Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
La Rivoluzione iraniana è un mostro da distruggere Articoli di Giulio Meotti, Tatiana Boutourline, redazione del Giornale
Testata:Il Foglio - Il Giornale Autore: Giulio Meotti - Tatiana Boutourline - La redazione del Giornale Titolo: «Come si dice diritto a Teheran? - Una scrittrice ci racconta gli interrogatori contro i cospiratori al Petit Trianon - Borse di studio intitolate a Neda Oxford nel mirino degli ayatollah»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 11/11/2009, a pag. IV, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Come si dice diritto a Teheran?", l'articolo di Tatiana Boutourline dal titolo " Una scrittrice ci racconta gli interrogatori contro i cospiratori al Petit Trianon". Dal GIORNALE, a pag. 16, la breve dal titolo " Borse di studio intitolate a Neda Oxford nel mirino degli ayatollah ". Ecco gli articoli:
Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Come si dice diritto a Teheran?"
Mohsen Sazegara
Durante le rivolte di giugno a Teheran, ogni giorno un professore americano con indosso una polo verde, nera “quando c’erano martiri da onorare”, ha parlato su Internet, in farsi e con voce calda e calma, ai giovani iraniani in rivolta. Dietro di lui uno sfondo verde con il simbolo della “V“ di vittoria. Quell’uomo, Mohsen Sazegara, è stato uno dei segretari di Khomeini e uno dei fondatori dei Sepah Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione. Sazegara è stato più volte imprigionato dai mullah, oggi insegna filosofia politica nella costa orientale degli Stati Uniti ed è uno dei più celebri dissidenti del regime. Il primo febbraio 1979, alle ore nove e sette minuti, un Jumbo dell’Air France apparve nel cielo di Teheran, sorvolando le cime innevate dei Monti Alborz. Su quell’aereo c’è Khomeini, il “profeta disarmato”. Sazegara era stato l’ultimo a salire sul velivolo che avviò la Rivoluzione a Teheran. Mohsen era stato al fianco di Khomeini fin dalla villetta di Neauphle-le-Chateau, alla periferia di Parigi. Nel giardino di casa Khomeini, Sazegara installò un centro di propaganda e di cospirazione politica. Circolavano migliaia e migliaia di fedeli che pregavano sotto la sua guida, a cui Khomeini annunciava: “Manderò davanti al tribunale del popolo tutti i traditori e i corrotti sulla terra. Taglierò le mani dei servi dell’imperialismo. Tutto ciò io lo farò grazie al popolo eroico e martire che cinquant’anni di tradimenti, trent’anni di tortura non sono riusciti a piegare. Costruiremo insieme una nuova società”. Sazegara credeva in quest’alba rivoluzionaria. “Nessuno si aspettava nella mia generazione un simile disastro”, dice Sazegara al Foglio. “Abbiamo creato un mostro, un mostro. La teoria della Rivoluzione islamica è basata sull’uccisione, la tortura, la violazione dei diritti umani e la negazione del mondo moderno. Oggi la Rivoluzione è debole però e spero che ci siano forze in grado di uccidere questo mostro. Nessuno sa quante persone siano morte per mano del regime. Gli oppositori denunciano 100 mila morti, altri 20 mila, è di queste cifre che parliamo. Sono certi soltanto i morti nella guerra con l’Iraq. In una parola, l’Iran ha dichiarato guerra al mondo moderno, alla ragione umana, ai diritti umani, il regime è nemico non soltanto dell’Iran, ma di tutto il mondo. Khomeini voleva fondare una sorta di utopia, di paradiso in terra dell’islam, un paese puramente shariaco che fornisse felicità universale. Non è poi diverso dal comunismo. Ma la differenza fra il comunismo e il regime islamico è che il primo era comunque figlio del mondo moderno, l’Iran khomeinista è nemico della modernità. E’ un totalitarismo utopico di matrice religiosa”. Sazegara trascorre un’infanzia felice a Teheran, proveniente da una famiglia agnostica (il padre è solito chiamare “bugiardi” i mullah). A sedici anni legge la vita di Maometto e inizia a lavorare a una traduzione in farsi del Corano, si immerge nella lettura dei libri proibiti dallo scià, come Jalal al e Ahmad, che parlava di “intossicazione da occidente”. Le macchine da scrivere sono rare, così Mohsen copia a mano un libro bandito. E’ il suo primo atto da rivoluzionario. Entra nel circolo di uno