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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
19.11.2009 Afghanistan e Cina, due insuccessi di Obama
Cronaca di Maurizio Molinari, analisi del Foglio

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - La redazione del Foglio
Titolo: «Ritiro da Kabul prima che lasci la Casa Bianca - ObaMao»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 19/11/2009, a pag. 14, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Ritiro da Kabul prima che lasci la Casa Bianca ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " ObaMao ". Ecco gli articoli:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Ritiro da Kabul prima che lasci la Casa Bianca "

 
Afghanistan

Desiderio di non lasciare l’Afghanistan in eredità al successore, monito a Israele contro gli insediamenti, timore di una ricaduta della recessione, determinazione a punire severamente le fughe di notizie dalla Casa Bianca e ammissione che Guantanamo non sarà chiuso entro la scadenza di metà gennaio: Barack Obama rilascia da Pechino una raffica di interviste tv tese a mostrare grinta politica, per rispondere ai sondaggi che continuano ad essere in discesa.
Con la popolarità per la prima volta sotto il 50%, secondo Quinnipac, e i media che lo accusano di tentennare sull’Afghanistan e gli imputano i ritardi nella ripresa economica, il presidente degli Stati Uniti va al contrattacco rubando alcune ore al viaggio asiatico per accogliere nella propria suite di Pechino tutte le maggiori tv, inclusa la Fox di Rupert Murdoch che negli ultimi mesi era stata messa all’indice. L’intenzione è di far arrivare nelle case degli americani l’immagine di un leader tutt’altro che incerto.
Da qui la scelta di puntare anzitutto sull’Afghanistan, visto che da settimane si attende la scelta sui rinforzi. «Sono prossimo alla decisione, eviteremo un’occupazione senza fine che non servirebbe ai nostri interessi - dice il presidente - la mia preferenza è di non lasciare l’Afghanistan in eredità al mio successore». Sebbene non si spinga fino ad annunciare il ritiro della maggioranza delle truppe entro il 2012, l’espressione che adopera lascia intendere che sia alla vigilia di una svolta. Ciò che Obama non tollera è che questo periodo di «riflessioni» sia stato costellato da fughe di notizie dalla Casa Bianca: ammette di essere furibondo, di voler «appurare le responsabilità» e promette il «licenziamento» di chi ha violato il top secret della «war room».
Anche sul futuro del carcere di Guantanamo cerca di mostrarsi decisionista, ma ammettendo che con ogni probabilità la scadenza prevista per la chiusura, il 22 gennaio prossimo, è destinata a slittare. «Entro l’anno prossimo credo che sarà chiuso», ha detto il presidente alla Fox, aggiungendo di non voler «indicare una data precisa perché molto dipenderà dal Congresso». Parlando alla Nbc è stato più esplicito: «Avevamo una scadenza, ma non sarà rispettata».
Sul fronte della politica estera i toni aspri sono nei confronti dell’alleato israeliano per via della costruzione di 900 nuove case di Gilò, a Gerusalemme Est: «La situazione in Medio Oriente è difficile, l’aggiunta di edifici negli insediamenti non aiuta la sicurezza di Israele, inasprisce i palestinesi in modo da creare grandi pericoli». Una comunicato della Casa Bianca si spinge fino a esprimere «sgomento» per le costruzioni di Gilò, considerato da Israele un quartiere della propria indivisibile capitale nazionale. È la prima volta che lo scontro fra Obama e Nethanyau raggiunge tali livelli verbali, tradendo il nervosismo della Casa Bianca per lo stallo di un processo di pace con i palestinesi che tarda a riprendere.
Il presidente parla anche di economia per rispondere al malessere del ceto medio che vede crescere la disoccupazione a dispetto dell’aumento degli indici di Wall Street. «L’eccesso di spesa può minare una fragile ripresa causando una ricaduta della recessione» ammette, svelando di pensare a «misure fiscali» per «spingere le imprese ad assumere».
«Far riprendere l’occupazione è il mio primo impegno - aggiunge - per questo sono venuto in Asia al fine di favorire l’aumento del nostro export, che crescendo appena dell’1 per cento potrebbe creare 250 mila posti di lavoro». Anche per questo nei colloqui in programma oggi a Seul discuterà con il presidente Lee Myung-bak i tempi dell’approvazione del trattato bilaterale di libero commercio impostato dal predecessore Bush nel 2005. L’altro argomento in cima all’agenda è la Corea del Nord, nel comune intento di bloccare il suo programma nucleare.
Prima di arrivare a Seul nella tarda serata di ieri, Obama si è recato in visita alla Grande Muraglia cinese, ammettendo di averla trovata «meravigliosa». In precedenza aveva incontrato, al riparo dei riflettori, il fratellastro Mark Ndesandjo, sposato ad una cinese, residente vicino a Hong Kong e autore di un libro utobiografico nel quale racconta violenze ed abusi subiti dal padre, che era lo stesso di Obama. «Non è un mistero che mio padre era un alcolista» ha commentato Barack.
In quattro giorni della sua visita in Cina Barack Obama ha trovato 5 minuti per incontrare il fratellastro che vive nel sud del paese. Mark Okoth Obama Ndesandjo ha scritto un romanzo semiautobiografico in cui rivela che il padre (Barack Obama Sr.) lo picchiava e picchiava la madre. «Non è un segreto che mio padre non era un santo - ha detto Obama alla Cnn -. Era un alcolizzato e non trattava bene le famiglie. È una parte triste del mio passato, ma non qualcosa su cui passo molto tempo a riflettere». Il presidente ha aggiunto di «non conoscere» bene il fratellastro, e di non aver mai visto prima la sua cognata cinese.

