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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
06.12.2009 Sapori e profumi della cucina kasher
Nel libro di Howard Jacobson

Testata:Corriere della Sera
Autore: Howard Jacobson
Titolo: «Il tempo ritrovato nel sapore di Chrain»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 06/12/2009, a pag. 37, l'articolo di Howard Jacobson dal titolo "  Il tempo ritrovato nel sapore di Chrain ".

Howard Jacobson

Non v’è piacere più gran­de, per uno scrittore in­glese, che vedere i pro­pri romanzi tradotti in italiano. Anzitutto, per­ché così ha una buona scusa per venire in Ita­lia. Se poi il suo editore italiano è anche un amante del vino e della buona tavola, il piacere è doppio. E in questo io non potrei ritenermi più fortunato. Il mio editore è un vero buongustaio e fa tutto il possibile per stuzzicare e soddisfare il mio palato, e per intro­durmi alle finezze della cucina italiana: tagli di carne di animali che non sapevo nemmeno esi­stessero, vini di cui non ho mai sentito parlare, prodotti in regioni che non si trovano su nessuna carta geografica. Il problema è che, quando ven­go in Italia, c’è un unico lusso che vorrei davvero concedermi, almeno per i primi tre o quattro gior­ni, ed è quello di indulgere all’ovvio: non necessa­riamente un piatto traboccante di spaghetti alla bolognese annaffiato con un corposo Valpolicel­la, ma diciamo qualcosa del genere. Qualcosa di rosso. Qualcosa di grosso. Qualcosa in cui poter sparire.

In parte è una reazione a ciò che mangiavo da piccolo. Immagino che qualcuno lo definirebbe «cibo da ghetto», anche se il quartiere ebraico di Manchester nel quale sono cresciuto non era esat­tamente un ghetto. Ma quando si trattava di cibo, eravamo pronti a ghettizzarci da soli, mangiando ciò che avevamo imparato a mangiare dai nostri nonni ashkenaziti: piatti tipici di Lodz o Lvov, pri­vi di colore — e in gran parte anche di sapore —, ricette contadine pensate per ricavare il massimo da poco (o nulla) e per aiutare ad affrontare un lungo e rigido inverno. E anche se ci leccavamo i baffi al pensiero di un po’ di pesce lesso «arricchi­to » con mollica di pane grattugiato, o di filetti d’aringa marinati talmente a lungo in aceto dolce da aver perso ogni possibile rassomiglianza al­l’aringa, non era il cibo in sé a piacerci, ma il fatto di ritrovarci tutti assieme in ristoranti e negozi di specialità gastronomiche kosher e parlare yid­dish. Era un vero e proprio rituale.

Adoravo ordinare kishkes (frattaglie), kneidla­ch (polpette di matzoh, ovvero pane azzimo) o kreplach (fagottini triangolari la cui imbottitura mi è sempre rimasta ignota), non perché volessi davvero mangiarli, ma perché mi piaceva pronun­ciare quelle parole. Il gusto? E a chi importava del gusto? Il gusto era tutto nei loro nomi.

Agli ebrei in fondo piace giocare a fare gli ebrei, e quando sei giovane, non v’è gioco più di­vertente che riempirti la bocca del lessico culina­rio del tuo paese d’origine. Cholent, shlishkas, la­tkes, tsimmis, kugel...sembravano i villaggi della Romania e della Lituania di cui i nostri genitori non parlavano mai. Prendete le shlishkas, vale a dire gli gnocchi di patate...la famiglia di Pinchas Freedman, il nostro dirimpettaio, non veniva pro­prio da Shlishkas? Oppure tsimmis e kugel, cioè sformato di tagliolini e carote dolci... conosceva­mo delle persone che si chiamavano Tsimmis e Kugel. I miei preferiti, però, erano i blintzes. I blintzes sono delle frittelle ripiene di panna acida o di frutta ancora più acida, ma l’importante non era cosa sono. Era il suono della parola a farci ri­dere. Blintzes. Chiedere dei blintzes al ristorante
ci faceva sentire un po’ come in nostri trisavoli polacchi. Quando li ordinavamo ci ingobbivamo addirittura, e la nostra voce si arrochiva.