dei maestri della Rivoluzione, Ali Shariati, il teorico dello “sciismo rosso”, per il quale la storia degli sciiti non sarebbe altro che la famosa dialettica della lotta di classe, culminante in una rivoluzione. Come amava ripetere Shariati: “Ogni giorno è Ashura, ogni luogo è Karbala”. Sazegara aspira a far parte dell’immensa legione dei “mostazafin” (i senza scarpe), i sanculotti di Khomeini. “Era molto attraente pensare che l’islam fosse la più bella religione del mondo”, dice Sazegara al Foglio. “Pensare che l’islam fosse l’ultima religione, avevamo una soluzione per tutto. I nostri ideali erano il revoluzionismo, l’idea di rovesciare ogni aspetto della società; l’ostilità alla civiltà occidentale; il ritorno alle origini, all’islam che cura ogni malattia; la belligeranza verso il capitalismo e gli Stati Uniti; la giustizia basata sull’equa distribuzione; l’autarchia industriale e il ritorno alle zone rurali”. Nel 1975 Sazegara vola in America, per studiare all’Illinois Institute of Technology. Trascorre tre anni a Chicago, poi va a Parigi, per entrare nella cerchia di Khomeini. Al giovane Mohsen viene affidata la comunicazione in inglese e la traduzione di dichiarazioni del venerabile imam. Sazegara acquisisce posizioni di governo, ma l’accusa di far parte dei ribelli del Mojahedin-e Khalq lo trasforma in un paria. E’ il tempo della repressione che travolge bambini e vecchi, giovani soltanto sospetti di “deviazionismo” o, peggio, di ateismo. Le prove sono trascurate: basta il sospetto, la convinzione del giudice che l’imputato sia “un ipocrita”. Sazegara viene sbattuto nel carcere di Evin, dove vide schiere di dissidenti torturati. “Fu un punto di non ritorno per me”, ci dice. “E’ quello che volevo? Questi prigionieri, quest’atmosfera, questi interrogatori? C’era una ragazza, le dissero: ‘Frustate questa puttana’. Lei iniziò a piangere, ‘non ce la faccio più’ disse. E l’uomo degli interrogatori le rispose: ‘E allora come farai a tollerare la punizione di Dio? Nella prossima vita sarai all’inferno’. E la portarono via. Tutto allora è cambiato per me. Da allora sono stato imprigionato quattro volte dal regime”. Il giorno del rilascio, Sazegara va da Khomeini. Vuole raccontargli quanto ha visto, sperando che il venerabile imam possa fermare la strage degli innocenti. Ma è stato Khomeini a ordinare il bagno di sangue. Il 3 luglio 1982, lo studente Omar Sharib viene arrestato, dopo aver ricevuto una lettera da un amico francese. A Evin (“una università dello spirito”, secondo Khomeini), gli contestano di aver studiato “troppo a lungo” in Europa e di fumare sigarette americane. E’ mandato sul patibolo. All’indignazione occidentale, Khomeini replica: “L’Iran islamico non ha ucciso un uomo solo. Ha soltanto purificato, imprigionato o eliminato bestie feroci che l’avevano aggredito satanicamente”. Stessa sorte per Sadegh Ghotbzadeh, braccio destro di Khomeini che lo considerava “la pupilla dei miei occhi”. Prima di fucilarlo, i pasdaran di Sazegara gli sminuzzano davanti agli occhi le sue cravatte made in Usa. Sazegara comprende che gli ayatollah stavano creando “qualcosa di peggiore di quanto Stalin aveva fatto in Russia”. Nel suo curriculum di reietto c’è anche un quotidiano, Jame’eh, dove Sazegara non pubblicava foto reverenziali dei mullah, ma di violoncelliste. L’ayatollah Khamenei, succeduto a Khomeini, chiama Sazegara “volto del nemico”. Il quotidiano, che arrivò a 350 mila copie, viene chiuso con la forza. Sazegara si getta nel nascente mondo di Internet, con il portale Alliran.com, dove pubblica una lettera a Khamenei in cui lo accusa di alienare il popolo. Tutto precipita nel febbraio del 2003, quando Sazegara chiede un referendum sulla natura del regime. Viene arrestato, il suo computer, i suoi libri, le sue ricerche distrutte e confiscate. Annuncia uno sciopero della fame e della sete, che quasi lo uccide. Oggi Sazegara tiene corsi ad Harvard e Yale, e su di lui pende una condanna a sei anni di carcere perché giudicato colpevole di aver istigato nella popolazione atteggiamenti critici nei confronti del regime. “E’ difficile parlare del futuro, ma questa teoria violenta della rivoluzione io penso che avrà sempre meno attrazione per