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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
02.12.2009 Obama manda 30 mila soldati in Afghanistan e chiede rinforzi alla Nato
Finalmente una buona decisione. Cronache e analisi di Maurizio Molinari, Kurt Volker, redazione del Foglio

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - La redazione del Foglio - Kurt Volker
Titolo: «Obama manda 30 mila marines - La scelta giusta - Il surge di Obama - Questa volta l'Europa deve fare la sua parte»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 02/12/2009, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " La decisione giusta ", in prima pagina, l'articolo dal titolo " Il surge di Obama ". Dalla STAMPA, a pag. 8, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Obama manda 30 mila marines  ", a pag. 9, l'articolo di Kurt Volker, ambasciatore Usa alla Nato dal titolo " Questa volta l'Europa deve fare la sua parte ". Ecco gli articoli:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Obama manda 30 mila marines "

Invio di 30 mila soldati americani di rinforzi in Afghanistan entro l’estate 2010, forte appello alla Nato per rafforzare il proprio contingente e impegno a iniziare nel luglio 2011 il trasferimento delle responsabilità della sicurezza a Kabul: sono questi i tre perni del discorso tv pronunciato dal presidente americano Barack H. Obama dall’accademia militare di West Point quando in Italia erano le 2 del mattino di oggi. Al termine di una revisione della strategia per l’Afghanistan durata 92 giorni, Obama conferma l’obiettivo fissato nel marzo 2009 di «sconfiggere e distruggere Al Qaeda» ed a tal fine ordina alle forze armate di «aumentare la pressione su Al Qaeda» e di «impedire ai taleban di tornare al potere» procedendo su tre binari. Primo: «Aumentare il numero delle truppe» aggiungendone 30 mila alle attuali 68 mila in tempi rapidi il più possibile per essere schierate entro la prima metà del 2010». Secondo: «Garantire la sicurezza dei centri abitati soprattutto nel Sud e nell’Est» proteggendo i civili e impedendo ai taleban di insidiarvisi. Terzo: «Accelerare l’addestramento delle truppe regolari afghani» al fine di consentire al goveno di Kabul di «iniziare ad assumere le responsabilità della sicurezza a partire dal luglio 2011». Quest’ultima data «non significa l’inizio del ritiro», spiegano alla Casa Bianca, bensì «il momento in cui comincerà un processo la cui durata non è prevedibile». Accogliendo gran parte delle richieste del generale Stanley McChrystal, comandante delle truppe in Afghanistan, e del suo superiore David Petraeus, Obama applica una ricetta che ricorda quanto fatto dal predecessore Bush nel 2007 in Iraq: invio dei rinforzi per accelerare il passaggio di consegne al governo locale, aprendo la strada al ritiro ma senza fissarne la scadenza. «Dobbiamo gestire la transizione con responsabilità, come fatto in Iraq» ha detto Obama.A differenza però del precedente di Baghdad in questo caso Obama conta anche su un significativo contributo degli alleati della Nato. «Si tratta di uno sforzo internazionale, ho chiesto agli alleati di dare il loro contributo, alcuni lo hanno fatto e credo altri lo faranno - sono le parole del presidente - dopo aver sanguinato ed essere morti assieme ora dobbiamo porre fine assieme alla guerra, con successo, non è solo un test di credibilità per la Nato perché in gioco c’è la sicurezza del mondo». Il discorso non suggerisce cifre per non pregiudicare l’esito della riunione Nato di venerdì ma l’attesa di Washington secondo indiscrezioni è per un contributo di 5-10 mila uomini di cui 1500 da Italia e Francia, 2000 dalla Germania e 1000 dalla Gran Bretagna. Obama telefona agli alleati: lo ha fatto con i leader di Berlino e Varsavia dopo aver parlato con il pakistano Zardari e l’afghano Karzai. Da Islamabad si attende più impegno contro Al Qaeda mentre Kabul assicura che «la ricostruzione civile sarà prioritaria» a cominciare dall’agricoltura. Poco dopo la fine del discorso i primi reparti di marines sono decollati per Kandahar. Da oggi la parola passa a McChrystal.

