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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
08.12.2009 Il nemico interno: terrorismo, i nuovi kamikaze solitari
Hanno pochi complici e contatti su internet. Analisi di Guido Olimpio, Gianni Santucci

Testata: Corriere della Sera
Data: 08 dicembre 2009
Pagina: 13
Autore: Guido Olimpio - Gianni Santucci
Titolo: «Terrorismo, i nuovi kamikaze solitari - È la terza generazione (via Internet) di Al Qaeda»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 08/12/2009, a pag. 13, l'articolo di Guido Olimpio e Gianni Santucci dal titolo " Terrorismo, i nuovi kamikaze solitari ", l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " È la terza generazione (via Internet) di Al Qaeda ". Ecco i due articoli:

Guido Olimpio, Gianni Santucci - " Terrorismo, i nuovi kamikaze solitari "

 Mohammed Game, attentatore della caserma Perrucchetti di Milano

« Ridatemi indietro i miei oc­chi e le mie dita». Quando gli inquirenti sono entrati in ospedale per interrogare Moham­med Game, lui li ha colti di sorpresa. L’attentatore della caserma Perrucchet­ti di Milano è convinto che siano stati i medici a sottrargli le parti del corpo che ha perso nell’esplosione. Un’idea strampalata, che rivela lo stato mentale di un uomo per nulla piegato dall’espe­rienza vissuta. Un’esperienza che ha molti punti di contatto con le storie dei kamikaze in Medio Oriente. Ma l’aspira­zione a diventare un martire, in Game, è maturata nel suo quartiere, vicino a San Siro. Tra rabbia sociale e suggestio­ni Internet, problemi di salute e risco­perta della fede, slegato dalle reti estre­miste. Ecco perché la storia del kamika­ze della Perrucchetti è un paradigma: per interpretare il profilo dei nuovi «bombaroli»; capire la loro formazione. E scoprire come cambia il rischio terro­rismo nelle nostre città.

La reazione


Ora Game è nel carcere di San Vitto­re: chi è andato a fargli visita s’è trova­to di fronte un uomo con gli occhi aper­ti, ma che vagano nel vuoto. Indossa una giacca, con una manica che penzo­la sul braccio amputato. Cieco, ha chie­sto un Corano registrato in cassetta. Lo ascolta regolarmente e prega cinque volte al giorno. Sta soffrendo per le me­nomazioni fisiche, ma con la testa sem­bra ancora dentro il percorso che l’ha portato all’attentato. Ha detto: «Va be­ne così, ormai quel che è stato è stato». Un atteggiamento che può apparire stra­no, ma che ritroviamo nel
day after , il giorno dopo, di tanti aspiranti kamika­ze. Ne abbiamo visti molti, per motivi di lavoro, in Palestina. Ed abbiamo par­lato con i loro parenti. I racconti sono surreali. Uno, prima di farsi saltare, ha dato dei soldi al fratello perché pregas­se per un gatto che aveva ucciso. Un al­tro, scampato all’esplosione, pensava di trovarsi in Paradiso. Uno aveva chie­sto di cambiare la data dell’attentato perché «aveva un esame». Frasi che di­mostrano come sia difficile comprende­re cosa passi nella testa degli attentato­ri. Specie se operano da soli o all’inter­no di una cellula minuscola, come quel­la di Game. Stranezze legate anche alla rapida trasformazione del terrorista libi­co. Laico, in passato bevitore, lontano dalla moschea e dalla politica, si radica­lizza a una velocità supersonica. Nell’ar­co di pochi mesi si trasforma da recluta a mujahed , da gregario a capo di se stes­so, da elettricista (in Libia ha studiato da ingegnere) ad artificiere.

La riscoperta


Come per i kamikaze palestinesi, l’ambiente sociale sembra condiziona­re
la scelta di Game. Ha problemi di sa­lute (un infarto un anno fa), un figlio malato, decine di operai non pagati l’hanno denunciato. Alcuni amici e fa­miliari ricordano un altro episodio: fi­no a maggio scorso, Game ha avuto una storia clandestina con un’altra don­na, una ragazza russa. Raccontano che avesse perso la testa per lei, fino a chie­derle «di diventare musulmana e spo­sarlo in moschea». La giovane ha rifiu­tato, e questo ha lasciato l’uomo in uno stato di prostrazione. È un quadro com­plesso di guai personali che lo spinge alla religione, primo passo verso l’estre­mismo. È probabile che qualcuno lo in­coraggi. Forse ne coglie le debolezze e le usa come leva, per convincerlo che «la lotta è la soluzione dei problemi». L’ispiratore può averlo fatto in modo diretto oppure, più abilmente, usando i discorsi «giusti». È la miscela vicende personali/idee politiche che può indur­re una persona a diventare un «uomo bomba».

La preparazione


Il libico si è messo a studiare. Con lunghe sedute al computer e in bibliote­ca, ha fatto il «ripasso» della storia del
suo Paese, insistendo sul colonialismo italiano, sfogliando anche libri dello storico Angelo Del Boca. Poi, non a ca­so, ha scelto per l’attacco il 12 ottobre. Quel giorno, nel 1911, nel corso della guerra italo-turca, le truppe italiane presero il controllo di Tripoli. In carce­re, con qualche probabile confusione, lo ha confidato di nuovo: «È il giorno in cui hanno invaso il nostro Paese». Per colmare il gap militare, si è servito di video preparati da militanti esperti. Uno di loro, dall’accento saudita, inse­gna con precisione come realizzare or­digni con prodotti reperibili sul merca­to civile. E Game, da bravo scolaro, ha seguito la lezione comprando acetone, fertilizzante e liquido stura-lavandino. Altre informazioni tattiche le ha ricava­te da una fonte inusuale per i qaedisti: il manuale di un gruppo palestinese at­tivo negli Anni ’70 e ’80. Il libico segui­va poi le esperienze di estremisti tede­schi di origine turca oggi in Pakistan. Uno di loro, Bekkay Harrach, ha diffu­so tre video di minacce contro la Ger­mania.

