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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-Corriere della Sera Rassegna Stampa
01.11.2009 Due storie del passato, molto simili al presente
Le rievocazioni di Francesca Paci e Paolo Mieli

Testata:La Stampa-Corriere della Sera
Autore: Francesca Paci-Paolo Mieli
Titolo: «L'ebreo che disse a Goering, taci-Il pregiudizio che portò a Berlino 1936»

Sulla STAMPA di oggi, 01/11/2009, a pag.15, con il titolo " L'ebreo che disse a Goering, taci ", Francesca Paci ricorda Richard Sonnenfeldt.  Sul CORRIERE della SERA, a pag. 28, con il titolo " Il pregiudizio che portò a Berlino 1936 ", Paolo Mieli rievoca il comitato olimpico che si sottomise ai Nazisti. Un po' come ai recenti  " Giochi del Mediterraneo", con l'esclusione di Israele, con gli stati arabi al posto di Hitler. E poi saremmo noi ad insistere con il paragone con gli anni '30 !

 Richard Sonnenfeldt, a 22 anni e una immagine recente

La Stampa-Francesca Paci: " L'ebreo che disse a Goering, taci "

Quando gli americani lo nominano interprete del processo di Norimberga, Richard Sonnenfeldt ha 22 anni, l’età in cui Rudolf Hess, il più vicino al Führer tra i gerarchi nazisti seduti di fronte a lui sul banco degli imputati, era partito volontario per la Prima Guerra Mondiale arruolandosi nel reggimento List insieme al caporale Adolf Hitler, un oscuro ufficiale dell’esercito tedesco che amava spronare i commilitoni intonando «Deutschland über alles in der Welt». Ma a quel punto Sonnenfeld ha già visto «montagne di cadaveri e migliaia di moribondi» nel lager di Dachau, dove è stato tra i primi a entrare con i soldati alleati il giorno della liberazione, ed è pronto a tradurre l’idioma dei carnefici senza abbassare lo sguardo, unico ebreo ammesso a decifrare la banalità del male nel tribunale della storia.
La vita dell’uomo attraverso cui passarono le ultime parole di Göring, Speer, Hess, comincia nel 1923 nella Berlino della Repubblica di Weimar e si spegne alcuni giorni fa a New York, sua città adottiva cui è dedicata l’autobiografia «Witness to Nuremberg» (Testimone a Norimberga) pubblicata nel 2002. Un cortometraggio in bianco e nero come il Novecento. Negli Anni 30, racconta il «Financial Times», i Sonnenfeldt sono una famiglia benestante, moglie e marito medici, alta borghesia. Ma la storia incalza. A 15 anni Richard capisce che non c’è futuro per gli ebrei nella cittadina sassone di Gardenlegen in cui è cresciuto: due mesi prima della Notte dei Cristalli i genitori lo mandano a studiare nel Regno Unito insieme al fratello Helmut, futuro consigliere del presidente americano Nixon, e partono alla volta degli Stati Uniti. La New Herrilinge School, nel Kent, è un istituto prestigioso, gestito da quaccheri ed ebrei. Ma il giovane Sonnenfeldt è tedesco, un «nemico straniero» cui gli inglesi non concedono sconti d’età: nel 1940 viene caricato a bordo di un incrociatore britannico e deportato in Australia.
Duro destino è l’avere un destino, ammoniva Italo Calvino. Aiutato da un amico ebreo di Melbourne il prigioniero Richard riesce a fuggire e, attraverso Bombay, raggiunge New York giusto in tempo per arruolarsi volontario con le truppe americane e combattere negli anni più cruenti della Seconda Guerra fino allo sbarco in Italia e alla resa della Germania. E’ qui che il generale americano William Donovan, capo dell’Office of Strategic Services, la futura Cia, si accorge del giovane soldato bilingue e lo promuove traduttore: ogni giorno, per almeno sei ore, deve sedere gomito a gomito con i ventun ideatori della soluzione finale, maschere tragiche dietro cui si celano ordinari impiegati dello sterminio.
Fino al faccia a faccia con gli imputati di Norimberga Sonnenfeldt non aveva mai pensato alla dimensione globale dell’Olocausto. «Quello che mi colpiva di più al processo era la loro semplice banalità, la normalità, yes-men intellettualmente mediocri, anelli della catena del male al di fuori della quale non li avresti distinti dalla massa», scrive nella sua autobiografia. Quando domanda a Rudolf Höss, l’ex comandante di Auschwitz, se fosse vero che aveva sterminato tre milioni e mezzo di persone, quello risponde impassibile: «Erano solamente due milioni e mezzo, gli altri morirono di fame o di malattia».
La memoria perdona ma non dimentica. Nella galleria del Terzo Reich è l’ex capo delle SA Hermann Göring l’icona del male di cui Richard Sonnenfeldt ha continuato a parlare fino all’ultimo, l’uomo qualunque, quel che Eichmann aveva rappresentato per Hannah Arendt. Lo chiamava Herr G’rink giocando con il termine tedesco «gering», piccolo, e ripeteva di quella volta che prima d’uccidersi con il cianuro gli aveva confidato: «Fra trent’anni ci saranno statue di me in tutta la Germania». I due avevano preso confidenza durante il processo, quando di fronte alle continue interruzioni del gerarca nazista l’interprete ventiduenne l’aveva zittito: «Taci finché non ho finito di tradurre». Sono le sue parole che restano, quelle di Göring e gli altri fluttuano afone, lost in translation.