Il FOGLIO - "  La decisione giusta"

L’anno scorso, in piena campagna elettorale, Barack Obama riconobbe che il surge di George W. Bush in Iraq, ovvero la nuova strategia politico- militare condita da una maggiore presenza di soldati americani sul terreno, era stata “un successo al di là di ogni più rosea aspettativa”, in particolare per chi come lui, da senatore, aveva votato contro l’invio di nuove truppe a Baghdad. Ieri, sull’Afghanistan, ha scelto la stessa strada indicata da suo predecessore, dopo una lunga ed estenuante analisi dei pro e dei contro l’invio di altri 40 mila soldati tra americani e Nato. Ora una parte dei suoi sostenitori non crede ai propri occhi nel vedere il Nobel per la Pace incapace di ritirare un solo soldato dall’Iraq e pronto a triplicare la presenza americana in Afghanistan. Eppure, malgrado il tentennamento recente, il candidato Obama ha sempre detto che in Afghanistan sarebbero servite più truppe e che da comandante in capo le le avrebbe certamente inviate. “Abbiamo bisogno di più soldati, di più elicotteri, di migliore intelligence e di assistenza non militare per compiere la missione in Afghanistan”, ha scritto il 14 luglio del 2008 sul New York Times. Obama probabilmente non ama questa guerra, anche se l’ha più volte definita “necessaria”. Non ha una visione strategica di liberazione del medio oriente, come ce l’aveva Bush, e per questo fatica a comunicare l’urgenza e la necessità dell’impegno. Ha promesso che in tre anni sarà finita, ma le responsabilità del suo incarico lo hanno infine convinto a compiere la scelta giusta, anche con i sondaggi in calo e la base liberal in rivolta. Obama non è il Nobel per la Pace. E’ il presidente degli Stati Uniti.

Il FOGLIO - " Ecco il surge di Obama "

 
Dick Cheney

New York. Dick Cheney è incontentabile, specie ora che anche grandi editorialisti liberal, come il direttore di Newsweek Jon Meacham, si augurano che nel 2012 voglia candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti contro Barack Obama. L’ex vicepresidente nega, dice che non è interessato, ma quando i riflettori sono puntati sulle questioni dela sicurezza nazionale, l’unico possibile anti Obama è lui. Bush ha deciso di non interferire con il successore, così spetta al notoriamente riservato Cheney assumere il ruolo di oppositore della Casa Bianca, come ha segnalato la rivista Foreign Policy che lo ha inserito nella lista dei “pensatori globali” più influenti dell’anno. Nel giorno in cui il presidente ha deciso di inviare altri 30 mila soldati in Afghanistan, dopo averne già spediti 35 mila nei primi nove mesi di presidenza, Cheney ha stroncato ancora una volta Obama, accusandolo di mostrare “debolezza” agli occhi del nemico. Obama ha impiegato tre mesi e mezzo per decidere come rispondere alle richieste avanzate dal suo generale, Stan McChrystal, guadagnandosi l’appellativo di “temporeggiatore” coniato da Cheney. Ma dopo dieci seminari nella Situation Room è arrivato a una conclusione molto simile a quella sostenuta da Cheney ai tempi del cambio di strategia in Iraq. Cheney non si accontenta e il paradosso è che non gli vada bene nemmeno che Obama abbia ribaltato l’approccio multilaterale della guerra afghana impostato da Bush, scegliendo una via decisamente più unilaterale. Appena il piano Obama sarà completato, infatti, in Afghanistan ci saranno oltre 100 mila soldati americani, più circa 47 mila truppe Nato. Negli ultimi anni di Bush-Cheney, invece, gli americani non hanno mai superato quota 36 mila e il coinvolgimento degli alleati è sempre stato quasi paritario. Cheney lamenta però l’eccessiva enfasi posta dalla Casa Bianca sulla exit strategy e prevede che la popolazione afghana si schiererà con i talebani se Obama continuerà a parlare di impegno limitato nel tempo. Inoltre, ha detto Cheney in un’intervista a Politico, l’indecisione ha effetti negativi sul morale delle truppe americane: “Ogni volta che ritarda, rinvia, dibatte e cambia posizione, i soldati si domandano se il comandante in capo creda davvero nelle cose che chiede di fare”. L’ex vicepresidente sta scrivendo le sue memorie, in uscita nella primavera del 2011, ma non perde occasione per difendere l’eredità dell’Amministrazione Bush, criticare l’inesperienza di Obama e mettere in guardia sui pericoli che sta facendo correre all’America. A Washington comincia a circolare l’idea che Cheney possa candidarsi nel 2012. “Sarebbe un’ottima idea per i repubblicani e per il paese”, ha scritto Meacham su Newsweek facendo andare di traverso il cappuccino ai suoi lettori: “Cheney è uomo di forti convinzioni e ha un passato su cui è possibile giudicarlo. Una sfida con Obama offrirebbe l’occasione di un referendum tonificante su due visioni diverse e concorrenti”. Non tutti trovano geniale la proposta. “Non esiste”, ha detto Karl Rove, l’architetto dei successi di Bush. Un altro è Adam Serwer, del mensile di sinistra American Prospect, critico con le scelte aggressive e bellicose di Obama: “Sarebbe un referendum su politiche su cui, in realtà, Cheney e Obama sono d’accordo”.

