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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero - Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
11.11.2009 Il freddo incontro Usa - Israele e un Medio Oriente senza partner
Analisi di Angelo Pezzana, Antonio Ferrari, Michael Oren

Testata:Libero - Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Angelo Pezzana - Antonio Ferrari - Amy Rosenthal
Titolo: «Il freddo fra Casa Bianca e Israele fa male a tutto l'Occidente - Il freddo incontro Usa - Israele e un Medio Oriente senza partner - Il medio oriente visto da Oren, il diplomatico che mette la pace tra Netanyahu e Obama»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 11/11/2009, a pag.25, l'analisi di Angelo Pezzana dal titolo " Il freddo fra Casa Bianca e Israele fa male a tutto l'Occidente  ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 12, l'opinione di Antonio Ferrari dal titolo " Il freddo incontro Usa - Israele e un Medio Oriente senza partner  " preceduto dal nostro commento. Dal FOGLIO, a pag. IV, l'articolo di Amy Rosenthal dal titolo " Il medio oriente visto da Oren, il diplomatico che mette la pace tra Netanyahu e Obama ". Ecco gli articoli:

LIBERO - Angelo Pezzana : " Il freddo fra Casa Bianca e Israele fa male a tutto l'Occidente "

Che a un colloquio di un’ora e quaranta minuti fra un Presidente americano e un Primo Ministro israeliano non sia seguito un incontro con la stampa e relative fotografie per immortalare la solita calorosa stretta di mano, è certamente un fatto inusuale. L’incontro era previsto, gli argomenti erano annunciati, il processo di pace in Medio Oriente, il problema della sicurezza per Israele, la questione iraniana, ma il fatto che non sia stato emesso nemmeno un comunicato lascia aperte tutte le congetture, viste da destra e da sinistra. Per i tifosi di quest’ultima, Obama deve sicuramente avere fatto sudare Bibi, questo verbo è piaciuto molto ai giornali di sinistra, essendo la vulgata pacifista quella di attribuire a Israele tutte le responsabilità, anche quelle gestite direttamente dai palestinesi. Se Abu Mazen fa sapere che non si candiderà alle prossime elezioni di gennaio, anzi, potrebbe persino non indirle, invece di farlo uscire dalla perenne ambiguità e chiedergli se non è per caso con Hamas che non se la sente di confrontarsi, no, nessuna domanda, semmai gli si rivolgono preghiere perchè non ci privi della sua preziosa e lungimirante azione politica, tutta tesa, naturalmente, a favorire il processo di pace. Un processo messo in pericolo, invece, da Bibi, il quale continua a comportarsi come se fosse il primo ministro di uno Stato indipendente, rifiutandosi di ubbidire ai diktat arabi o afroamericani. Vista da destra, la situazione è molto diversa. Intanto Hillary Clinton, che è il Segretario di Stato, e quindi parla e agisce in nome del suo presidente, nel tour mediorientale della scorsa settimana, ha dato non pochi dispiaceri a chi si aspettava l’ennesima richiesta a Israele di congelare le nuove costruzioni, rimproverando piuttosto l’Anp di essere inadempiente verso gli impegni imposti dalla Raod Map. Sempre visto da destra, Obama, assente al ventennale della caduta del Muro di Berlino, è in un momento difficile a causa della politica interna, la legge sulla riforma sanitaria rischia di scontentare favorevoli e oppositori, due elezioni parziali lo hanno visto perdente, ma ciò che fa ritenere che sia stato proprio lui a sudare nell’incontro con Bibi è la strage di Fort Hood, che ha rivelato un grosso buco nei sistemi di sicurezza americani, essendo ormai acclarato il legame tra il killer dei tredici soldati e la rete americana di Al Qaeda. Troppo impegnato a studiare come chiudere al più presto il carcere di Guantanamo, il buon Obama non si è accorto, e con lui i servizi segreti, che sembra sapessero tutto sul futuro killer, dimenticandosi però di avvisare l’esercito, che il problema del Califfato non l’abbiamo soltanto noi in Europa o in Medio Oriente. Per cui è difficile, anche in mancaza di un resoconto ufficiale del colloquio da parte della Casa Bianca, immaginare Obama che dà consigli a Bibi per quanto riguarda Israele in lotta costante contro il terrorismo. Gli avrà chiesto di abbattere la barriera di sicurezza, come vogliono i palestinesi, sostenuti dalla speranza che tra poco potrà esserci a Bruxelles un vero Ministro degli Esteri che saprà dare gli ordini giusti, oppure avrà preferito restare sul vago, il che spiegherebbe il blackout sull’incontro. Chi ne esce bene, comunque, è Israele, non più isolato nella denuncia del pericolo rappresentato dall’Iran. L’idea che i suoi interlocutori, senza eccezione alcuna, destino preoccupazioni serie, è oggi un’opinione condivisa, almeno fra gli Stati democratici. Se ne sta convincendo persino Barack Hussein Obama.

CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Il freddo incontro Usa - Israele e un Medio Oriente senza partner "

Antonio Ferrari scrive : " O for­se si avverte un certo fastidio per l’atteg­giamento dell’attuale governo di Israele, condizionato dall’estrema destra e in particolare dei coloni più oltranzisti.". Il governo Netanyahu è di centro-destra ma sbilanciato verso il centro. Ricordiamo a Ferrari che gli insediamenti illegali vengono smantellati. Se Netanyahu fosse ostaggio dei "coloni oltranzisti e dell'estrema destra" questo non sarebbe possibile. Semmai il governo di Netanyahu non è supino alle richieste assurde degli stati  arabi e si oppone alla loro volontà di distruggere lo Stato ebraico. Ecco l'articolo:

In altri tempi un vertice tra il presidente degli Stati Uniti e il primo ministro israeliano sarebbe stato anticipato e seguito da una pioggia di di­chiarazioni. Stavolta l’incontro tra Ba­rack Obama e Benjamin Netaniahu si è svolto in un’atmosfera discreta avvolta da un quasi-silenzio mediatico, che tra­dotto dal linguaggio diplomatico signifi­ca una certa freddezza. E magari qualco­sa di più negativo.

Era inevitabile, anche se Netanyahu si è fatto un punto d’onore di esaltarne i risultati e soprattutto il clima costrutti­vo. Ci scuserà, il premier d’Israele, ma c’è seriamente da dubitarne. Perché se è vero che il vertice è avvenuto dopo le di­chiarazioni della segretario di Stato Hil­lary Clinton, che di fatto ha escluso che il congelamento degli insediamenti sia una pregiudiziale alle ripresa dei nego­ziati con i palestinesi, è altrettanto vero che Obama non poteva deteriorare ulte­riormente la propria credibilità con l’Anp e con l’intero mondo arabo, dopo le speranze alimentate con lo storico di­scorso del Cairo. Forse l’irrigidimento di Obama è un estremo tentativo per far re­cedere il presidente Abu Mazen dalla sua decisione di non ripresentarsi alle elezioni presidenziali in gennaio. O for­se si avverte un certo fastidio per l’atteg­giamento dell’attuale governo di Israele, condizionato dall’estrema destra e in particolare dei coloni più oltranzisti.

Il problema è la mancanza di chiarez­za, è l’altalena fra il dire e il non fare che sembra innervare l’intero processo di pa­ce. Obama continua a sostenere con te­nacia la realizzazione dei due Stati — Israele e Palestina —, ma ormai le pro­messe non bastano più. E allora per gli Usa, delle due l’una: o l’Amministrazio­ne americana ha una sola voce, oppure c’è qualche divergenza tra presidenza e segreteria di Stato. Per Israele: le con­traddizioni della coalizione sono sem­pre più evidenti. Per i palestinesi: come ricomporre l’armonia di una società pro­fondamente divisa all’interno (Anp e Ha­mas) e verso l’esterno (Israele e Usa)? In­somma, dove sono i due partner medio­rientali in grado di trovare la via della pa­ce?

Il FOGLIO - Amy Rosenthal : " Il medio oriente visto da Oren, il diplomatico che mette la pace tra Netanyahu e Obama "