Corriere della Sera-Paolo Mieli: " Il pregiudizio che portò a Berlino 1936 "

 Hitler con il Gran Muftì di Gerusalemme

Le Olimpiadi che si tennero a Berlino nell’estate del 1936 sono passate alla storia per la performance di Jesse Owens che vinse ben quattro medaglie d’oro (nei cento e duecento metri piani, nel salto in lungo, nella staffetta 4x100) e mise in grande imbarazzo il regime hitleriano. Le vittorie di Owens provocarono grande stizza in Adolf Hitler il quale, secondo i resoconti dell’epoca, non volle in alcun modo congratularsi con lo sportivo afroamericano che con la sua stessa presenza alla competizione sportiva — e salendo poi sul podio — aveva infranto il più grande tabù della Germania razzista. Tra l’altro Owens era soltanto uno, certo il più importante, dei diciassette atleti neri presenti in quei giorni nella compagine olimpica statunitense: diciasset­te ragazzi di colore che vinsero complessivamen­te tredici medaglie nell’atletica leggera e totaliz­zarono 83 dei 107 punti assegnati agli americani. Il loro punteggio totale nelle competizioni di at­letica fu addirittura superiore a quello di tutte le altre squadre nazionali e quando alla fine dei gio­chi ci furono le manifestazioni di saluto conclusi­vo, il «Los Angeles Times» registrò con ironia la «depressione» del dittatore tedesco al cospetto di quella «sfilata in nero». Però, nonostante il «caso Owens», i Giochi olimpici nella Germania hitleriana furono un grande successo per il regi­me nazionalsocialista che li aveva organizzati.

Che quelle gare potessero tradursi in un trion­fo per Hitler era chiaro da molto tempo. In un libro su Le Olimpiadi dei nazisti. Berlino 1936, che Corbaccio si accinge a pubblicare nella colla­na storica diretta da Sergio Romano, David Clay Large ricostruisce — sulla base di una documen­tazione in gran parte inedita — i tentativi che fu­rono fatti, in particolare negli Stati Uniti, per im­pedire che si tenesse una manifestazione sporti­va dal carattere così legittimante per il Paese raz­zista che l’avrebbe ospitata. Adolf Hitler era stato nominato cancelliere dal presidente Hinden­burg il 30 gennaio 1933, e già nell’aprile di quello stesso anno il direttore del «Baltimore Jewish Ti­me » chiese al presidente del Comitato olimpico americano, Avery Brundage, di prendere posizio­ne contro lo svolgimento dei giochi nella capita­le tedesca. La risposta di Brundage — uomo di umili origini che aveva fatto fortuna a Chicago nel corrotto mondo dell’edilizia — fu evasiva. E anche il presidente del Cio, Henri Baillet-Latour si mostrò assai poco sensibile a quel genere di sollecitazioni: da una lettera confidenziale al suo predecessore, il barone de Coubertin, si capisce che Baillet-Latour aveva un grande rispetto per i nazisti; gli sembrava che in un momento in cui ogni cosa in Europa stava «andando a pezzi» a causa del governo di «individui mediocri, arrivi­sti e profittatori» i seguaci di Hitler avessero «un progetto e un metodo» in grado di funzionare. Anche Charles Sherrill, uno dei tre membri ame­ricani del Cio, in parte della sua corrispondenza appare come un ammiratore dell’«amico» Mus­solini, «un uomo coraggioso in un mondo di vi­gliacchi »: ai suoi occhi, gli Stati Uniti non aveva­no «il diritto di insegnare nulla ai tedeschi sulle questioni razziali».