La STAMPA - Kurt Volker : " Questa volta l'Europa deve fare la sua parte "

 
Kurt Volker

La decisione di Obama sull’invio di rinforzi in Afghanistan è arrivata tre mesi dopo che il comandante dell’Isaf Stanley McChrystal ha sottoposto il suo rapporto al ministro delle Difesa Gates.

Il mercanteggiamento che ne è seguito da allora, e adesso l’annuncio finale del Presidente, dicono molto sul conflitto, e sui cambiamenti nella politica americana da quando Obama è salito in carica. La prima, inevitabile, osservazione è che la politica di sostegno all’impegno americano in Afghanistan è diventata molto più difficile da sostenere. Mentre i governi degli alleati europei sono stati contrastati per anni da un’opinione pubblica contraria, per gli Stati Uniti era semplice, visto l’ampio consenso degli americani nei confronti di questo intervento, spesso visto come un contrappeso all’impopolare guerra in Iraq.
Ora le cose sono cambiate. Esponenti della maggioranza democratica al Congresso, che devono conquistarsi la rielezione nel 2010, si oppongono: la disoccupazione ha superato il 10 per cento, la ripresa è fiacca, il deficit pubblico sta esplodendo, la riforma della Sanità è da portare a termine, nell’opinione pubblica cresce l’opposizione alla guerra (e ai suoi costi), nelle elezioni in New Jersey e in Georgia i repubblicani hanno strappato i governatori ai democratici. Sono tutti elementi che pesano, e Obama certamente vuole mantenere il controllo del Congresso. Perciò chiedere a un membro del Congresso di appoggiare un forte aumento di truppe in Afghanistan è ora davvero difficile.
Ma nonostante tutto ciò, l'Afghanistan è ancora importante. Non ci sono vie di fuga. Per quanto impopolare la guerra possa divenire, la diretta connessione con gli attentati dell’11 settembre significa che nessun Presidente americano potrà mai permettersi di essere etichettato come «il Presidente che ha perso in Afghanistan». Le conseguenze all’estero e in patria sarebbero enormi. E questo, alla fine, è il motivo per cui Obama sta rinnovando, giustamente, l’impegno americano.
Le conseguenze internazionali di un fallimento in Afghanistan sarebbero deleterie. La sconfitta aprirebbe la porta a un disastro umanitario per il popolo afghano. Con gli estremisti in grado di usare il territorio afghano, aumenterebbe direttamente la minaccia sul Pakistan, proprio nel momento in cui le forze pachistane stanno facendo passi da gigante nella lotta agli insorti nel Nordovest del Paese. E darebbe una forte spinta agli islamisti violenti in tutte le parti del globo, mettendo in pericolo la sicurezza di ogni alleato della Nato, e dei Paesi dell’arco che va dal Marocco alle Filippine.
