Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Afpak - la dottrina Obama non funziona Cronache e analisi di Carlo Panella, Guido Olimpio, Syed Saleem Shahzad, Redazione del Foglio
Testata:La Stampa - Libero - Il Foglio - Corriere della Sera Autore: Syed Saleem Shahzad - Carlo Panella - La redazione del Foglio - Guido Olimpio Titolo: «I talebani fanno strage a Peshawar e Kabul - I talebani fanno stragi di benvenuto per Hillary - Obama attratto dalla via ibrida per stabilizzare Afghanistan e Pakistan - Nulla si muove nell’area Af-Pak senza le armi di Mr Haqqani - Colpiscono le città per»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 29/10/2009, a pag. 12, la cronaca di Syed Saleem Shahzad dal titolo " I talebani fanno strage a Peshawar e Kabul ". Da LIBERO, a pag. 22, l'analisi di Carlo Panella dal titolo " I talebani fanno stragi di benvenuto per Hillary ". Dal FOGLIO, in prima pagina l'articolo dal titolo " Obama attratto dalla “via ibrida” per stabilizzare Afghanistan e Pakistan ", a pag. 3, l'articolo dal titolo " Nulla si muove nell’area Af-Pak senza le armi di Mr Haqqani". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 17, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Colpiscono le città per umiliare la potenza Usa ". Ecco gli articoli:
La STAMPA - Syed Saleem Shahzad : " I talebani fanno strage a Peshawar e Kabul "
Talebani
Cento persone massacrate da un’autobomba nel principale mercato di Peshawar, mentre in Pakistan era appena arrivata per la sua prima visita ufficiale Hillary Clinton, segretario di Stato americano. Cinque funzionari dell’Onu uccisi da un commando suicida composto da tre taleban con cinture esplosive e armi automatiche in una foresteria in un quartiere residenziale di Kabul, a dieci giorni dal ballottaggio per le elezioni presidenziali. Lo scacchiere Afghanistan-Pakistan, ribattezzato «Af-Pak» dall’amministrazione Obama, è in piena fibrillazione e i due Paesi sono sempre più collegati. L’esercito pachistano è impegnato in una dura battaglia nel Waziristan meridionale, la provincia ribelle al confine con l’Afghanistan. I taleban sono riusciti riconquistare il capoluogo Koktai, la loro roccaforte, dal quale erano stati cacciati la scorsa settimana. E hanno scatenato una serie di attacchi terroristici di «alleggerimento» per fiaccare la determinazione del governo di Islamabad. Dopo gli assalti agli uffici dell’Onu e all’Università della capitale, ieri è toccato a Peshawar, città strategica sulla strada per Kabul. L’auto imbottita di esplosivo è saltata in aria mentre il popolare mercato in Pipal Mandi era affollato soprattutto di donne e bambini. La deflagrazione ha fatto crollare una decina di edifici e una moschea, molti negozi hanno preso fuoco, la gente cercava di fuggire terrorizzata. Clinton, che in mattinata aveva incontrato il ministro degli Esteri pachistano Shah Mahmud Qureshi, ha condannato l’attacco: «Uccidere gente innocente è un atto di codardia. Il Pakistan è nel mezzo di una lunga battaglia contro estremisti decisi a distruggere tutto ciò che è caro a noi americani come è caro a voi pachistani». L’assalto ai santuari dei taleban e di Al Qaeda nelle province tribali al confine con l’Afghanistan rischia però di trasformare l’intero Paese in un campo di battaglia. Ieri la polizia di Karachi ha trovato esplosivo e munizioni vicino a una università. «È dello stesso tipo usato a Lahore, Peshawar e Islamabad», ha detto il capo della polizia locale Fayyaz Khan. Dall’altra parte del confine, il ritiro delle truppe americane dalla provincia del Nuristan, una regione montagnosa contigua al Pakistan, ha consentito ai taleban di riorganizzarsi, occupare la maggior parte della provincia, tranne il capoluogo, e