le giovani menti”, dice al Foglio. “Negli ultimi due secoli l’Iran ha fatto esperienza di numerose sfide sulla tradizione e la modernità, ma la mia generazione aveva deciso che non poteva esserci soluzione, da qui la strada violenta della Rivoluzione”. Su Obama taglia corto: “Speravo che Obama portasse il mondo a boicottare il petrolio iraniano. Il presidente Ahmadinejad è un fascista di tipo nuovo, gli ayatollah pensano che esista un Imam nascosto e che il nostro compito sia accelerarne la venuta. Dal Rinascimento in avanti, la storia per loro è stata tutta una cospirazione contro l’islam. Ahmadinejad pensa che Israele e l’Olocausto siano stati creati per opprimere il mondo islamico. E’ da qui che nasce lo scontro con lo stato ebraico. Marx citava Hegel per spiegare che la storia ripete se stessa: prima come tragedia, poi come farsa. Nel 1979 fu una tragedia e oggi Ahmadinejad, sotto le direttive di Khamenei, ripete quell’evento in maniera comica. Il cambio di regime oggi è un dovere del popolo iraniano e di nessun altro paese”. Due settimane fa uno studente di matematica, Mahmoud Vahdinia, ha contestato in pubblico Khamenei. Non si sa che fine abbia fatto. “E’ compito del mondo libero aiutare il popolo iraniano in questa battaglia facendo pressione sul regime”, conclude Sazegara. “Io sono stato arrestato e perseguitato dagli ayatollah. Ma sono ottimista, questa generazione non è come la mia, sono ragazzi realisti che vogliono far parte del mondo moderno. Vorrei che i miei compatrioti chiedessero scusa all’Iran e al popolo per quello che abbiamo fatto”. A chi gli domanda per cosa vorrebbe essere ricordato, Sazegara risponde: “Penso che rovesciare due regimi sarebbe più che sufficiente”.
Il FOGLIO - Tatiana Boutourline : " Una scrittrice ci racconta gli interrogatori contro i cospiratori al Petit Trianon"
La prigione di Evin
C’è un detto persiano che dice: “L’arrivo è nelle tue mani, la partenza in quelle di Dio”. In Iran è il ministero dell’Intelligence a interpretare il ruolo del Dio delle partenze. Basta che decida di approfondire il tuo file e la vita all’improvviso si cristallizza in un non tempo fatto di interrogatori, minacce, prigionia. E’ la storia dell’accademico iraniano- americano Kian Tajbakhsh, della giornalista Fariba Pajooh, del giovane matematico che ha sfidato l’ayatollah Khamenei ed è misteriosamente scomparso. E’ la storia che racconta al Foglio Haleh Esfandiari, direttore del Woodrow Wilson Center Middle East Program e autrice del libro “La mia casa, la mia prigione, la mia patria” (Garzanti). La sua avventura inizia il 31 dicembre 2006. Esfandiari sta tornando in America dopo aver trascorso alcune settimane con la madre novantenne. Sulla strada dell’aeroporto una Peugeot verde cerca di buttarla fuori strada e la costringe a fermarsi. Tre uomini armati di coltelli saltano fuori dalla macchina e le rubano valigia, borsa, documenti e biglietto aereo. Sembra un furto ma è l’inizio di un’odissea lunga otto mesi culminata con 105 giorni di isolamento nella famigerata prigione di Evin. “Sono stati quelli i giorni più difficili, la paura, l’incertezza costante, la lontananza dalla mia famiglia, il ricordo indelebile di quello che è accaduto a Zahra Kazemi (la fotografa iraniana naturalizzata canadese uccisa in un interrogatorio a Evin nel 2003, ndr)”. Tutto quello che avviene prima è un viaggio surreale nel regno delle ombre di Teheran, un’illustrazione lucida e spassionata delle paranoie e dei complessi di un establishment in balia della sindrome dell’assedio. Per Esfandiari il ministero dell’Intelligence si materializza nella persona del signor Ja’fari, un funzionario trentenne, di media statura con la barba mal rasata e una smorfia allo stesso tempo compiaciuta e sarcastica sulle labbra. Nel primo incontro Ja’fari finge di interessarsi al furto, ma la commedia dura poco. Il contenuto della valigia di Esfandiari è un indizio a suo carico. Come il fatto che abbia sposato un ebreo e lavori per il Wilson Center. La circostanza che il Middle East Program sia stato inizialmente chiamato “Middle East Project” suscita in Ja’fari sospetti incrollabili. Per Ja’fari la parola “project”, ma lui la pronunciava alla francese, o almeno ci provava, e diceva “perozheh”, aveva di per sé una connotazione sinistra. “Mi dica allora, in che modo avete intenzione di realizzare questo ‘perozheh?’” ripeteva a Esfandiari giorno dopo giorno. “Rispondergli che era stato chiamato ‘project’ perché non ci era venuto in mente un nome migliore ovviamente non lo soddisfava”. Ja’fari non demordeva. “Glielo dico io, lei è stata assoldata non assunta e lo hanno fatto perché volevano che lei si occupasse dell’Iran, del resto se non avessero avuto un ‘piano’ in mente per l’Iran perché mai l’avrebbero chiamato ‘perozheh’?”