Un fallimento in Afghanistan metterebbe anche in moto il declino della Nato. Per quanto ingiusto possa suonare alle orecchie degli europei, un fallimento in Afghanistan sarebbe visto come un fallimento della Nato, e segnalerebbe al Congresso e alla pubblica opinione americana che gli alleati europei non sono pronti a fare quello che bisogna fare per vincere conflitti lontani dall’Europa. Ma se la Nato è relegata a una difesa territoriale degli alleati europei - piuttosto che essere un mezzo per unire tutti gli alleati della Nato nell’affrontare le sfide globali - gli americani perderebbero presto ogni interesse. Concluderebbero, a ragione, che gli europei sarebbero capaci di difendere l’Europa da soli, se solo investissero di più nella difesa. E ciò sarebbe una tranquilla e tragica fine di 60 anni di relazioni transatlantiche che hanno posto le basi alla sicurezza globale.
Resta il fatto che, nonostante il governo corrotto e inefficace dell’Afghanistan generi profonda frustrazione, non c’è un’alternativa credibile al far funzionare il meglio possibile le strutture e le istituzioni esistenti. È vero che le elezioni pasticciate di agosto hanno danneggiato la credibilità del presidente Karzai agli occhi della comunità internazionale e a quelli del suo stesso popolo. Ma è altrettanto vero che non c’è alcun altro leader in grado di avere maggior credibilità. Nella collaborazione con le istituzione esistenti, un ruolo decisivo ha l’addestramento delle forze di sicurezza afghane. Lo sforzo per formare poliziotti e soldati inciderà anche nel dispiegamento delle forze americane, perché lasciarsi dietro forze afghane più capaci è l’unica via per un eventuale ritiro.
In questo senso il contributo di alleati come l’Italia è importante. Gli Stati Uniti non hanno una polizia militare, così istruttori come i carabinieri italiani o della Gendarmerie francese riempiono un vuoto critico. Ma la dimensione psicologica è altrettanto importante di quella politica. Per gli americani è decisivo sapere che non stanno agendo da soli. È per questo che, pur conoscendo i limiti degli alleati europei, la strategia di Obama lascia spazio deliberatamente a un più ampio contributo dell’Europa.
Un contributo decisivo anche per il resto del mondo. Se lo sforzo in Afghanistan è visto come una «guerra americana» perderà l’appoggio dell’opinione pubblica in Afghanistan e nell’Asia meridionale, e poi fino al Medio Oriente e all’Europa. Ma se anche l’Europa rinnova il suo impegno, sottolineerà che lo scontro è davvero tra la «comunità internazionale» e gli estremisti violenti che cercano di imporre il loro brutale volere su una popolazione inerme, e vogliono destabilizzare l’intera regione.
La chiave è la fiducia. Gli afghani sanno che alla fine dovranno vivere con chi vince. Per avere il coraggio di opporsi ai taleban, di mandare le figlie a scuola, e di investire nell’economia invece di trarre facile profitto dai papaveri da oppio, il popolo afghano deve avere fiducia che noi finiremo il lavoro. Allo stesso modo i taleban debbono alla fine concludere che non vinceranno mai. Gli ultimi mesi hanno imposto il loro crudele pedaggio: la violenza è a livelli record e la nostra determinazione è stata posta in discussione. Ora vedremo un nuovo impegno dell’America, forse affiancato da un impegno dell’Europa. Sarà sufficiente per instillare un senso di fiducia - in Afghanistan e nelle nostre opinioni pubbliche - che stiamo finalmente facendo le cose nel giusto modo, e che alla fine vinceremo?

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