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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale-La Stampa Rassegna Stampa
15.11.2009 Si scrive Obama, si pronuncia Obamao
Gli articoli di Fiamma Nirenstein, Maurizio Molinari

Testata:Il Giornale-La Stampa
Autore: Fiamma Nirenstein-Maurizio Molinari
Titolo: «Barack liquida la guerra globale al terrorismo-L'uomo del Pacifico»

Barack Obama, in Giappone e in Cina, un altro viaggio con l'obiettivo di liquidare la politica di Bush. Fiamma Nirenstein ne analizza il percorso sul GIORNALE di oggi, 15/11/2009 a pag.13. Maurizio Molinari,  a pag. 13 sulla STAMPA, inviato al seguito del presidente americano, traccia un ritratto di ObamaO, ultima versione.

Il Giornale- Fiamma Nirenstein: " Barack liquida la guerra globale al terrorismo "

Fiamma Nirenstein

Più di tutte le critiche di carattere giuridico alla decisione di processare a New York i terroristi islamici responsabili dell’attacco alle Twin Towers, un’autentica sirena d’allarme suona, per chi ricorda le immagini dell’eroismo coperto di cenere e sangue dei vigili del fuoco, nella presa di posizione di Steve Cassidy presidente dell’associazione dei pompieri di New York: «È un terribile errore», dice e spiega che New York è sempre stata il numero uno degli obiettivi dei terroristi, e adesso sarà segnata da un ulteriore marchio. Cassidy dice che la discussione sarà infinita, con corsi, ricorsi, deduzioni e controdeduzioni, che per anni risulterà in misure di sicurezza insopportabili per i newyorkesi, e che susciterà altri terribili attacchi dopo quello che fece 2973 morti.
Di fatto la decisione garantista e all’apparenza legislativamente neutrale sostituirà il leit motiv newyorkese del pianto delle famiglie delle vittime con la discussione sulla legalità dei trattamenti a Guantanamo. E contiene un messaggio tipico dell’amministrazione Obama. È la desublimazione dell’eccellenza americana, il declino di un compito morale, per altro messo in discussione da Obama stesso ormai almeno una decina di volte quando ha accusato gli Usa di aver usurpato beni altrui e maltrattato popolazioni di culture diverse, di essere stati arroganti con l’Islam: l’idea di un processo civile contro gli autori di una strage di civili (che però in una guerra asimmetrica è a tutti gli effetti militare anche secondo gli assassini) è formalmente corretto, ma è una rinuncia a una delle più importanti primogeniture americane, quello della guerra mondiale al terrorismo. La scelta di rinunciare a un ruolo speciale degli Usa trasformando la guerra al terrorismo in un processo civile come succederà a New York, o politico come succede con l’Iran, ma anche con gli Hezbollah, o Hamas, o la Siria è un errore continuo della presidenza Obama.
Di fronte all’attentato di Fort Hood Obama ha ripetuto di trovare la vicenda «incomprensibile» come se non sapesse che c’è un grande estremismo islamico antiamericano, omicida. Obama ha abbandonato l’idea di avere talora, come americano, indiscutibili ragioni, e di dover perseguire scopi inconciliabili con chi aggredisce il suo mondo. Questo crea pasticci indistricabili. Gli esempi sono abbondanti: l’irrobustirsi a causa della incertezza americana dell’Iran e della Siria (che dopo aver armato fino ai denti Hezbollah e Hamas viene accreditata come interlocutore di pace) hanno portato all’indebolimento dei paesi arabi moderati tradizionali alleati degli Usa come Egitto e Arabia Saudita. Gli hezbollah sono rientrati nel governo libanese, e lungi dal festeggiare l’evento con toni moderati, si dedicano a minacce quotidiane ferocissime contro Israele e viaggiano dall’Iran ai loro alleati promettendo uno scenario di guerra, e non di pace come vorrebbe Obama. Sulla scena del conflitto israelo-palestinese, il disastro è grande: dopo aver convinto Netanyahu a dichiarare la propria disponibilità alla soluzione di due Stati per due popoli, Obama non ha ottenuto niente dal mondo arabo, e le prossime elezioni imposte ai palestinesi hanno messo nei guai Abu Mazen, che minacciato da Hamas invece di avvicinarsi al tavolo delle trattative prende posizioni sempre più dure mentre minaccia il ritiro. La Turchia, intanto, che non sente più la pressione morale degli Usa si abbandona nelle braccia dell’Iran; l’Afghanistan registra ogni giorno incertezze e insuccessi; l’Irak sente che gli Usa rapidamente svaniscono all’orizzonte. Per non parlare del rapporto con la Russia, che avendola avuta vinta sullo scudo polacco e ceco, si vede padrona di uno spazio strategico che include l’Ucraina e la Georgia. L’odierna difficoltà strategica americana sembra avere a che fare con la scarsa fiducia di Obama nella specialità, nell’eccellenza americana contro ciò che è violento e ingiusto. La rinuncia a difendere il Tibet incontrando il Dalai Lama, la messa in un canto del tema dei diritti umani e della libertà come se gli Usa non avessero voce in capitolo, sta alla base dei problemi di Obama. L’America non esiste senza l’orgoglio della sua eccellenza liberatrice.
www.fiammanirenstein.it