cominciare a mandare rinforzi in Waziristan. La decisione sul ritiro è stata presa dal generale americano Stanley McChrystal, per la difficoltà di portare rifornimento alle basi nelle valli prive di strade e bloccate dalla neve in inverno. Un mese fa otto marines erano morti in un assalto a una base isolata condotto da duecento insorti. Per quanto strategica, la ritirata dal Nuristan pone interrogativi anche sulla possibilità di controllare il territorio da parte delle forze Nato in vista delle elezioni del 7 novembre. I taleban hanno annunciato l’intenzione di sabotarle in tutti i modi e ieri hanno colpito un foresteria che ospitava funzionari dell’Onu, che tra l’altro saranno anche impegnati a vegliare sulla regolarità del voto. Un commando di tre guerriglieri, con indosso uniformi, forse della polizia, è riuscito a penetrare nell’edificio protetto da guardie armate. Secondo un portavoce del ministero degli Interni, Zemaray Bashari, «uno dei terroristi è riuscito a far saltare la cintura esplosiva che indossava». È scoppiato un incendio, i funzionari hanno cercato di fuggire, saltando dalle finestre, sotto i colpi degli altri terroristi che sparavano con kalashnikov e lanciavano granate. Poi sono intervenute le forze di sicurezza. Tutti e tre i guerriglieri sono morti, assieme a due agenti e a 5 funzionari Onu, tra cui, forse, un americano. L’attacco ha coinciso con il lancio di razzi contro il centralissimo Hotel Serena: un centinaio di ospiti si sono rifugiati in un bunker, ma non ci sono vittime perché gli ordigni non sono esplosi. Un portavoce dei taleban, Zabiullah Mujahid, ha detto che quello di ieri «è soltanto l’inizio» di un’offensiva volta a impedire il ballottaggio del 7 novembre.
LIBERO - Carlo Panella : " I talebani fanno stragi di benvenuto per Hillary "
Hillary Clinton
C’è puzza di Saigon oggi a Kabul, ma anche Islamabad: il sangue delle vittime, un centinaio a Peshawar, sei a Kabul, unisce le due nazioni in un’unica crisi: AfPak, Afghanistan e Pakistan uniti dalle stragi talebane. AfPak è una sigla che dobbiamo iniziare a maneggiare, come dobbiamo iniziare a vedere i segni di una sconfitta dell’occidente, così simili, nelle dinamiche di fondo, a quella di Saigon di 34 anni fa. Una similitudine che Barack Obama incarna, con la sua incredibile indecisione sulla strategia da seguire, come a suo tempo Lyndon Johnson in Vietnam. Da due mesi, infatti, il generale McCrystal, cui lui stesso ha affidato il comando a Kabul, gli chiede 40.000 soldati in più per presidiare il territorio, soprattutto quello ai confini col Pakistan. Da due mesi, Obama tentenna, temporeggia, però, nel frattempo, triplica le azioni dei droni, aerei senza piloti, che hanno un pregio - per l’inquilino della Casa Bianca - e un difetto, per gli afgani: non espongono alla morte le vite di militari statunitensi, ma intervengono dopo ore e ore dalla segnalazione dell’obiettivo da colpire e quindi sterminano più civili che talebani. Una scelta cinica, che ben caratterizza la caratura del Nobel per la Pace, che eccita odio antiamericano. Una scelta che va tutta a favore della grande forza che i talebani hanno: un consenso popolare contrastato, minoritario, ma comunque largo, di qua e di là dalla frontiera, tanto che negli ultimi tre anni hanno sfondato in pieno anche sul territorio pakistano. I talebani non sono “gli arabi” di Al Qaeda per le popolazioni a ridosso della frontiera dei due paesi, sono un movimento politico - che è anche terrorista, ma non solo - che è spesso rispettato perché - e il fatto è fondamentale - difende e fa proprio il “pashtunwali”, il codice di famiglia millenario - dei pashtun, etnia maggioritaria in Afghanistan, come in Pakistan. Nel pantano