Il primo a raccogliere la sollecitazione ebraica e a mettersi di traverso ai filotedeschi fu il teso­riere del comitato olimpico statunitense, Gus Kir­by, il quale scrisse a Brundage che «non capiva» il perché di tutte quelle cautele. Comprendeva Kirby che in linea generale potesse essere consi­derato saggio «non disturbare il can che dorme» (Hitler); in questo caso però, a suo avviso, «i cani non stanno dormendo ma brontolano, ringhia­no,
digrignano i denti e manca solo che morda­no ». Brundage gli rispondeva evadendo la que­stione sulla base di una considerazione più che ottimistica: «I Giochi si svolgeranno solo nel 1936 e probabilmente ci saranno molti cambia­menti nei prossimi tre anni».

A incoraggiare in questo senso Brundage era ancora un volta Baillet-Latour, che così gli scrive­va: «So che gli ebrei gridano prima che ci sia una ragione per farlo e mi ha sempre colpito il fatto che tutti gli orrori che sono accaduti per esem­pio in Russia, con azioni molto più barbare di qualsiasi cosa sia avvenuta in Germania, non han­no mai eccitato la pubblica opinione allo stesso modo». Kirby tenne duro e minacciò pubblica­mente il boicottaggio. Ma a sostegno di Brunda­ge iniziarono a muoversi alcuni importanti espo­nenti del Cio di altri Paesi, primo tra tutti l’in­fluente delegato svedese Sigfrid Edstrøm. Che scrisse a Brundage parole di questo tenore: «A quanto pare c’è una certa agitazione da parte de­gli ebrei americani... Non è un fatto positivo che essi siano così attivi e ci creino così tanti proble­mi e sarebbe impossibile per i nostri amici tede­schi proseguire con i costosi preparativi per i Giochi olimpici se tutta questa agitazione doves­se prevalere». Dopodiché Edstrøm si lasciava an­dare ad una considerazione agghiacciante: «Per quel che riguarda la persecuzione degli ebrei in Germania io non sono affatto favorevole alla sud­detta azione ma comprendo perfettamente che era necessario introdurre un cambiamento. In Germania, infatti, gran parte della nazione era
guidata dagli ebrei e non dai tedeschi stessi. Per­sino negli Stati Uniti potrebbe venire il giorno in cui dovrete porre fine alle attività degli ebrei». Parole a cui avvertiva il bisogno di farne seguire altre che nel Novecento (anche nella seconda me­tà del secolo) sono divenute un classico del mo­do di argomentare degli antisemiti: «Molti dei miei amici sono ebrei, così voi non dovete pensa­re che io sia contro di loro». Salvo poi aggiunge­re che era necessario «tenerli (gli ebrei, ndr) en­tro certi limiti».

A questo punto, pur non essendo a conoscen­za del contenuto di queste lettere, sulla base del­la semplice osservazione di come stavano andan­do le cose, il fronte che proponeva il boicottag­gio delle Olimpiadi a Berlino promosse un radu­no antinazista che si tenne al Madison Square Garden di New York il 7 marzo del 1934. Sul pal­co presero la parola il senatore del Maryland, Mil­lard Tydings, l’ex governatore dello Stato di New York, Al Smith, il sindaco di New York, Fiorello La Guardia e Gus Kirby. Un evento che fece sensa­zione: il «New York Times» plaudì all’iniziativa. Brundage allora corse ai ripari annunciando che avrebbe compiuto un viaggio ispettivo a Berlino per verificare se davvero gli ebrei erano discrimi­nati. Ai primi di giugno Brundage effettivamente partì alla volta della capitale tedesca. Ma quella missione fu un autentico scandalo: i suoi interlo­cutori furono tutti selezionati dal regime nazista, nazista era un suo amico personale che gli faceva da interprete e quando chiese di avere un incon­tro con i dirigenti sportivi ebrei, il colloquio si
svolse alla presenza di un capo delle SS in alta uniforme e con tanto di distintivo. Per compiace­re il quale Brundage entrò in argomento raccon­tando che anche il suo club di Chicago non accet­tava membri di religione ebraica...

