nobel per la Pace conferito ad un uomoche per buona parte della sua vita aveva combattuto i nemici del suo Paese, ma che proprio perché aveva combattuto era giunto alla convinzione che la sicurezza d’Israelenon poteva essere affidata solo alla forza del suo esercito. Quell’uomo era Yitzhak Rabin, un “generale” di pace. Obama non è un pacifista romantico, come non lo era Rabin. Ma è un presidente consapevole che l’America può riconquistare la sua leadership politica, direi “etica”, a livello internazionale, se è in grado di globalizzare i diritti, i principi che sono a fondamento della sua democrazia.E questo non lo si ottiene mostrando i muscoli, anche se la storia insegna, come ha ricordato Obama, che Hitler non sarebbe stato piegato dallanonviolenza.Epurtroppo anche ai giorni nostri Hitler ha i suoi epigoni, più o meno mascherati, magari da presidente iraniano o da capo di Al Qaeda». Stando ai sondaggi, Obama non è vissuto come “presidente amico” da una parte significativa, se non maggioritaria, degli israeliani… «Qui sono totalmente a fianco di Obama. Lo sono perché Obama è l’amico che vorrei a fianco. Al fianco d’Israele. Perché un amico, vero, è anche un amico “scomodo”, quello che ti indica onestamente i tuoi errori e prova ad aiutarti a correggerli, senza mai far venire il suo sostegno quando – come nel caso dell’Iran – qualcuno prova a stenderti… Semmai, al presidente Obama chiedo di esercitare con più determinazione questa amicizia ». Esercitarla, ad esempio, sulla questione degli insediamenti? «Io credo che esistaun nesso inscindibile tra la smilitarizzazione dello Stato palestinese, la definizione consensuale dei confini fra i due Stati, Israele e Palestina, e lo smantellamento degli insediamenti che non rientrano nei nuovi confini d’Israele, che non possono essere quelli del 1967. Ed è in questo contesto che io ritengo necessario riconoscere che gli insediamenti israeliani rafforzano l’odio dei palestinesi verso Israele. E l’odio, ha ragione Obama, è il primo “muro” da abbattere” se si vuole davvero un Nuovo Inizio».
La STAMPA - Marco Bardazzi : " Ecco l'America che non vuole fare di testa propria "
Peter Beinart
La chiave del discorso di Obama è il suo riconoscimento che anche noi americani siamo capaci di fare del male». In che senso, professor Beinart? «Nel senso che nel parlare di “guerra giusta”, ha posto l’enfasi sul fatto che l’America non può comunque fare di testa propria nel mondo. Ha insistito sulla necessità di seguire le regole internazionali, se vogliamo che anche gli altri le seguano. Non ha rinunciato a descrivere l’eccezionalità americana, ma l’ha proposta in un modo opposto a quello di Bush». Peter Beinart, ex direttore di «New Republic», docente alla City University di New York ed esperto liberal di politica estera molto ascoltato alla Casa Bianca, ha appena finito di rileggere per la seconda volta il discorso di Obama a Oslo. E la prima citazione che gli viene in mente, scorrendo il testo, sono le parole di un altro presidente democratico, Harry Truman: «Occorre riconoscere che per quanto sia grande la forza che abbiamo come americani, dobbiamo negare a noi stessi la libertà di far sempre come ci pare». «Questa è la cosa che i Cheney e le Palin non capiranno mai - dice Beinart - e che non comprendeva Bush, pur citando spesso Truman. L’approccio di Bush era: “Siamo un paese unico e non vogliamo restrizioni alla nostra libertà, perché più siamo liberi di agire, più facciamo il bene nel mondo”». Cosa sta dicendo invece Obama? «L’attuale presidente segue la lezione di Reinhold Niebuhr, un teorico della guerra giusta che influenza molto il suo pensiero. Nel ribadire i compiti che gli Stati Uniti hanno nel mondo, anche sul piano militare, Obama riconosce che gli americani sono in grado di fare del male come tutti. Per questo hanno bisogno di restrizioni e di lavorare con le organizzazioni internazionali». Quali sono le conseguenze di questo approccio? «Sono il riconoscimento per esempio del ruolo della Nato e dell’Onu e della necessità di agire, anche in guerra, dentro una cornice di legalità internazionale. È significativo che abbia lodato, insieme all’opera dei militari americani, quella delle forze di peacekeeping delle Nazioni Unite. Bush non l’avrebbe mai fatto». Bush non doveva però fare i conti con la difficoltà di pronunciare un discorso da Nobel per la pace pur essendo un presidente di guerra. Come ha risposto Obama a questa sfida? «Bene, ma non benissimo. Dovessi dare un voto al suo discorso, sarebbe un B+ (più o meno un 7 e mezzo italiano, ndr). Non è stato un discorso memorabile. Non è un giudizio troppo severo? «Quello che è strano di Obama è che nessuno dei suoi discorsi da presidente finora è stato “storico”, come invece molti di quelli che ha pronunciato in campagna elettorale. Cerca sempre di parlare di troppe cose, e alla fine non restano impressi un’immagine o una frase forti. Del suo discorso inaugurale, per esempio, tutti ricordano l’emozione di quel giorno, ma le parole non sono destinate a passare alla storia». Che echi avranno negli Usa le sue parole? «Ne avranno pochi, sicuramente meno che in Europa. I liberal resteranno della loro idea sulla guerra, i conservatori diranno che non meritava il Nobel. Più in generale, il paese pensa ad altro: alla riforma della sanità, all’economia. Oslo è lontana».