decisionale americano, l’iniziativa talebana può irrompere dunque con precisione chirurgica. A Kabul, ieri, un commando talebano ha assalito una sede Onu, in piana zona protetta, esattamente nel momento in cui Hillary Clinton arrivava in visita di Stato a Islamabad, capitale del Pakistan. Pochi minuti e i cento morti della strage del mercato di Peshawar, la città pakistana più vicina all’Afghanistan, hanno suonato come campane a morto sul controllo del territorio da parte del governo pakistano. Le similitudini tra Afpak e Vietnam, però, non si riscontrano solo sul piano militare, sull’indecisionismo dei presidenti democratici. Sono profonde e vanno al cuore del problema. In Vietnam gli Stati Uniti hanno sempre vinto sul piano militare (anche la famosa offensiva del Tet del 1968), ma hanno poi perso perché ha collassato il gruppo dirigente sudvietnamita che mantenevano al governo di Saigon. Collassò perché Kao Ky e Van Thieu erano parte della minoritaria èlite cattolica (retaggio del colonialismo francese) che rifiutò sempre - con l’irresponsabile appoggio di Kennedy e poi di Johnson - di allearsi con la “terza forza”, quei partiti (ma anche quei generali e ufficiali e soldati) buddisti, che erano fieramente anticomunisti, che erano pronti ad un alleanza, ma che furono sempre rifiutati se non perseguitati (vi furono addirittura battaglie tra reparti sudvietnamiti buddisti e reparti sudvietnamiti cattolici). Oggi, a Kabul e a Islamabad, la debolezza americana (e della Nato) non è solo evidente sul piano militare, ma soprattutto su quello politico. Sia Karzai a Kabul sia Zardari a Islamabad, guidano governi che non sanno conquistarsi consenso popolare, la cui corruzione grida vendetta, ma gli Stati Uniti ripetono l’errore del Vietnam: forniscono aiuti e fanno morire loro soldati per difenderli, senza chiedere contropartite politiche. Assurdamente, ma democraticamente, rispettano la loro sovranità. Ma devono svoltare: devono porre a Karzai come a Zardari delle precise e vincolanti richieste politiche, a partire dall’epurazione dei servizi segreti pakistani collusi con i terroristi talebani da anni, infischiandosene del rispetto della loro sovranità.
Il FOGLIO - " Obama attratto dalla “via ibrida” per stabilizzare Afghanistan e Pakistan "
Obama
New York. Barack Obama sta pensando di adottare una strategia ibrida in Afghanistan, una via di mezzo tra l’escalation militare contro i talebani chiesta dal suo generale Stan McChrystal e la più ristretta azione antiterrorismo suggerita dal vicepresidente Joe Biden. Il New York Times, citando fonti ufficiali, ha svelato che Obama invierà altri soldati in Afghanistan, ma non i 44 mila richiesti, limitando le operazioni di controllo del territorio afghano a dieci città. Mentre Obama si prende il tempo per elaborare una nuova strategia, la situazione comincia a sfuggire di mano. Ottobre è stato il mese più sanguinoso per gli americani in Afghanistan dal giorno dell’invasione di otto anni fa (ieri a Kabul sono state attaccate le Nazioni Unite). Un alto funzionario del dipartimento di stato, dislocato nella provincia di Zabul, si è dimesso in protesta con la guerra in Afghanistan. Il Times, sempre ieri, ha raccontato che il potente fratello del presidente Hamid Karzai – il discusso governatore di Kandahar accusato di trafficare con la droga – è da otto anni a libro paga della Cia e del Pentagono. In Pakistan, nel giorno della visita di Hillary Clinton, un’autobomba ha fatto una strage a Peshawar. Il ruolo del Pakistan è cruciale, secondo la Casa Bianca. Washington ha stanziato aiuti per 7 miliardi e mezzo di dollari, da aggiungere agli aiuti militari all’esercito, anche per combattere i talebani al confine con l’Afghanistan.