Nella primavera del 1935 Monaco e Berlino fu­rono turbate da manifestazioni antiebraiche par­ticolarmente violente. Jeremiah Mahoney, il neo­presidente dell’Amateur Athletic Union, prese pubblicamente posizione contro i Giochi a Berli­no. Lo stesso fece il governatore del Massachu­­setts, James Curley. Al loro fianco scese in cam­po uno dei più influenti organi di stampa cattoli­ci degli Stati Uniti: «Commonweal». E così an­che la voce più importante del protestantesimo libera­le, «Christian Century». Ai quali si unì la rivista di sini­stra «The Nation». Edstrøm incoraggiò Brundage a tener duro raccontandogli che an­che lui aveva «gli ebrei sve­desi alla calcagna». Brunda­ge gli rispose dicendosi an­gosciato per il diffondersi del «pregiudizio antinazi­sta » nella «stampa newyor­chese controllata dagli ebrei». A complicare la situa­zione
intervenne il «caso Bergmann»: con il pretesto che la sua nuova società sportiva (aveva dovuto cam­biare perché, in quanto israe­lita, era stata espulsa da quel­la precedente) non aderiva all’Associazione tedesca di atletica leggera, la saltatrice in alto Gretel Bergmann fu esclusa dai campionati tede­schi del ’35. Lo sdegno inter­nazionale fu talmente gran­de che il già menzionato membro del Cio Charles Sherrill (l’ammiratore di Mussolini) partì per una mis­sione in Germania propo­nendosi di convincere Hitler a mettere almeno un ebreo nei team olimpionici. Sher­rill si qualificò a Hitler come un «amico della Germania e del nazionalsocialismo» e il Führer gli annunciò che lo avrebbe ospitato alla successiva adunata del partito a Norimberga, un invito che Sherrill accolse «con gioia» (nei suoi appunti privati si può leggere: «Fui ospite personale di Hitler per quattro giorni nel settembre del ’35. È stato splendido!»). Ma la missione non sortì l’effetto sperato. La Bergmann, nonostante avesse vinto i campionati del Württemberg del 1936 non fu am­messa alle Olimpiadi a causa delle sue «inade­guate prestazioni in sede di qualificazione»: Co­me risarcimento le furono offerti biglietti gratui­ti per assistere ai Giochi. La campionessa rifiutò ed emigrò immediatamente negli Stati Uniti, do­ve vinse il titolo femminile del salto in alto nel 1937 e nel 1938.