Idem per il chrain. «Chrain...una porzione ab­bondante di chrain, per favore». Ordinare del chrain in un negozio di alimentari kosher rappre­sentava una vera prova di abilità nella pronuncia dello yiddish. Quando lo chiedevi, dovevi sembra­re in preda a una crisi di soffocamento — ch, ch, ch — altrimenti non te lo portavano. Per chi non lo sapesse, il chrain è rafano. Ai miei tempi gli ebrei lo mettevano praticamente su tutto. Era l’unico modo per dare gusto alle pietanze. Il chrain andava sul gefilte fish, su esangui e scialbe cervellate, su un pollo privato di ogni sapore da
elaborati procedimenti di kosherizzazione. Il chrain andava ovunque, persino sul chrain. Mio padre se lo portava di nascosto nei ristoranti cine­si e indiani. Lo metteva sulle costolette all’agro, e su quelle dolci. Lo usava anche con il curry.

«Ma papà, il chrain non va sul vindaloo di man­zo » dicevamo noi. Lui scuoteva la testa come Na­than il Saggio. «Il chrain va su tutto» sentenziava. Lo dava addirittura da mangiare ai suoi conigli. Sì, perché mio padre faceva il mago alle feste dei bambini, e in genere terminava sempre il suo nu­mero tirando fuori un coniglio dalla tasca interna della giacca. Ebbene, quei conigli li nutriva a chrain...finché a un certo punto non cominciaro­no a morire. A sentir lui, perché non erano coni­gli ashkenaziti. Così provò a importare conigli da Lodz o Lvov, ma alla dogana non li lasciavano pas­sare. Alla fine smise di dargli il chrain. I conigli, però, continuarono a morire. Probabilmente per­ché, concludemmo, prima di andare a dormire di­menticava di tirarli fuori dalla tasca interna della giacca. Ma lui era fermamente convinto che fosse tutta colpa del chrain: era il chrain ad avvelenare i loro organismi, come la mixomatosi, sì, certo, an­che di quei conigli a cui non lo aveva mai dato, il che dimostrava solo fino a che punto poteva risul­tare letale per quella razza che non vi era genetica­mente predisposta.

E a casa quest’idea della potenza devastante del chrain era condivisa da tutti. Mia madre non mancava mai di avvisare i gentili che venivano in visita da noi: il chrain era così forte che solo gli ebrei discendenti da famiglie che avevano vissuto per secoli nell’Europa dell’Est potevano mangiar­lo
senza coprirsi la lingua di vesciche, ma in ogni caso erano liberi di provarci. «Attenzione, però» urlava, memore della sorte toccata ai conigli «ap­pena una puntina, mi raccomando». In realtà il chrain era forte pressappoco quanto il pepe dol­ce, ma a noi piaceva coltivare l’illusione che la no­stra cucina fosse esotica, per nasconderci il fatto che era semplicemente priva di gusto.

C’era anche un’altra ragione per la quale andava­mo tanto pazzi per il tipo di chrain che comprava­mo e usavamo: non era il rafano bianco conosciu­to dai non ebrei, bensì il chrain mescolato a barba­bietole, ed era rosso. Il colore della Creazione. Per il resto, tutto ciò che mangiavamo era assoluta­mente incolore. Il pesce era bianco. Le aringhe gri­gie. Il pollo bollito era un beigiolino spento. Persi­no i pomodori erano più di un giallo autunno che rosso estate. Mio padre mescolava panna acida e formaggio cremoso, bianco con bianco — una lec­cornia russa, sosteneva lui (anche se io non ho mai incontrato un russo che sapesse di cosa si trat­tava). In altre parole, nessuna delle nostre pietan­ze, a parte il chrain, aveva mai visto il sole. Per questo oggi, ogni volta che ho la possibilità di ve­nire in Italia, è così importante per me sentire il sapore del sole quando mangio. Il sostanzioso su­go rosso della pasta alla bolognese. Gnocchi alla sorrentina. Lo sfincione siciliano. E il mio editore invece — per pura generosità d’animo, devo dire — vuol sfamarmi con spezzatino e fagioli accom­pagnato da cervello di maiale bollito servito su una crosta di pane bianco raffermo!

