Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
L’Europa vuol dividere Gerusalemme in due per regalarla agli arabi Analisi di Fiamma Nirenstein, Giorgio Israel, redazione del Foglio
Testata:Il Giornale - Il Foglio Autore: Fiamma Nirenstein - Giorgio Israel - La redazione del Foglio Titolo: «L’Europa vuol dividere Gerusalemme in due per regalarla agli arabi - L’affondo dell’Ue su Gerusalemme -»
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 02/12/2009, a pag. 16, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " L’Europa vuol dividere Gerusalemme in due per regalarla agli arabi ". Dai FOGLIO, a pag. 2, l'articolo di Giorgio Israel dal titolo " Piccolo appello per evitare che difendere Israele diventi un’idea bizzarra " e il pezzo dal titolo " L’affondo dell’Ue su Gerusalemme ". Ecco gli articoli:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " L’Europa vuol dividere Gerusalemme in due per regalarla agli arabi "
Dato che la sua presidenza della Unione Europea durerà fino al primo di gennaio, la Svezia fa di tutto per portare a casa più in fretta possibile qualche risultato eclatante, spingendo l’Ue verso inusitate sponde di palestinismo. Carl Bildt ministro degli esteri svedese, lo stesso che si rifiutò di dissociarsi dall’articolo del quotidiano Aftonbladet per il quale i soldati israeliani uccidono i palestinesi per commerciare nei loro organi, adesso ha preparato un documento svelato ieri dal giornale israeliano Ha’aretz. Sarà presentato la prossima settimana all’incontro dei ministri degli esteri dei 27 paesi dell’Ue: l’Unione Europea vi si pronuncia perché Gerusalemme sia divisa in due, insieme capitale israeliana e capitale palestinese. Ecco come si risolve all’Europea una delle questioni più delicate del mondo: un documento, una spina per Israele, un piacere ai palestinesi, e niente di fatto. Pare che la Germania, l’Italia, e la Spagna non vogliano starci, e invece la Francia e l’Inghilterra sì. Il solito stile che ha portato l’Europa fuori di ogni rilevanza politica in Medio Oriente. Qui, è solo l’avventata conclusione di una trattativa ancora non iniziata e mille volte abortita. Come è noto, Netanyahu proprio due giorni or sono ha stabilito che le costruzioni negli insediamenti vengano fermate per dieci mesi per dare un segnale ai palestinesi della volontà di Israele di andare a un tavolo di pace. Di questa mossa nel documento dell’Ue si fa un cenno sprezzante, simile molto all’atteggiamento della nomenclatura araba, dicendo solo che si spera che la mossa porti a più significativi passi per la pace. Invece, senza che i palestinesi abbiano accettato di parlare di pace, ecco che l’Unione Europea promette Gerusalemme a un’Autorità spaccata fra Fatah e Hamas; chiede il ripristino dell’uso palestinese di siti che sono serviti, come l’Oriental House, per organizzazioni politiche che hanno giuocato anche un ruolo violento; dimenticano che la gestione giordano-palestinese della città non ha mai garantito, a differenza di quella ebraica, la libertà religiosa per tutti. Ignora che la scelta di dividere Gerusalemme, se non accompagnata da una quantità di cautele, di garanzie di sicurezza e religiose, dalla delicatissima gestione del Monte del Tempio e di tutta una serie di altri siti, porterebbe a grandi disastri, a una guerra permanente. In una parola, difficile immaginare una gestione liberale di una città policulturale come Gerusalemme da parte di uno Stato con la Sharia. Un passo avventato, dicono gli israeliani, impedirebbe per chissà quanto tempo la ripresa di seri colloqui di pace negoziata. Sostengono che la Svezia agisce solo per polemica. Non si può essere ingenui su problemi come questo: non si può dimenticare che Ehud Barak a Camp David aveva già diviso Gerusalemme con Arafat e che questo non solo non ha portato