Il FOGLIO - " Nulla si muove nell’area Af-Pak senza le armi di Mr Haqqani"
Jalaluddin Haqqani
Roma. I proiettili fischiavano dappertutto, ma Jalaluddin Haqqani sembrava non farci caso. Nella valle afghana di Urgun, vicino al confine pachistano, un fortino dimenticato dei governativi era bersagliato dai mujaheddin. Mulawi Haqqani, barba e occhi nerissimi, turbante pashtun e mitra catturato ai sovietici a tracolla, guidava l’attacco. In piedi, in mezzo alla battaglia, spiegava a tre giornalisti, appiattiti a terra per evitare le pallottole, come avrebbe cacciato l’Armata rossa dall’Afghanistan. Si sentiva protetto da Allah e dalla Cia, che nel 1983 armava Haqqani assieme ai paesi arabi. Venticinque anni dopo, il comandante combatte ancora. Con il figlio Sirajuddin è uno dei nemici più temibili delle forze occidentali a cavallo tra Afghanistan e Pakistan, nel Waziristan del nord. L’attacco di ieri mattina a Kabul alla foresteria dell’Onu – che ha provocato 12 morti – e i razzi al Serena hotel, l’albergo a cinque stelle della capitale – portano il marchio della sua organizzazione, l’Haqqani network. In passato il gruppo ha cercato di uccidere il presidente, Hamid Karzai, ha fatto saltare in aria l’ambasciata indiana, ha messo a punto una serie infinita di azioni suicide nell’Afghanistan orientale al confine con il Pakistan. A Kabul soltanto la rete di Haqqani e le cellule del signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar possono portare a termine un attacco complesso come quello di ieri. Spesso lavorano assieme e non è escluso che sia il caso dei tre attentatori che, con pistole e granate, hanno preso d’assalto e distrutto la foresteria dell’Onu a Shar-e Naw, nel centro della capitale afghana. Per snidarli le forze di sicurezza hanno ingaggiato una battaglia durata due ore, che è costata la vita a sei funzionari delle Nazioni Unite, fra i quali un americano. Il 7 novembre l’Onu dovrà garantire il secondo turno delle elezioni presidenziali. Poche ore dopo è scoppiata un’autobomba a Peshawar, il capoluogo della North West Frontier Province pachistana. Centocinquanta chili di esplosivo nel mercato di Peepal Mandi, che vende soprattutto oggetti per la casa, prodotti da profumeria e giocattoli, la gioia di donne e bambini, che sono infatti le principali vittime tra i 101 morti e i 200 feriti. Il massacro è il peggiore dal 2007 e ha dato il benvenuto al segretario di stato americano, Hillary Clinton, arrivato ieri in Pakistan. Dal 5 ottobre (giorno in cui è stata annunciata l’offensiva dell’esercito di Islamabad contro i santuari talebani nel Waziristan del sud) a oggi sono stati organizzati più di dieci attentati in Pakistan, per un totale di 261 vittime L’imputato numero uno è Qari Hussain Mehsud, conosciuto come “il mentore dei terroristi suicidi”. Assieme ad Hakimullah Mehsud, il leader dei talebani pachistani, è il principale obiettivo di Rah-e-Nijat, percorso di liberazione, l’operazione dell’esercito pachistano. Gli attacchi a Kabul e Peshawar sono coordinati, anche se organizzati separatamente. Non a caso il network Haqqani sta dando sostegno ai Mehsud. Circa 1.500 miliziani si sono mossi dall’Afghanistan verso il Waziristan meridionale, per contrastare l’offensiva pachistana. Li comanda il mullah Sangeen Zadran, uno dei luogotenenti più fidati del clan Haqqani. I militari pachistani hanno comprato la non belligeranza di alcuni comandanti talebani della tribù wazira, avversa ai Mehsud, ma il network Haqqani è escluso dalle operazioni in corso. Alcune sue basi si trovano nel sud, ma la vera roccaforte è sempre stata la parte settentrionale del Waziristan. A Miranshah, il capoluogo del Waziristan del nord, gli Haqqani sono di casa. Il villaggio di Dande Darpa Khel è il loro quartier generale in Pakistan. Vicino a Miranshah è stato tenuto in ostaggio dagli uomini di Haqqani, per sette mesi e dieci giorni, il giornalista del New York Times David Rohde. Gli americani hanno più volte utilizzato i droni per colpire la rete: dagli inizi di settembre ben sette attacchi americani dal cielo hanno colpito il