Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
L'Iran prosegue col programma nucleare perchè è l'occidente a permetterlo Gli unici che osano contestare il regime sono studenti e blogger. Analisi di Guido Ceronetti, redazione del Foglio
Testata:La Stampa - Il Foglio Autore: Guido Ceronetti - La redazione del Foglio Titolo: «Terrificanti orienti nucleari - Matematici e blogger, così in Iran si paga il dissenso al regime - Così a Teheran la protesta sovverte le ricorrenze del regime»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 03/11/2009, a pag. 37, l'articolo di Guido Ceronetti dal titolo " Terrificanti orienti nucleari ". Dal FOGLIO, a pag. 3, gli articoli titolati " Matematici e blogger, così in Iran si paga il dissenso al regime" e " Così a Teheran la protesta sovverte le ricorrenze del regime ". Ecco gli articoli:
TEMA DI CRUCCIO e cruciale (e, purtroppo, anche mondiale; notte senza fine): l’IRAN atomico. E il rosario di fesserie emesse dai grandi e medi sanzionisti (giustamente, e frivolmente, preoccupati che quei bravi e un poco sanguinari teologi sciiti forzino la porta senza chiave dell’arsenale nucleare), francamente ci annoia, perché tra chi ne ascolta le dichiarazioni - qualche miliardo di persone, forse - di così ingenui da prenderli sul serio è difficile trovarne qualcuno. Si può anche non sapere in quale Oriente senza luce si collochino Teheran o Qom o i famosi pozzi di petrolio iraniani - ma tutti sappiamo che: a/quel regime vuole avere la Bomba e non pensa ad altro che a farsene una ghiotta cantina. b/In questo non ha oppositori interni. Tutti, sembra, in Asia la vogliano, la sognino - una vera union sacrée. È stato così in India: tutti beati. Idem in Pakistan - un fierone popolare dell’Esultanza. c/Il regime è certo si tratti di una farsa e fa un fico in faccia a tutte quelle minacce col ditino alzato. Teme soltanto Israele, perché potrebbe muoversi sul serio. (Stupisce non l’abbia, finora, fatto). d/Nessuno dei sanzionisti (in realtà per niente sanzionatori) vuol rompere con quel regime. C’è il petrolio, c’è il commercio, c’è la pace ad ogni costo - ci sono, per non rompere, mille buone ragioni di opportunità immediata. C’è in fondo anche la speranza cieca e accecatrice che quella bomba resterà nei depositi. C’era una volta anche la speranza che Hitler non avrebbe mai scatenato un guerrone, finito, spaventosamente, dopo cinque anni di Distruttività attiva. Obama, avendo teso la mano ad Ahmadinejad, pur vedendosela prontamente respingere, si è guadagnato il Nobel per la pace. Congratulazioni. Ma l’Iran nucleare è là, fisso come la stella del Nord, e sogghignando premurosamente, con la mano sul cuore gli Ayatollah promettono che, in quanto a pacifismo, loro sono imbattibili. Li inquieterebbe, forse, di più il silenzio. Un glaciale silenzio dell’America e degli altri. Del mondo. E allora? L’impressione è che il rivolo retorico fatto di «attenti che se non ci convincerete che... se non smantellate qua e là certi impianti...», ec. ec. sia destinato a noi per far vedere che i capi potentissimi stanno sulla torre di guardia e ci proteggono dai (per carità, soltanto supposti) cattivi di turno, coi dentini da latte atomici, e la grinta trista dei loquentes mendacium sempre gentilmente disposti a trattare. Ne diffiderebbe perfino un bambino. Ma i di tutto informati dell’Occidente si accontentano e rimandano alla prossima verifica che nulla è cambiato e che tutto procede nel senso voluto dai cattivelli da zero in condotta. Terrificante Asia: è impotente a frenare una demografia suicida, ma guarda con perfetta apatia calcolatrice a quei suoi spazi metropolitani irrespirabili - dove una perdita di popolazione in eccesso, tra fungo bianco e pioggia nera, fosse pure la più tremenda, a malapena sarebbe risentita dai capi come una sciagura. Ricordo la celebre intervista di Mao a Edgar Snow: un miliardo di uomini sacrificati «per il trionfo del socialismo», mediante la Bomba, non era per lui un disturbo, mentre sorridente si sventagliava. L’Asia non segue né l’Europa né l’America nel panico di fronte alla morte. Ignora il nostro male delle vecchiaie protratte oltre i limiti; il pranzo festivo di una famiglia italiana basterebbe a nutrire un villaggio del Bangladesh. La Bomba, tra gli islamici, è un dono misterioso di Dio. Per tutti è il segno di un traguardo raggiunto. Le nostre ragioni, infettate da esclusive paure di rinunce e diminuzioni d’essere, possono, al più, accoglierle ironicamente. Ormai la Bomba, agli iraniani devoti e bramosi di far sparire da un poco di terra la stella di Davide, gliel’avete lasciata fare. Senza averne l’intenzione, ma con pessima coscienza per motivi d’interesse e di profitto. Fateli venire e poi disertate i famosi Tavoli delle trattative atomiche. Lasciateli soli con le loro immutabili bugie. Sarebbe almeno un gesto.