La STAMPA - Francesco Semprini : " Sull'Afghanistan dice cose sagge. Sbaglia su Bush "
David Frum
Il coraggio di Barack Obama è nell’ammettere che la guerra è necessaria laddove la pace non preveda libertà. La sua più grave debolezza è insita nel fatto che ad Oslo non ha rappresentato tutti gli Stati Uniti». È perentorio David Frum, esperto dell’American Enterprise Institute, ex «speechwriter» di George W.Bush e autore del libro «Il ritorno: Il conservatorismo che può vincere ancora». Come giudica il messaggio di Obama? «Sono due i passaggi chiave del discorso. Il primo è il tributo a tutti i soldati americani: non possiamo dimenticare che sono stati proprio gli Stati Uniti che più si sono adoperati nella Seconda Guerra mondiale per difendere democrazia e libertà in Europa. Il secondo è la difesa della guerra in Afghanistan: un elemento di grande coraggio, culturale e politico, visto che lo ha fatto ritirando il Nobel per la pace mentre in patria è alle prese con la forte emorragia di consensi dovuta anche alla guerra». C’è un però, qual è? «La grave macchia del suo intervento è che si è dimenticato di essere il presidente di tutti gli Stati Uniti. Il tentativo di identificarsi come il buono contrapposto al cattivo Bush è deplorevole. Quando il leader di uno Stato va all’estero non può permettersi di mettere in cattiva luce un avversario politico di casa sua o una parte del suo popolo. Al momento di ritirare il Nobel Obama avrebbe dovuto tener a mente che rappresentava tutta l’America». C’è una guerra «giusta» di Obama e una «sbagliata» di Bush? E che differenza c’è tra le due? «Ci tengo a precisare che la guerra in Iraq è anche la guerra di Barack Obama e non solo di Bush. Ci sono ancora migliaia di soldati americani in quel Paese che stanno facendo il possibile per difendere libertà e democrazia, conducono operazioni delicate e sono cruciali per il successo della exit strategy. Inoltre quello che i militari e i loro generali hanno imparato in Iraq lo usano ora in Afghanistan. Tradizionalmente l’esercito Usa non è mai stato brillante nelle missioni anti-guerriglia o contro formazioni ribelli, ma grazie all’Iraq stanno compiendo grandi passi in avanti». Obama è un presidente di guerra che ritira un premio per la Pace. Come ha risposto a questa sfida? «Si è difeso bene. La parte del discorso sulla missione è stata la più brillante e da questo punto di vista ha passato l’esame. Ha difeso quello che gli Usa stanno facendo in Afghanistan, ha respinto il concetto secondo cui una guerra è sempre sbagliata, e ha sottolineato il fatto che una pace senza libertà non è una vera pace ed è quindi necessario ricorrere alle armi. Gli Usa hanno agito secondo questi principi nella Seconda Guerra Mondiale e nella Guerra fredda». Cosa sarà ricordato nel tempo di questo discorso? «Il premio in sé temo che non abbia gran valore. Lo pensano i tre quarti degli americani, e gli stessi democratici ne sono consapevoli. Se però la missione in Afghanistan sarà portata a termine con successo, la gente ricorderà il coraggio di Obama nel difendere la guerra da uno scranno dove si celebra la pace, è questo il vero testamento culturale che potrebbe lasciare. Ma in caso di fallimento il discorso passerà alla storia come una parodia, sarà oggetto di ogni forma di ironia possibile».