alla pace, ma ha al contrario portato al peggiore scontro fra israeliani e palestinesi, quello dell’ Intifada del terrorismo suicida. Arafat disse che gli era impossibile accettare qualsiasi divisione perché il mondo arabo non lo avrebbe accettato. «Sarebbe la mia fine», disse. La divisione di Gerusalemme creerebbe un’eccitazione micidiale nel mondo islamico estremista, che vi vedrebbe uno richiamo alla battaglia definitiva. Il documento svedese intende sottoporre all’approvazione dell’Ue la scelta di Salam Fayyad per la dichiarazione unilaterale di uno Stato Palestinese, quando è evidente, ed anche statuito dalla risoluzione 242 dell’Onu, che senza accordi definitivi sui confini, sulla sicurezza, sull’economia, sulla fine dell’incitamento e della convinzione mai sopita di potere alla fine cancellare lo Stato d’Israele, per il futuro stato non c’è futuro. Senza negoziati Israele non accetterà mai di dividere con i palestinesi Gerusalemme, che hanno da poco tradito la fiducia di una suddivisione territoriale unilaterale mettendosi a sparare da ogni centimetro di terra liberata a Gaza. Gerusalemme ha 750mila abitanti di cui due terzi ebrei: senza garanzie, non vogliono trovarsi sotto il fuoco nemico nella strada accanto. Di destra o di sinistra, inoltre,la capitale, riconosciuta o meno dal resto del mondo, è la loro stessa identità, la identificazione con la Bibbia, con la grande storia del re David, con la gloria del Primo e del Secondo Tempio,con la sopravvivenza nelle guerre dal 48 in avanti. Gli arabi avevano sempre riconosciuto questa primogenitura nonostante l’importanza per l’Islam della città e delle bellissime Moschee che sorgono sul Monte del Tempio e sono nella religione musulmana il luogo da cui Maometto volò in cielo. Fu Arafat che negò, con invenzione mediatica potente fino a oggi, le radici ebraiche di Gerusalemme. Ora, finché i palestinesi non ammetteranno che gli ebrei a Gerusalemme ci sono nati, è inutile che Bildt si dia tanto da fare: Israele non accetterà chi li nega. L’accordo avverrà solo a un tavolo delle trattative. Forse. E semmai nonostante gli aiuti europei.
Il FOGLIO - " L’affondo dell’Ue su Gerusalemme "
Carl Bildt, ministro degli esteri svedese
Il quotidiano israeliano Haaretz ha ottenuto la bozza di un documento della presidenza di turno dell’Unione europea, affidata alla Svezia. Il documento, che sarà discusso la settimana prossima a Bruxelles dai ministri degli Esteri dei paesi membri, implica il riconoscimento da parte dell’Ue di uno stato palestinese, anche se fosse dichiarato in modo unilaterale – quindi fuori dai negoziati e dal processo di pace. La bozza ha per obbiettivo “uno stato indipendente, democratico, che includa la Cisgiordania e Gaza”. Capitale: Gerusalemme est. Ieri Israele ha reagito con durezza, dicendo che la proposta va in senso contrario alle intenzioni dell’Ue: non smuove lo stallo nel processo di pace, e anzi ne allunga i tempi. Lo stesso ministro degli Esteri svedese, Carl Bildt, lo scorso 17 novembre ha detto dopo un tour dei territori che i palestinesi non sono ancora pronti, “non ci sono le condizioni” per uno stato indipendente. Ma tra Svezia e Israele c’è freddezza, dopo il finto scoop di un tabloid di Stoccolma contro i soldati di Tsahal, accusati di uccidere i palestinesi per prelevarne gli organi. Nei corridoi del ministero degli Esteri di Gerusalemme si parla esplicitamente di una linea “antisraeliana” della Svezia che finirà per rendere “irrilevante” l’Europa nel processo di pace. Ieri il primo ministro Benjamin Netanyahu ha chiesto al presidente dell’Anp, Abu Mazen, di riprendere i negoziati interrotti lo scorso dicembre. Il governo ha annunciato un congelamento di dieci mesi delle nuove case nei settlement. Ma Abu Mazen sembra quasi avere ormai abdicato, per stanchezza.