Il FOGLIO - " Matematici e blogger, così in Iran si paga il dissenso al regime"
Mahmoud Vahidnia
Roma. Per un gesto simile a quello di Mahmoud Vahidnia, due anni fa vennero arrestati numerosi studenti all’Università di Teheran. Avevano accolto il presidente Ahmadinejad al grido di “morte al dittatore”, “abbasso il despota” e “vogliamo democrazia”. Avevano osato intonare l’inno nazionale proibito “Iran, terra di gioia”. Due giorni fa lo studente di matematica Vahidnia ha sfidato la Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Nelle adunate della Repubblica islamica si prende la parola soltanto per incensare il potere. Mahmoud per venti minuti ha denunciato la repressione e puntato il dito su Khamenei, in prima fila ad ascoltarlo. “Sono cinque o sei anni che seguo attentamente i media e non ho mai trovato qualcuno che osasse criticarla”, ha detto lo studente. “Per i suoi sottoposti lei è diventato un idolo”. La tv di stato offusca la diretta, ma ormai è tardi. Il video fa il giro del mondo. All’uscita, Vahidnia viene raggiunto da due uomini della polizia politica. C’è chi dice che sia stato interrogato a lungo, altri che sia sparito. Ieri Vahidnia ha dichiarato ad Alef, agenzia di stampa vicina al regime, di non essere stato arrestato, ma al momento non ci sono ancora immagini ad attestare il suo stato di salute. Esattamente un anno fa veniva arrestato il “padre dei blogger iraniani”, Hossein Derakhshan. Si trova ancora in carcere a Evin, accusato di spionaggio a favore di Israele. Evin significa “amore” in curdo, ma dalla Rivoluzione in avanti è lì che si uccidono i dissidenti, spesso estraendone il sangue. Derakhshan avrebbe “confessato” e su di lui pesa la minaccia della condanna a morte. Per la stessa accusa Teheran ha giustiziato un anno fa Ali Ashtari. Erano dieci anni che in Iran non si condannava qualcuno a morte per spionaggio a favore di Israele. La “colpa” di Derakhshan è stata una visita con passaporto canadese in Israele, per “mostrare la vita quotidiana del popolo ebraico” e smascherare i pregiudizi antisemiti “La Repubblica islamica ritrae Israele come lo stato del male” scriveva Derakhshan. “Io voglio sfidare questa rappresentazione e mostrare agli israeliani che la maggioranza degli iraniani non si identifica con Ahmadinejad”. I blogger sono fra i principali oppositori del regime. Sono stimati tra i dieci e i quindicimila scrittori online. I primi tre blog, scritti nel 2001 da Salman Jariri, Hossein Derakhshan e Nima Afshar Naderi, hanno sancito la nascita del “weblogistan” e l’Iran oggi è il nono paese al mondo per numero di blog. Così come nell’Unione Sovietica era in uso la samizdat, l’editoria clandestina stampata in casa e passata di mano in mano solo tra persone di cui ci si poteva fidare, in Iran sono i blogger, i forum, le chat e i cybercafé i nuovi luoghi della dissidenza. E proprio da Internet è arrivata in occidente la storia di Vahidnia. Reporter sans frontières ha denunciato l’Iran come “nemico di Internet”. Pochi mesi fa sempre a Evin si è suicidato il blogger Omidreza Mirsayafi. Avrebbe abusato dei farmaci. Questa la versione ufficiale. La famiglia esclude che si sia tolto la vita, doveva scontare appena trenta mesi di reclusione. Dalle finestre della cella, Mirsayafi poteva vedere l’area dove ancora, nel 2009, uomini e donne vengono seppelliti fino al collo e presi a sassate finché non muoiono. “Vivere nel paese di Khomeini è nauseante, vivere in un paese il cui presidente è Ahmadinejad è una grande vergogna”, aveva scritto Mirsayafi. Il primo post era del settembre 2006: “Cos’è la libertà? Non lo so, ma so che un giorno vedrò la sua ombra scendere sulla mia terra”. La sorella di Mirsayafi aveva implorato il perdono proprio dell’ayatollah Khamenei. Una delle frasi più citate della dissidenza è di un blogger anonimo, che prima di scomparire a Evin, fossa senza nome per i nemici del regime, ha lasciato scritto sul Web: “Non dimenticate il nostro martirio”.
