Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Più soldati in Afghanistan. Obama si prepara a mandarne 30 000 Analisi di Franco Venturini e redazione del Foglio
Testata:Corriere della Sera - Il Foglio Autore: Franco Venturini - La redazione del Foglio Titolo: «Rinforzi a Kabul per perdere di meno - Il consiglio di guerra»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 25/11/2009, a pag. 1-14, l'articolo di Franco Venturini dal titolo " Rinforzi a Kabul per perdere di meno ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Il consiglio di guerra". Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " Rinforzi a Kabul per perdere di meno "
P uò sembrare paradossale mandare oggi altri militari in Afghanistan per meglio ritirare domani i militari dall’Afghanistan. Eppure è esattamente questa, al di là dei proclami di circostanza, la strategia che Obama si accinge a varare annunciando nei prossimi giorni l’invio di rinforzi a Kabul. Ed è questa l’equazione ad alto rischio cui dovranno rispondere gli alleati atlantici, a cominciare dalla nostra distratta Italia che dopo aver versato giuste lacrime sui suoi caduti ha l’abitudine di dimenticare in fretta la guerra che li ha uccisi. Quello disegnato dalla Casa Bianca e proposto a tutta la Nato (oggi sarà a Roma il Segretario generale Rasmussen) vuole essere un estremo tentativo di, come ha promesso ieri Obama: stabilizzare l’Afghanistan, battere i talebani, smantellare Al Qaeda, ricostruire e democratizzare. In una parola, vincere. Ma in alternativa, se la vittoria dovesse rivelarsi irraggiungibile, i rinforzi serviranno a creare le condizioni minime per disimpegnarsi (in un orizzonte di 4-5 anni, o forse meno) lasciando al governo afghano una capacità almeno apparente di «fare da sé».
Lo schema dell’afghanizzazione a Kabul non può che indurre allo scetticismo, e non soltanto per il pessimo precedente della vietnamizzazione a Saigon. A rendere fragile il progetto contribuiscono fattori che non saranno gran che modificati dal dibattito che ferve negli Usa: occorre dare la priorità alla lotta contro Al Qaeda o colpire duro anche i talebani? I meno cattivi tra questi vanno recuperati alla politica? Bisogna tenere militarmente le città oppure occupare aree più vaste senza perderne il controllo la notte?
Vanno trovate alternative alla coltura dell’oppio, e i soldati devono anche ricostruire e aiutare la popolazione?
Questioni antiche, tutte necessarie e non alternative se si vuole puntare al successo.
Ma il vento afghano non soffia in queste direzioni. Sul terreno i talebani semmai progrediscono, in un mix ormai inestricabile di ex studenti coranici, militanti di Al Qaeda e narcotrafficanti organizzati.
La catastrofica operazione elettorale, poi, ha lasciato al potere un Karzai ancor più debole e delegittimato di prima, sottraendo alla strategia alleata, che si tratti del recupero di una parte dei talebani o dell’afghanizzazione della guerra, un punto di riferimento indispensabile. E contemporaneamente, diventano sempre più caldi i «fronti interni» dei Paesi che in Afghanistan sono impegnati e che subiscono perdite massicce: in Gran Bretagna, in Canada e anche negli Stati Uniti, pur rimanendo «giusto» grazie alle motivazioni originali che l’hanno sempre distinto da quello in Iraq, il conflitto afghano non viene più sostenuto dalle opinioni pubbliche.
A cosa serve, allora, accogliere come noi riteniamo opportuno le richieste di cui è latore Rasmussen e rafforzare la nostra presenza in Afghanistan?
A cosa serve, se la situazione è quella che abbiamo descritto, riaprire i contrasti che sul tema dividono tanto la maggioranza di governo (Bossi auspica il disimpegno) quanto lo schieramento di opposizione (Di Pietro fa lo stesso)? Serve a molto. Non soltanto e non tanto sul piano strettamente militare (Obama manderà forse 30 mila uomini, gli europei tutti insieme dovrebbero arrivare da 3 mila a 7 mila), ma anche e soprattutto su quello politico del legame con l’America di Obama e con il suo ultimo sforzo. Anche a noi italiani interessa tentare di vincere, perché i motivi del conflitto e la pericolosità di un mancato successo restano intatti. E anche a noi interessa poterci ritirare, in caso di fallimento del tentativo, assieme agli alleati, nell’ambito di una decisione condivisa che non ci emargini né dalla Nato né dai buoni rapporti transatlantici.
Cosa farà concretamente l’Italia, mentre altri Paesi europei si apprestano a dare quel segnale di concreto appoggio che Obama deve potersi rivendere all’interno degli Usa? È presto per dirlo. Forse resteranno i soldati inviati per il periodo elettorale, e ne verranno ritirati altri dal Libano. Forse punteremo sulle attività di addestramento, sperando che servano. Certo non è più l’ora di dire, come avveniva fino a poco tempo addietro, che siamo al massimo e di più non possiamo fare. Quel che non possiamo è agire da soli o meno degli altri.
E se qualcuno lo spiegasse agli italiani, forse anche l’opinione pubblica potrebbe capire meglio perché siamo laggiù.
Il FOGLIO - " Il consiglio di guerra "
Al consiglio di guerra numero nove sull’Afghanistan, il presidente e Nobel per la Pace Obama ha deciso: getto nella mischia contro i talebani 34 mila soldati americani in più. Così almeno dice l’indiscrezione trapelata ieri – che si va a impilare sulle altre soffiate ai giornali che stanno facendo infuriare l’Amministrazione – ma l’annuncio vero dovrebbe esserci il primo dicembre. Il generale Stanley McChrystal per l’occasione si prepara all’ennesimo volo da Kabul a Washington, per spiegare al Congresso democratico che cosa farà con i rinforzi che sta per ricevere. Anzi, per spiegare al Congresso perché il presidente democratico del “change” per risolvere il quagmire afghano ha appena preso una decisione identica a quella del cattivone Bush per districarsi dal groviglio iracheno: più soldati in campo, per ripulire il territorio, tenerlo contro i tentativi di ritorno dei talebani e mettere in piedi uno stato funzionante. La notizia è una vittoria per McChrystal, che da questa estate chiede più truppe, con urgenza altrimenti “entro un anno potremmo non essere più in grado di vincere”, un eufemismo niente male. Ma è una minuscola vittoria sulla linea di partenza. Il generale ha appena passato il turno di qualificazione: ora comincia la gara, e non potrà più ripararsi dietro la richiesta di altre truppe perché le sue richieste sono state esaudite quasi per intero – tanto nessun generale ha mai abbastanza soldati. La notizia è anche una sconfessione del vicepresidente Joe Biden, che predica la strategia opposta: lasciamo pochi commando e qualche drone a fulminare i capi più importanti di al Qaida, meglio se con i missili per non sporcarsi le mani, e per il resto deleghiamo tutto agli afghani. Ma è soprattutto la prima assunzione di responsabilità di Obama: aveva tutte le opzioni davanti, ha deciso – se è vero – per l’escalation militare. A chi ribatterà che il governo centrale di Kabul è troppo corrotto e troppo poco efficiente per funzionare da alleato durante il nuovo “surge”, il presidente ora potrà rispondere che proprio questa è una ragione per mandare più soldati americani, non meno. E a chi dirà che la presenza americana in Afghanistan eccita i suoi nemici mortali, al Qaida e i talebani, ricorderà che tutto è cominciato proprio perché nove anni fa Washington non presidiava il centro dell’Asia.
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