L’operazione


Il profilo di Game — vocazione da professionista, comportamenti da dilet­tante — emerge anche nella fase opera­tiva. È abbastanza abile da mettere in piedi una base dove «cucinare» le bom­be. Però usa un fertilizzante a bassa gra­dazione e mette a punto un innesco ru­dimentale. Un covo dove, vicino ai fil­mati della
jihad , ci sono videocassette che non ti aspetti, come L’amante di Lady Chatterley . Nel laboratorio case­reccio gli inquirenti hanno trovato le tracce di altri possibili ordigni. Strano: se lui deve immolarsi, chi userà gli al­tri? Abdel Mahmoud Kol e Mohammed Isfrael? Forse dovevano essere parte dell’azione, ma poi si sono chiamati fuori. Indecisi, oppure riservati alla lo­gistica.

Game è l’opposto. Nei giorni prece­denti all’attacco, somiglia davvero a un kamikaze palestinese. Letture specifi­che sul Corano, nuove ricerche su Inter­net. Ad un amico confida che «presto avrà molto denaro». Gli hanno promes­so dei soldi? Il libico ne aveva bisogno per il figlio. Altro aspetto interessante. Game pensa al futuro, ma poi accelera il piano. Compra gli ingredienti per le bombe tra il 26 settembre e il 7 ottobre, quindi passa all’azione cinque giorni dopo. Un cambio dovuto alla sua insta­bilità mentale o è stato istigato? Chi in­daga, ritiene probabile la prima ipotesi. La microcellula aveva più bersagli di Al Qaeda. Politici, fast food, la residen­za di Berlusconi ad Arcore, Mediaset. Una lista ben oltre le possibilità del ter­zetto. Ma anche questo è in linea con casi rilevati in altri Paesi occidentali: i «vorrei ma non posso» puntano in alto, poi ripiegano sul bersaglio fattibile. È ciò che ha fatto Game, mancando per un soffio il massacro.

Guido Olimpio - " È la terza generazione (via Internet) di Al Qaeda "

WASHINGTON — È come se Moham­med Game avesse molti «fratelli». In Fran­cia, in Gran Bretagna, persino negli Stati Uniti. Terroristi solitari o al massimo con paio di complici. Ma con una voglia inte­riore che li porta a osare. Potremmo defi­nirla la terza generazione di Al Qaeda. Non ne hanno mai fatto parte, l’hanno vista at­traverso uno schermo di un computer pe­rò la considerano come la «casa madre». Ne condividono gli obiettivi e le tattiche. Si muovono senza bisogno di coordinatori o ordini, però se possono cercano il contat­to per l’investitura.

Il 12 ottobre di quest’anno, lo stesso giorno dell’attentato di Milano, veniva ar­restato in Francia Adlene Hicheur. Fran­co- algerino di 32 anni, fisico nucleare, la­vorava nientemeno che al centro per ricer­che atomiche del Cern in Svizzera. Per me­si è rimasto in contatto, via Internet, con un dirigente di Al Qaeda nella terra del Ma­ghreb, costola algerina del movimento di Bin Laden. Gli avevano suggerito di cerca­re informazioni per attaccare una caserma degli alpini francesi.

Qualche settimana dopo, l’unità antiter­rorismo di Scotland Yard blocca un giova­ne albanese, Krenar Lusha. Nell’apparta­mento gli trovano video che mostrano co­me preparare cinture da kamikaze, 14 cel­lulari modificati per attivare le bombe e fertilizzante. Sembra la copia di Moham­med Game.

Ci spostiamo a Denver, Stati Uniti. L’Fbi individua una minicellula, guidata dall’af­ghano Najibullah Zazi. In una camera di al­bergo — ancora come nella vicenda mila­nese — ha miscelato prodotti chimici per mettere a punto degli ordigni. Si è anche
recato in Pakistan dove avrebbe avuto con­tatti con un alto esponente di Al Qaeda. Sempre Usa, area di Boston. La polizia cat­tura il cittadino americano d’origine me­diorientale Tarek Mehanna. La sua arma, dicono gli investigatori, è il computer. Ha in mente di colpire un centro commercia­le. È quasi un ripiego. Per diverse volte, in­sieme a un complice fuggito in Siria, si re­ca in Pakistan e nello Yemen dove spera di essere ammesso ai campi d’addestramen­to.

Sono respinti: gli estremisti non si fida­no, temono si tratti di spie.

Soli come cani e fuori di testa il giorda­no Hosam Smadi e l’americano Michael Finton, alias Talib Islam. Entrambi sono stati arrestati in due casi separati con «stangate» dell’Fbi. Gli agenti si sono finti qaedisti e li hanno coinvolti in presunti complotti. Smadi ha sistemato una vettura che pensava piena d’esplosivo sotto un grattacielo di Dallas, Texas. Finton, invece, ha parcheggiato un veicolo bomba (iner­te) vicino a un palazzo federale a Spring­field, Illinois.

Episodi a latitudini diverse che confer­mano una tendenza pericolosa e, nel con­tempo, sottolineano come sia possibile, a volte, fermare i lupi solitari.

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