CORRIERE della SERA - Ennio Caretto : " Ha fissato le regole che rendono giusto il ricorso alla forza "
Michael Walzer
WASHINGTON — Michael Walzer, l’autore di «Guerre giuste e ingiuste», il tema del discorso di Obama a Oslo, elogia il presidente. «Ha tenuto un discorso nobile e idealista — dichiara — ma ha anche enunciato i princípi fondamentali, concreti, di quella che dovrebbe essere d’ora innanzi la politica estera e la condotta militare dei Paesi civili: l’equilibrio tra il dialogo e le sanzioni punitive nei rapporti con gli Stati canaglia; i limiti invalicabili nel ricorso alla forza; la necessità che la guerra giusta porti alla pace giusta». Il filosofo politico, un liberal fautore della diplomazia muscolare, aggiunge che per la prima volta Obama ha addotto una ragione morale per il proseguimento della guerra in Afghanistan: «Abbiamo l’obbligo di aiutarlo». Le polemiche sul Nobel innanzitutto: Obama se lo è meritato? «Non direi, lo ha ammesso egli stesso. Più che un premio a lui, mi è sembrato un rimprovero al predecessore Bush. Ma Obama ha saputo sfruttare il Nobel per assicurare al mondo che l’America crede nel multilateralismo, la collaborazione e la soluzione negoziale dei problemi. Quando ricorre alla guerra è perché essa è giusta, non esistono alternative, si tratti di porre fine all’aggressione di uno Stato, ad atti di terrorismo, a un genocidio». Pensa che il discorso di Obama a Oslo segnerà una svolta per il meglio nelle relazioni internazionali? «Mi auguro di sì. È stata un’affermazione del nostro impegno alla pax globale americana nel senso migliore della parola. L’America intende rispettare i propri valori e il diritto internazionale, a cominciare dai diritti umani, non abuserà della propria superpotenza, chiederà che gli altri facciano altrettanto. Bush non avrebbe potuto pronunciare un discorso del genere». Il discorso non è servito a Obama anche per giustificare la guerra dell’Afghanistan? «Questa è l’obiezione dei pacifisti. Può fare presa sui giovani, soprattutto in Europa, ma non sugli anziani che hanno vissuto il secondo conflitto mondiale. Esso fu una guerra giusta, come quella dell'Afghanistan. La strage delle Torri gemelle non fu un atto criminale, fu un vero atto di guerra. Al Qaeda aveva la sua base in Afghanistan e aveva i talebani come partner. C’era una ragione morale per fare la guerra, e ce n’è una per continuarla». E sarebbe? «Abbiamo invaso quel Paese, l’abbiamo tenuto in guerra per otto anni. Per colpa di Bush abbiamo commesso una serie di errori gravissimi, peggiorando la situazione. È doveroso salvarlo, se è ancora possibile. Nel discorso a Washington sull’invio di nuove truppe in Afghanistan Obama addusse solo motivi strategici. Adesso spiega che è anche un imperativo etico e che dobbiamo rendercene conto». Obama ha affermato di volere una pace giusta. La crede probabile? «Non sono molto ottimista sull’Afghanistan sia perché l’America potrebbe stancarsene, sia perché il prezzo della vittoria potrebbe essere troppo elevato. Ma nonostante i rovesci, in Afghanistan è avvenuto un piccolo miracolo: sta sorgendo una società civile, secolare, democratica, che è sì imperfetta ma può svilupparsi. Abbandonarla ora sarebbe un tradimento imperdonabile». I critici di Obama dicono che un presidente in guerra non deve essere insignito del Nobel. «Io ho una sola obiezione alla guerra. La conduciamo troppo con i bombardamenti. Risparmiano le vite dei nostri soldati ma uccidono i civili. È una prassi da stroncare. È il ricorso sproporzionato alla forza che deve essere vietato dalla comunità mondiale».
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