Il FOGLIO - " ObaMao "

Il confronto sui temi economici fra il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e quello della Cina, Hu Jintao, è stato un dialogo fra sordi. Obama ha chiesto a Jintao la rivalutazione dello yuan che, continuando a rimanere sostanzialmente agganciato al dollaro, risulta sottovalutato rispetto ad esso e alle valute con cambi liberi. Il presidente cinese ha risposto chiedendo che gli Stati Uniti pongano fine alle politiche protezioniste che colpiscono le merci cinesi. Ma è pur vero che il cambio attuale dello yuan dà luogo a una sorta di dumping generalizzato a favore delle esportazioni cinesi. E la reazione, mediante dazi protettivi, per quanto deprecabile, trova una giustificazione economica. Da notare che Obama non ha chiesto a Pechino una liberalizzazione della sua moneta. Questa sarebbe la soluzione corretta ma comporterebbe, per la nomenklatura che detiene il potere, un enorme rischio politico. Implicherebbe infatti libertà valutaria e di movimento dei capitali per una nuova classe di capitalisti. Il presidente democratico si è limitato a chiedere una rettifica del cambio, nell’ambito delle attuali regolamentazioni. Ma la sua capacità di pressione su Pechino è troppo limitata a causa della perdita di prestigio internazionale del dollaro e della necessità di Washington che i cinesi sottoscrivano quote sostanziali delle ingenti emissioni di debito statunitense. Gli effetti dell’insuccesso di Obama non sono destinati a rimanere circoscritti al cosiddetto G2, ma avranno ripercussioni sull’intera rete dei rapporti economici internazionali. Per esempio il won coreano è agganciato allo yuan e ciò genera un vantaggio per le auto coreane nel mercato americano, senza che Seul rinunci a lamentarsi della concorrenza della carne degli allevatori americani. Obama avrebbe dalla sua argomenti più forti se, anziché una linea protezionistica, seguisse una politica di liberalizzazioni. Il disordine monetario e i vincoli al commercio estero sono ora molto minori di quelli che emersero dopo la crisi del ’29. Ma la sconfitta di Obama a Pechino è comunque un danno per la libertà del mercato internazionale.

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