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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - L'Unità Rassegna Stampa
02.11.2009 Niente precondizioni sugli insediamenti. Clinton gela gli arabi
Cronaca di Francesco Battistini e lamentele di Udg

Testata:Corriere della Sera - L'Unità
Autore: Francesco Battistini - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «La Clinton gela i palestinesi: Colonie? No a precondizioni - A rischio la speranza di Obama»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 02/11/2009, a pag. 14, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo " La Clinton gela i palestinesi: Colonie? No a precondizioni ". Dall'UNITA', a pag. 21, l'articolo di Umberto De Giovannangeli dal titolo " A rischio la speranza di Obama  ". Ecco i due articoli, preceduti dai nostri commenti:

CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " La Clinton gela i palestinesi: Colonie? No a precondizioni "

Una domanda per Francesco Battistini: se facesse il corrispondente dall'Italia, citerebbe Agnoletto come fonte autorevole di interesse?
Gideon Levy è con Amira Hass, la firma più squalificante di Haaretz. Ecco l'articolo:

GERUSALEMME — Un an­no di Obama, per tornare dove ci aveva lasciati Bush. Un anno di Barack fotomontato con la ke­fiah, d’allusioni ironiche al suo arabeggiante nome Hussein, di sondaggi che da queste parti lo raccontavano come il presidente meno amato dai tempi di Carter. Un anno di storici discorsi al Cai­ro e d’inconcludenti missioni a Gerusalemme. Un anno per capi­re che tutto è cambiato, ma poco cambia. Almeno per ora. La pri­ma visita in Israele dell’ammini­strazione americana, la prima ad alto livello, è tutta nel glaciale sorriso di Hillary Clinton: sabato sera, nella hall del King David Ho­tel, raffredda le speranze dei pale­stinesi, riscalda i cuori della mag­gioranza israeliana e dice che no, il congelamento delle colonie non è più necessario. Esattamen­te il contrario di quanto mostra­to e sostenuto finora. «Netan­yahu ha fatto concessioni senza precedenti», dice a sorpresa la se­gretaria di Stato, di fianco un estasiato premier israeliano. E adesso è Abu Mazen a dover mol­lare sull’argomento, togliere dal tavolo quella pregiudiziale: «Nei negoziati del passato, un congela­mento degl’insediamenti non è mai stato una precondizione».
Senza precedenti, questa svol­ta. Fin dagli ultimi colloqui con Condoleezza Rice, lo stop alle co­lonie in Cisgiordania fu l’irrinun­ciabile clausola posta dall’Autori­tà palestinese, perché ripartisse il processo di pace. Lo stabilisco­no gli accordi internazionali, lo ripete la Road Map del 2003, lo
caldeggiano i ministri europei. Quaranta giorni fa, la frettolosa stretta di mano all’Onu aveva fat­to pensare che qualcosa fosse al­le viste. In realtà, adesso, quella photo opportunity Netan­yahu- Obama-Abu Mazen somi­glia più a un congedo della lea­dership palestinese. Il leader di Ramallah l’ha capito da sé, saba­to, quando ha salutato la Clinton furibondo e liquidato i giornali­sti («niente di nuovo»), lascian­do commentare ai portavoce: «Non possiamo accettare che gl’insediamenti non si fermino — dice Saeb Erekat — è contro le leggi internazionali: dal 2003, i coloni sono aumentati del 17 per cento».
E adesso, pover’uomo? Minac­ciato da Hamas, che sogna di ro­vesciarlo alle presidenziali di gennaio, scaricato da Washin­gton, Abu Mazen è all’angolo. I collaboratori lo descrivono «esausto e depresso»: tornano a circolare le voci d’una candidatu­ra di Marwan Barghouti, il bom­barolo ben visto dalla maggio­ranza del Fatah, condannato a cinque ergastoli, l’unico col cari­sma necessario a contrastare gl’islamici. Netanyahu il vincito­re fa il magnanimo, lancia una ci­ma al presidente dell’Anp. L’invi­ta a sedersi lo stesso al tavolo: «Il negoziato è importante per noi, ma non lo è di meno per lo­ro ». Abu Mazen non può accetta­re, a meno di suicidarsi politica­mente. O a meno che, scrive l’editorialista Gideon Levy, sia Obama a capire che «se non si cambia tono, non cambierà nul­la: finché Israele sentirà di tener­si l’America in tasca, continuerà per la sua strada».

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " A rischio la speranza di Obama "

Udg non ha gradito le dichiarazioni di Hillary Clinton circa il congelamento degli insediamenti e commenta : " Di missione in missione può morire la speranza di pace ". Contrariamente a quanto crede Udg, la speranza di pace èa rischio per altre motivazioni. Le dichiarazioni fatte da Abu Mazen su Gerusalemme, la sua ostinazione a non voler riconoscere Israele come Stato ebraico e il terrorismo di Hamas. Sono questi i fattori che hanno affossato i negoziati di pace. Gli arabi hanno posto precondizioni inaccettabili, senza offrire nessuna garanzia in cambio.
Ma Udg si guarda bene dal farlo notare, troppo occupato a criticare le dichiarazioni di Hillary Clinton e a elogiare le aperture filo islamiche di Obama.
Ecco l'articolo:

 Sant'Obama

Di missione in missione può morire la speranza di pace. È la sconsolata riflessione che viene da fare dopo il sostanziale nulla di fatto che ha segnato la visita in Israele della segretaria di Stato Usa Hillary Clinton. Certo, la buona volontà non manca all’amministrazione Obama. Non si contano più i discorsi, le prese di posizione, gli appelli, le sollecitazioni, i moniti che nel primo anno di presidenza, Obama ha dedicato ai protagonisti dell’interminabile conflitto israelo-palestinese. «La pace in Medio Oriente sarà una delle priorità della politica estera della mia Amministrazione», ha ripetuto più volte Obama. Sulle sue buone intenzioni, nulla da eccepire. Come sulla bontà del principio - quello di due popoli, due Stati - che, nella visione dell’inquilino della Casa Bianca, dovrebbe presiedere una pace giusta e duratura in Terrasanta. «Hope» (Speranza). Change (Cambiamento). Barack Obama le ha declinate anche in arabo ed ebraico. Scaldando i cuori. Suscitando aspettative. Che ora rischiano però di trasformarsi in delusione, frustrazione, disincanto, rabbia.Unamiscela esplosiva che rischia di far deflagrare la polveriera mediorientale. Un presidente, specie quello della iper potenza mondiale, alla fine si misura dai fatti. Dai risultati che riesce a realizzare sul campo.Esul campo, il «Nuovo Inizio» di Obama stenta a prendere corpo. In Medio Oriente, enonsolo. Il negoziato israelo-palestinese è ancora in una (perenne) fase di stallo. All’alleato israeliano, Obama ha chiesto un gesto concreto di buona volontà: il blocco totale degli insediamenti. Dal premier dello Stato ebraico, Benjamin Netanyahu, ha ottenuto tante promesse e nessuna sostanza. Obama sa che il tempo nonlavora per la pace. Esa altrettanto bene che nel vuoto di risultati, a rafforzarsi sono i gruppi oltranzisti che, nei due campi, mirano a distruggere ogni chance negoziale. E a seppellire di nuovo, e forse per sempre, Speranza eCambiamento nel martoriato Medio Oriente.

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