Il FOGLIO - Giorgio Israel : " Piccolo appello per evitare che difendere Israele diventi un’idea bizzarra"
Giorgio Israel
Sarebbe scioccamente narcisistico dire che ho avuto un sentimento di sollievo rileggendo l’articolo dal titolo “Come e perché è morta la questione palestinese” che ho firmato sul Foglio, assieme al direttore Giuliano Ferrara, il 22 maggio 2007. Tanto più è una tragedia perché l’articolo meriterebbe un aggiornamento su un solo punto: la prospettiva odierna non è più quella di “due popoli, due stati”, ma di tre stati. E quanto ai popoli, l’identità di uno dei due appare sempre più liquefatta o trasformata in quella di avamposto della rivoluzione permanente dell’islamismo iraniano. Più di due anni fa esponevamo la ragione primaria per cui la questione palestinese era morta: l’assenza di tutte le caratteristiche che contrassegnano il processo di formazione di uno stato nazionale e, tra di esse, la più importante, ovvero la manifestazione della volontà di costruire. Gli ebrei giunti in Palestina in una serie di “aliyah” iniziate nel 1881 non attesero di ottenere uno stato per costruire qualcosa, né anteposero a questa costruzione una questione militare. Cosa vieterebbe ai palestinesi di Gaza di costruire un primo nucleo di stato nazionale, per giunta con il sostegno degli imponenti aiuti finanziari internazionali? Ma siamo ben lungi da ciò, oggi ancor più di ieri. Gaza è una portaerei islamica, imbottita di missili e armi di ogni tipo, che vive nell’attesa di un confronto vincente con Israele e che sostiene la sua economia sugli aiuti internazionali concessi, a loro volta, nella speranza di esorcizzare quel confronto. Il potere di Abu Abbas e del Fatah sul West Bank è ormai tenuto in piedi come simulacro di un’alternativa alla trasformazione dell’intera area “palestinese” in una base iraniana. Non esiste alcuna volontà costruttiva, ma un solo obbiettivo: l’eliminazione di Israele. E che questo sia l’unico obiettivo è testimoniato dal pervicace rifiuto di considerarne sia pur ipoteticamente il riconoscimento. Così, se si può parlare di questione e di stato palestinese è soltanto nel senso di uno stato islamico che dovrebbe prendere il posto di Israele al termine di un confronto vittorioso. Un altro tema che veniva sollevato nell’articolo di due anni fa era quello del negazionismo: non soltanto quello della Shoah, ma quello della presenza storica degli ebrei in Palestina. Ebbene, anche questo tema lo ritroviamo oggi. L’idea di questa forma di negazionismo era stata lanciata Arafat durante il vertice di Camp David del 2002: affermò che un tempio ebraico a Gerusalemme non era mai esistito. Oggi questa tematica dilaga. Anche la televisione di Fatah ha sostenuto con dovizia di argomenti “scientifici” che tutta la storia della presenza ebraica in Terrasanta è inventata di sana pianta. Inutile dire che questa propaganda recluta alfieri anche in occidente. Spuntano fuori archeologi improvvisati che spiegano che il Muro del Pianto non ha mai fatto parte del Tempio il quale, casomai, era in altro luogo. Secondo costoro, cadendo così le pretese ebraiche sul Monte del Tempio, la questione di Gerusalemme sarebbe facilmente risolubile, ovviamente a favore dei musulmani. Questa esplosione di negazionismo rende evidente che la posta in gioco è tutto salvo che la volontà di costruire una nazione palestinese che conviva con Israele. Lo ha messo in luce la vicenda di un musulmano che ha avuto il coraggio di scrivere in un saggio la verità: il professor Sari Nusseibeh. Egli ha riconosciuto che il Monte del Tempio è il luogo che testimonia il legame profondo, storico e documentato, degli ebrei con Gerusalemme. Anzi, se quel luogo è divenuto sacro anche ai musulmani è perché Maometto venne a visitarlo con la coscienza del suo carattere sacro per l’ebraismo e il cristianesimo in quanto “religioni di Abramo”. Il coraggioso riconoscimento di Nusseibeh mirava a spazzare via la deleteria tendenza al rifiuto dell’“archeologia nemica”. Se questo punto di vista fosse stato accolto ci si sarebbe trovati di fronte a un passaggio decisivo. Perché, se Gerusalemme rappresenta il massimo punto di contesa, non è forse la mossa più intelligente partire proprio di lì, riconoscere reciprocamente il diritto a gestire pacificamente ciò che è più sacro per entrambi? Di fronte alla negazione totale non c’è dubbio che Israele sia stanco, ed è più che comprensibile. Anche i “falchi” come l’ex-ministro della difesa Mofaz parlano di trattare col diavolo, ovvero con Hamas. Israele, poi, per amore della vita, cerca di ottenere Gilad Shalit liberando un numero spropositato di prigionieri palestinesi, in uno scambio che D’Alema definirebbe “sproporzionato”. E Netanyahu ha accettato di bloccare qualsiasi costruzione nella West Bank per dieci mesi. Ma è doloroso dire che tutto questo non servirà a molto. L’abbandono di Israele al suo destino è il tema su cui l’islam radicale capitanato dall’Iran vuole misurare la debolezza dell’occidente. E per ottenere questo risultato, da un lato lascia intendere che questo abbandono è la chiave per risolvere ogni problema e, dall’altro, ne offre la giustificazione diffondendo la tematica negazionista, non tanto quella sulla Shoah quanto quella assai più efficace che delegittima l’intera storia ebraica. Lo spegnersi della voce di Nusseibeh, come due anni fa quella di Siniora, è la testimonianza che ben altro è in gioco che la “questione palestinese”. E’ in campo l’idea tentatrice che senza Israele il mondo sarebbe più vivibile. Se ci si soffermerà a contemplare incerti questo volto di Medusa si giungerà a un momento in cui sarà troppo tardi per tutti.
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