La Stampa- Maurizio Molinari: " L'uomo del Pacifico "

Maurizio Molinari

Con l’invito a «non aver paura della crescita della Cina» Barack Hussein Obama ha posizionato un nuovo tassello nel mosaico della visione del mondo di cui è portatore. Con 8 viaggi in un totale di 20 nazioni Obama è il presidente americano che si è recato all’estero più spesso nei primi 11 mesi di governo, e sono i discorsi che ha fatto durante questa maratona a descrivere cosa ha in mente. Da Praga ha disegnato l’orizzonte di un mondo senza atomiche, indicando nella proliferazione delle armi di distruzione di massa il maggiore pericolo per la sicurezza collettiva. Da Ankara e dal Cairo ha teso la mano all’Islam suggerendo un «nuovo inizio» nei rapporti con l’Occidente. Da Accra ha chiesto all’Africa di assumersi le proprie responsabilità nell’affrontare le sfide del XXI secolo, dalla difesa del clima allo sviluppo ai diritti umani fino alle energie rinnovabili.

Da Mosca e da Tokyo ha parlato di Russia e Cina adoperando espressioni simili ovvero definendole «partner globali» le cui «forza e prosperità» sono nell’«interesse degli Stati Uniti d’America».
Ciò che accomuna questi discorsi è la convinzione che la comunità internazionale sia una sola e condivida quattro comuni, grandi interessi: far ripartire e sostenere la crescita economica, scongiurare conflitti o attentati atomici, salvare il clima e sviluppare nuove fonti di energia per emanciparsi dalla dipendenza dai carburanti fossili.
L’intento del presidente, frutto delle riflessioni maturate nello Studio Ovale con il guru politico David Axelrod e poi messe per iscritto dal 27enne speechwriter stakanovista Ben Rhodes, è di accompagnare grandi e piccole potenze a convergere su questa piattaforma comune. Ma per riuscirci deve riuscire a sanare le ferite ereditate dal XX secolo: nasce così l’apertura all’Islam, la mano tesa nei confronti degli avversari degli Stati Uniti e la scommessa di disinnescare la genesi dei maggiori conflitti affermando - come ha fatto a Tokyo - che «non dobbiamo avere paura del successo degli altri» perché i nuovi equilibri globali fanno sì che «se una potenza cresce ciò non avviene a scapito di altri». Ovvero, il mondo ha maggiori risorse e c’è spazio per la prosperità di tutti. Andando a spulciare nei testi dei sei maggiori discorsi che finora Obama ha pronunciato in Europa, Africa e Asia ci si accorge che sono accomunati dal ricorrere dei concetti di «reciproco rispetto» e «interessi comuni» ovvero dalla convinzione che il nuovo ordine internazionale per nascere deve riuscire ad abbattere i pregiudizi nei confronti degli avversari, facendo prevalere la necessità di lavorare assieme. E’ su questo terreno che Barack Obama tenta di affermare un’idea della leadership americana che si declina nella volontà di «creare alleanze per trovare assieme le soluzioni migliori ai problemi comuni», come disse in aprile a Strasburgo incontrando studenti tedeschi e francesi.
Si tratta di una scommessa che espone il presidente a numerosi rischi perché il tallone d’Achille di questo approccio sta nel fatto che per avere successo deve trovare il consenso delle nazioni a cui si rivolge. A cominciare dalla Cina di Hu Jintao, la potenza che cresce più velocemente. Per questo Obama domani a Shanghai si immergerà in un incontro a tutto campo con gli studenti cinesi per tentare di fargli condividere il mondo che ha in mente.

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