. Poi Ja’fari la convoca al Petit Trianon, una villa pomposamente ispirata allo stile Versailles situata vicino ad Africa Avenue, zona bene del nord di Teheran. Trent’anni fa apparteneva a una famiglia di industriali. Espropriata, è divenuta prima un centro di riabilitazione per prostitute e poi una residenza per gli “ospiti” del ministero. Dall’invito a pranzo del primo appuntamento i modi si fanno più rudi. Esfandiari si rifiuta di discutere di Huntington e Fukuyama e di ammettere di cospirare una rivoluzione di velluto con Soros e Lee Hamilton (il direttore del Wilson Center). Sconsolato la fa parlare con il suo superiore, Haji Agha, che la incalza: “Lei ha tutti i pezzi del puzzle. Li metta insieme. Ci spieghi i meccanismi, ci descriva il modello”. Esfandiari deve confessare tutto, redimersi e immunizzare l’Iran dall’attacco straniero. “Lei è il nostro dottore. Ci pensi e scriva tutto. Riavrà il suo passaporto in dieci minuti”. Le risposte che arrivano però non sono quelle immaginate e gli uomini di Ja’fari irrompono nella casa di sua madre alle prime luci dell’alba. Aprono ogni cassetto, spulciano soprammobili e ricordi. Tutto riconduce alla cospirazione, compreso un invito ai suoi genitori per celebrare l’incoronazione dello scià, la gazzetta ufficiale iraniana con la trascrizione dei dibattiti parlamentari a cui è abbonata, la rivista dell’intellighentsia letteraria Goft-o- Gou, ritenuta sovversiva anche se in vendita in ogni edicola di Teheran. Ja’fari esamina ogni cosa con occhi da entomologo e non si fa sfuggire la carta da regalo bianca che Esfandiari si è portata dall’America: “C’è dell’inchiostro simpatico” insiste lui. La commedia dell’assurdo non termina nemmeno quando, dopo 105 giorni a Evin, Esfandiari sta infine per lasciare Teheran. A poche ore dalla partenza Ja’fari suona il campanello di casa. Ha con sé le medicine che il medico di Evin le aveva prescritto e un regalo, una scatola intarsiata con dentro un libro del poeta Hafez. Si salutano per l’ultima volta all’aeroporto e lui sbuffa perché, ancora una volta, per lei ha dovuto fare un’alzataccia.
Il GIORNALE - " Borse di studio intitolate a Neda Oxford nel mirino degli ayatollah"
Neda Soltan
L’ambasciata iraniana a Londra ha inviato una lettera di protesta all’Università di Oxford, dopo che al Queen’s College, istituto affiliato all’ateneo, è stato presentato un bando per borse di studio in filosofia intitolate a Neda Aqa Soltan, la giovane iraniana uccisa a giugno a Teheran durante le proteste post-elettorali. Nella lettera, ha rivelato il servizio in farsi della «Bbc», l’ambasciata esprime il proprio disappunto per la scelta del Queen’s College e chiede all’Università di non interferire nelle questioni interne iraniane. La decisione di intitolare una borsa di studio a Neda, secondo Teheran, è un gesto politico palesemente ostile alla Repubblica Islamica: «Neda è morta in circostanze poco chiare e il suo caso non è stato ancora risolto dalle autorità, pertanto sarebbe meglio se l’Oxford University, per preservare il proprio prestigio scientifico, evitasse di dare vita a simili malintesi, poco costruttivi per i rapporti tra Iran e Gran Bretagna». Il bando per le borse di studio intitolate a Neda sono finanziate con il contributo di diversi donatori. La prima è stata vinta da una studentessa di origini iraniane. Ed è stata proprio questa notizia a suscitare la reazione iraniana. Neda, studentessa 27enne di filosofia, è stata uccisa il 20 giugno da un colpo d’arma da fuoco che l’ha raggiunta in una delle strade di Teheran durante le proteste post-elettorali.
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