L’altro svantaggio della nostra dieta era nella pe­nuria di solidi. Zuppe e minestre: sono queste le maggiori specialità culinarie dell’Europa orienta­le. Tutto sostanzialmente liquido, da sorbire con la cannuccia. Persino la challah, il tradizionale pa­ne a forma di treccia tanto amato dagli ebrei, era così soffice che quasi potevi berlo. Era forse per­ché i nostri antenati avevano perso i denti? In sen­so reale e figurato? O perché gli ebrei, ovunque esiliati, mangiano soprattutto per consolarsi e pre­diligono cibi che gli rammenti il latte materno?

Una cosa è certa: il fatto di essere lontani da ca­sa spinge le persone a sentirsi più legate a quella che considerano la loro cucina nazionale. Da tem­po non abito più in un quartiere ebraico, eppure non perdo mai occasione di procurarmi del cibo ebraico, che adesso appaga un duplice senso di nostalgia. Non solo mi ricorda il luogo d’origine dei miei antenati, ma anche la mia infanzia.

Si potrebbe affermare che il bagel è per me ciò che era la madeleine per Proust: il ricordo del ba­gel non fa a tempo ad affiorare che mi ritrovo as­sieme a mio padre, e lo guardo mentre mescola amorevolmente smetana e kez, panna acida e for­maggio cremoso (una vera delizia sui bagel), pro­prio come Proust si ritrovava nella vecchia casa
grigia dove sua zia gli dava un pezzetto di madelei­ne inzuppato nel suo infuso di tiglio. Anche se i miei ricordi sono decisamente più affollati e caoti­ci. Un «infuso di tiglio» suggerisce un garbo e una delicatezza di cui pochi ebrei cresciuti nella Man­chester postbellica erano in possesso. Anch’io ave­vo zie il cui ricordo può essere di colpo evocato dal profumo di un piatto, ma erano una vera schie­ra, più di quante ne riesca a ricordare, ed erano piuttosto rumorose. Quelle della famiglia paterna — le russe — quando mi vedevano mi baciavano sulle guance, e mi mettevano in imbarazzo co­stringendomi a ballare con loro a ogni matrimo­nio di famiglia...e di matrimonio sembrava esser­cene uno ogni fine settimana. Quelle del lato ma­terno — le lituane — erano più seriose e mi mette­vano a disagio perché erano sempre a disagio.

Ce n’erano alcune che tutti chiamavano «le ra­gazze »: le ragazze Smith, le ragazze Schwartz. Uno status — di questo mi resi conto quando ero più grandicello — che non aveva niente a che fare con la loro età, era dovuto alla loro condizione di donne nubili. «Ragazza», in pratica, era un modo diplomatico di dire «zitella». E a loro era associa­to un vago senso di afflizione, perché non essere sposate per noi ebrei, per lo meno nella comunità ebraica di allora, significava non avere un esercito di pargoli da nutrire, e una donna ebrea che non aveva bambini da nutrire era una donna che aveva smarrito la via.

Oggi le cose sono mutate. L’equivalente odier­no di quelle tristi «ragazze» ebree nubili sono donne in carriera di enorme successo: giornali­ste, conduttrici televisive, cantanti jazz. E proba­bilmente sono ebree non religiose, una distinzio­ne che difficilmente qualcuno avrebbe fatto cin­quant’anni fa, quando un ebreo era un ebreo e basta, né religioso né non religioso, soltanto un ebreo. Non si facevano tante domande, allora. Se qualcuno gli avesse chiesto cosa faceva di lui un ebreo, mio padre non avrebbe saputo cosa ri­spondergli. Semplicemente lo era. Mangiava ba­gel e faceva scomparire i conigli. Era questo a fa­re di lui un ebreo. Allora tutti portavano la loro identità religiosa con serenità. Gli estremisti era­no rari e gli atei tenevano le loro idee per sé. Era divertente far parte di una minoranza culturale ed etnica, non avere nessuno a cui rendere con­to, e non pensare di essere in guerra con persone con una cultura diversa dalla nostra, se non addi­rittura tra di noi. E se eravamo ebrei principal­mente in virtù di ciò che mangiavamo — erava­mo per così dire ebrei di pancia — tanto meglio. Il cibo rappresenta per una comunità una base e un collante più solido della fede. Sul cibo alme­no puoi farti due risate.

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