Il FOGLIO - " Così a Teheran la protesta sovverte le ricorrenze del regime"
Mahmoud Ahmadinejad
Roma. Nell’Iran che cambia pelle chissà che anche il presidente-pasdaran Mahmoud Ahmadinejad non stia per perdere il suo sorriso trionfante. Il suo prossimo appuntamento internazionale è in Turchia per presiedere all’incontro dell’Organizzazione della conferenza islamica, ma è in forse anche una trasferta italiana. Fino alla settimana scorsa la presenza di Ahmadinejad al vertice Fao in calendario dal 16 al 18 novembre sembrava probabile, ma con l’approssimarsi della data non sono arrivate né smentite né conferme. L’ambasciata iraniana non offre delucidazioni, alla Farnesina non sono arrivate richieste di visto (ma Ahmadinejad è solito decidere all’ultimo momento) e la Fao completerà la lista dei partecipanti tra cui figurano il Papa, Chávez, Lula e Mubarak non prima della fine della settimana. Nel frattempo in Iran quelli che il regime chiama terroristi si preparano a tornare in piazza. Il 4 di novembre il regime è solito festeggiare la presa dell’ambasciata americana. Quest’anno la rievocazione ufficiale è insolitamente sottotono. Come con il giorno di Quds il 18 settembre i contestatori iraniani sono pronti a scendere nelle strade. Si appropriano delle ricorrenze e delle rappresentazioni del regime per farne l’emblema della rivolta. Una studentessa dell’Università Azad di Teheran spiega al Foglio: “Non ci siamo dati per vinti. Ogni giorno li abbiamo sfidati. Loro hanno riempito gli autobus e portato al campus guardie da altre università. Ci hanno lanciato addosso i lacrimogeni, molti ragazzi sono stati picchiati. Alcuni di noi non possono più frequentare le lezioni”. Ogni giorno ci sono stati episodi di protesta a Isfahan, Shiraz, Qazvin, Tabriz e Karaj. La sera del colloquio tra Khamenei e il matematico nei dormitori dell’Università Sharif si sono uditi per ore i cori “Allah –o –Akbar”. L’apparato della repressione non vuole lasciare nulla al caso. Si parla di tre milioni di bassiji mobilitati, i pasdaran hanno lanciato minacce inequivocabili, la polizia ha chiesto ai genitori di tenere a casa i figli. Più di 200 scuole nella provincia di Isfahan sono state chiuse con la scusa dell’influenza suina anche se nessun caso è ancora stato registrato in Iran. Sui blog iraniani si rincorrono come l’estate scorsa gli appuntamenti. Moussavi ha invocato partecipazione e il grande ayatollah Sanei ha lanciato un monito ai picchiatori del regime e ai loro mandanti. “E’ difficile fare previsioni, chi si sarebbe aspettato manifestazioni come quelle dell’estate scorsa quattro mesi fa?” dice al Foglio Nayereh Tohidi, professore alla Northridge University e a UCLA. Eppure se i numeri restano un’incognita per Tohidi è “certo che gli iraniani sono molto determinati a cambiare le cose. A volte si fa il paragone con Tian an men, ma il caso iraniano è molto diverso. In Cina vinse la repressione perché c’era un gruppo di potere coeso con un’ideologia forte. In Iran a minacciare la sopravvivenza del regime non ci sono solo le istanze della piazza. Le pressioni sono anche interne. Al vertice della piramide del potere le differenze ideologiche sono profonde. I chierici sono divisi da conflitti fratricidi, ci sono guerre all’interno dell’intelligence e nella polizia, l’esercito è in contrasto con i pasdaran e i pasdaran stessi non sono un blocco compatto, il 70 per cento in passato ha votato per Khatami”. Secondo Tohidi il regime vivrà un processo di implosione. “Negli anni 70 dominava un discorso islamico fondamentalista, populista e antiimperialista, oggi l’Iran che scende in piazza non si riconosce nel velayat-e-faghih (il potere supremo di un giureconsulto eletto a vita) e rifiuta la teocrazia. Gli iraniani lottano per uno stato che difenda i diritti umani, uno stato secolare e con la parola ‘secolare’ – dice Tohidi – non intendo uno stato antireligioso o irreligioso, intendo uno stato in cui religione e stato siano entità separate. In altre parole il movimento di protesta è post islamico e post ideologico”.
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