Michael Bornstein, che ha cambiato il suo cognome in Oren, è nato e cresciuto a West Orange, una cittadina multietnica dello stato del New Jersey. Descrivendo la sua infanzia, Oren confessa di “essere cresciuto nella tipica atmosfera degli anni Cinquanta: da un lato, una terra fiabesca, il paese di ‘Ozzie e Harriet’, di ‘I Dream of Jennie’ e ‘Bewitched’, con musica bebop, squadre universitarie e balli scolastici; dall’altro, un terrificante labirinto attraverso zuffe antisemite, foruncoli e obesità”. Osservando il più autorevole diplomatico israeliano a Washington, colui che deve gestire i rapporti non sempre facili tra il presidente americano, Barack Obama, e il premier di Gerusalemme, Benjamin Netanyahu, è difficile immaginare che quest’elegante cinquantaquattrenne appassionato di storia, cinema e letteratura sia stato un ragazzino grasso e brufoloso. “Ma è proprio così”, ride Oren. L’antisemitismo vissuto “quasi quotidianamente” ha avuto una profonda influenza su di lui. “Fin da quando ero bambino, ho sempre saputo che prima o poi sarei emigrato in Israele”, dichiara Oren e aggiunge: “Di Israele mi entusiasmava il fatto che gli ebrei si assumevano diretta responsabilità per la propria vita concreta, dalla illuminazione stradale fino agli impianti fognari: era una cosa del tutto ignota in New Jersey”. Terminate le scuole, Oren si iscrisse alla Columbia University, ma il suo cuore rimase in Israele. Nel 1979 prese la decisione di trasferirsi e si arruolò nell’Idf come paracadutista. La prima guerra cui prese parte fu quella del Libano nel 1982, che, confessa, “continua a procurargli incubi notturni”. Qualche anno fa, ha acceso la tv e c’era un documentario: “Ho rivisto le strade che avevo percorso, in mezzo a cadaveri, fiamme, bombe e terrore. Sono rimasto seduto a piangere a lungo”. In quello stesso anno di battesimo alla guerra, tornò in licenza a Gerusalemme per sposarsi. La svolta Oren la ottiene con la pubblicazione de “La guerra dei Sei giorni”, nel 2002. Vince il Los Angeles Times Book Prize for History e il National Jewish Book Award, il libro diventa un bestseller. Nel 2007 Oren è tornato sugli scaffali delle librerie con un altro importante libro: “Power, Faith and Fantasy: America in the Middle East. 1776 to the Present”, dedicato al lungo e intimo rapporto esistente tra gli Stati Uniti e il medio oriente. Poiché è un outsider nel ministero degli Esteri israeliano, Oren, storico di professione, è parso inizialmente una scelta inconsueta per l’incarico di ambasciatore israeliano a Washington. Ma il premier, Benjamin Netanyahu, stava cercando uno come lui: noto, apprezzato, stimato. Oren racconta ridendo che la gente, quando lo incontra per strada, continua ancora a parlargli in inglese. “Io, per così dire, ‘trasmetto’ l’americanismo”, aggiunge scherzando. Anche se tecnicamente non è più un cittadino americano. Israele non consente a chi abbia lo doppia cittadinanza di rivestire il ruolo di rappresentante all’estero. “Ho dovuto andare all’ambasciata americana di Tel Aviv e rinunciare alla mia cittadinanza americana. E’ stata una cosa dolorosa. Ma ci sono certe cose che non ti possono essere tolte. Non possono togliermi il fatto che sono un tifoso degli Yankee. Non possono togliermi il fatto che sono cresciuto e ho studiato negli Stati Uniti. E questo mi offre una prospettiva unica per spiegare gli americani agli israeliani e gli israeliani agli americani”. E che cosa vuole spiegare? “Voglio che gli americani comprendano che gli israeliani sono consapevoli del ruolo che riveste l’America in medio oriente – risponde Oren – Se si vuole davvero promuovere il processo di pace, l’America deve conquistare la fiducia degli israeliani, perché a questi ultimi sono richiesti enormi sacrifici. Il nuovo governo americano deve non soltanto aprirsi al mondo arabo e musulmano, cosa importante e necessaria, ma anche convincere gli israeliani dell’autentico impegno per la protezione dei loro interessi”. L’incontro di lunedì tra Obama e Netanyahu a porte chiuse, deciso all’ultimo momento e senza una conferenza stampa è stato percepito come l’ultimo atto di un rapporto in crisi. Ma Oren insiste nel dire che “Obama non ha mutato in alcun modo la fondamentale relazione esistente fra Stati Uniti e Israele. Ha compiuto un gesto senza precedenti: è andato al Cairo e ha detto al mondo arabo che deve accettare l’esistenza e la legittimità di Israele. Nessun altro presidente l’aveva mai fatto prima. Obama ha ribadito il proprio sostegno a Israele e alla sua sicurezza, esprimendo la speranza che un giorno potrà convivere pacificamente accanto a uno stato del popolo palestinese”. D’accordo, ma negli ultimi mesi ci sono state infinite speculazioni su una possibile crisi nelle relazioni fra Stati Uniti e Israele. “Penso di sapere esattamente come si configuri una crisi nelle relazioni America-Israele. Ebbene, posso dire con certezza che non c’è nessuna crisi”. C’è anche un pregiudizio nei confronti del “falco” Netanyahu. Oren, che ormai ha assorbito il linguaggio della diplomazia, replica: “E’ un patriota. E’ un uomo che ha prestato servizio per il suo paese in numerosi ruoli, come soldato impegnato nella lotta contro i terroristi, come ambasciatore presso l’Onu, come ambasciatore a Washington, e ora, per la seconda volta, come primo ministro. E’ un diplomatico e un politico di grande esperienza. Ma è anche un uomo che ha sostenuto apertamente la soluzione dei due stati, che si è offerto di trattare con gli Stati Uniti e arrivare a un accordo sulla questione degli insediamenti. Netanyahu è un realista. E’ impegnato a raggiungere l’obiettivo della pace, ma non vuole una pace che finisca per essere come quella di Gaza, dove Israele si ritira soltanto per diventare bersaglio di migliaia di missili. Non vuole uno stato palestinese che possa fare trattati con un Iran che appoggia i gruppi terroristici. Netanyahu è sinceramente impegnato per la realizzazione della pace, ma è anche un realista”.

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