Questo episodio provocò il ritiro dalle Olimpi­adi di moltissimi atleti ebrei inglesi, francesi, au­striaci, canadesi e di altre nazioni. La questione non poteva non porsi anche tra gli afroamerica­ni. Il «New York Amsterdam News», un grande giornale nero che sosteneva il boicottaggio, pub­blicò una lettera aperta a Owens che per qualche settimana sembrò orientato a non andare a Berli­no. Tra gli sportivi di colore si aprì una discussio­ne sul fatto che anche loro subivano discrimina­zioni negli Stati Uniti: Ralph Metcalfe, uno sprin­ter della Marquette University, dichiarò che lui e gli altri atleti afroamericani erano stati «trattati come re» durante un meeting di atletica svoltosi in Germania alla fine del 1933 a differenza di quel che accadeva in America negli Stati del Sud
dove non potevano alloggiare nei campus e nean­che gareggiare con i bianchi. Inoltre molti degli sportivi neri ritenevano che in ogni caso la loro presenza a Berlino sarebbe stata (come effettiva­mente fu) più dirompente di una loro assenza. Così scelsero di andare. Quanto al presidente Ro­osevelt si tenne a distanza dalla questione anche perché il suo consigliere ebreo Samuel I. Rosen­man gli suggerì di evitare di apparire come un «amico degli ebrei». A questo punto i nazisti, in extremis, invitarono ad assistere ai giochi tra gli ospiti d’onore Gustav Felix Flatow, un ebreo tede­sco che con il fratello Alfred aveva vinto cinque medaglie d’oro nel 1896 ad Atene, nelle prime Olimpiadi dell’era moderna. Flatow rifiutò. Ma nel frattempo Brundage aveva vinto la sua parti­ta: gli Stati Uniti avrebbero partecipato ai Giochi. A decisione presa, nel marzo del 1936 Brundage scrisse una lettera al magnate della pubblicità Al­bert Lasker suggerendogli che il modo migliore perché gli ebrei facessero ammenda del loro ten­tativo di boicottaggio era, a quel punto, di impe­gnarsi a finanziare i Giochi di Berlino: «Nei circo­li sportivi di questo paese», scriveva, «si fa sem­pre più vivo un grande risentimento contro gli ebrei a causa di certi individui e gruppi di israeli­ti che vogliono impedire la partecipazione ameri­cana ai giochi olimpici del prossimo agosto; per controbilanciare tale risentimento organizzazio­ni o individui eminenti della vostra razza dovreb­bero fare qualche gesto... finanziare la squadra americana». Lasker gli rispose sdegnato: «Come americano mi sento offeso per la vostra lettera e il sottile tentativo di ritorsione nei confronti de­gli ebrei. Voi insultate gratuitamente non solo gli ebrei, ma anche il patriottismo di milioni di cristiani in tutta America che voi tragicamente travisate e per i quali vi azzardate a parlare senza averne diritto». La tesi molto ben argomentata del libro di Clay Large è che se Brundage non l’avesse spuntata per il nazismo sarebbe stato un durissimo colpo. Forse mortale.

Le vicende successive furono per molti versi tragiche, bizzarre o addirittura paradossali. Jesse Owens sostenne non esser vero che il Führer lo avesse ignorato: «Quando passai», affermò, «il cancelliere si alzò in piedi, mi salutò con la ma­no e io risposi al suo saluto». Aggiunse che a far­gli uno sgarbo era stato semmai il presidente Ro­osevelt che non gli aveva mandato «nemmeno un telegramma». E al momento delle successive elezioni Usa trovò il modo di elogiare Hitler («un uomo di grande dignità») e fare campagna con­tro Roosevelt definendolo un «socialista». Gu­stav Felix Flatow otto anni dopo aver rifiutato di fare l’«ospite d’onore» in quelle Olimpiadi fu ar­restato dai nazisti a Rotterdam e fu internato in un campo di concentramento dove morì di fa­me. Edstrøm fu, nel dopoguerra, il successore di Baillet-Latour (morto nel 1942) alla guida del Cio e quando nel 1952 si ritirò ne fu nominato presi­dente onorario a vita. Brundage, come segno di riconoscimento per la sua opera contro il boicot­taggio, ebbe dalla Germania un contratto per la sua impresa di costruzioni per l’edificazione del­la nuova ambasciata tedesca a Washington (con­tratto che però andò in fumo per lo scoppio del­la Seconda guerra mondiale). Poi però, dopo il ritiro di Edstrøm, nel 1952 divenne anche lui pre­sidente del Cio, incarico che tenne fino al 1972, quando decise di far continuare i Giochi di Mona­co dopo la strage compiuta da Settembre nero (nel discorso conclusivo tutto incentrato sulla esaltazione della forza del movimento olimpico, Brundage evitò anche solo un accenno agli undi­ci atleti israeliani che erano stati uccisi). La salta­trice Gretel Bergmann nel 1986 ricevette come «offerta di riparazione» un invito alla cerimonia per l’anniversario dei Giochi del ’36. Rispose con queste parole: «Per quanto siano passati cin­quant’anni dalla mia esclusione dalla squadra olimpica tedesca a Berlino, la mia delusione e la mia amarezza si sono appena attenuate». E la­sciò cadere l’invito.

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