Waziristan del nord, quattro di questi puntavano al network Haqqani. L’Isi, i servizi segreti pachistani, ha stretto un patto con il vecchio Jalaluddin Haqqami che gli garantisce l’impunità di Islamabad. I militari pachistani lo considerano “una pedina strategica” fin dai tempi dell’invasione contro i sovietici. Durante il regime talebano di Kabul era il ministro delle Aree tribali al confine fra Afghanistan e Pakistan. Dopo il crollo del mullah Omar, i servizi pachistani blandirono a lungo Jalaluddin, considerato più moderato, per convincerlo a prendere il posto del leader dei talebani. Nel 2007 il suo network è diventato di fatto autonomo dalla shura talebana sotto il comando di Siraj, detto anche Khalifa, uno dei figli di Jalaluddin. Teorico delle azioni suicide, sulla sua testa pende una taglia degli Stati Uniti di 5 milioni di dollari. Il padre fu il primo, negli anni Ottanta, ad ospitare a Khost i volontari arabi della guerra santa. Siraj ha rafforzato i legami con al Qaida arruolando ceceni, uzbechi e mediorientali. Nei minicampi di addestramento del Waziristan passano anche i volontari europei, molti dei quali convertiti all’islam. Fra questi una cinquantina di tedeschi, nell’ultimo anno, e molti turchi. Haqqani controlla bene il territorio. I membri del Parlamento di Kabul, che conosce personalmente, hanno bisogno di un suo permesso scritto per girare in alcuni distretti senza essere fatti a pezzi. Conta su qualche migliaio di miliziani, anche se le sue cellule infiltrate nelle grandi città, come Kabul, sono le armi più temibili. Il vecchio Haqqani è stato dato per morto innumerevoli volte. Lo scorso anno ha scelto un sistema sanguinoso per dirimere ogni dubbio. Il 3 marzo 2008 un kamikaze si è fatto saltare in aria presso una base americana, uccidendo due civili e ferendone altri 19. Il terrorista era un cittadino tedesco di origini turche. Qualche settimana più tardi, comparve un dvd con le riprese dell’esplosione. Dalla nuvola di fumo usciva il volto di Haqqani, che rivendicava l’attentato: “Come potete vedere, sono ancora vivo”.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Colpiscono le città per umiliare la potenza Usa "
Guido Olimpio
WASHINGTON — È la strategia delle città. Gli insorti che agiscono sui due versanti del conflitto — Afghanistan, Pakistan — l’hanno adottata per dimostrare di essere in grado di colpire come e dove vogliono. Da soli o insieme agli «affiliati », una vasta corte di militanti qaedisti, kashmiri, uzbeki e locali. Attacchi che hanno anche il sapore della sfida ai piani che sta studiando in queste ore la Casa Bianca. Una delle ipotesi valutate e, sembra, approvata, è quella di concentrare i rinforzi americani a difesa dei centri abitati. Con le loro bombe i terroristi dicono: noi siamo già dentro. Negli ultimi mesi i ribelli hanno messo a segno colpi devastanti a Kabul e nelle principali città del Pakistan. Un’offensiva che ha confermato flessibilità da parte degli estremisti. Prendono di mira obiettivi «morbidi» come un grande albergo. Oppure bersagli ben protetti. Per portare a termine la missione usano tattiche complesse. Azioni suicide affidate a gruppi ribattezzati «fedayn» che prima di farsi saltare ingaggiano furiosi combattimenti. Ricorrono all’auto-bomba per causare un gran numero di vittime — quello che è accaduto ieri a Peshawar — ma anche come ariete esplosivo al fine di sorprendere le difese. Sono dei guerriglieri votati al martirio capaci però di manovrare per infliggere i maggiori danni possibili. E prima del gesto finale provano a prendere ostaggi per aumentare il caos, incutere terrore, dare prova di essere «in controllo». Si sentono abbastanza sicuri da assalire in Pakistan caserme e sedi dell’intelligence. Spesso si travestono da soldati o poliziotti. Per gli esperti i responsabili delle stragi di Kabul sono miliziani vicini al potente clan Haqqani che hanno stretto un patto con un network presente da tempo nella capitale. Dall’altro lato del confine si tratta di uomini legati alle formazioni integraliste finite nel mirino di Islamabad. Una nebulosa dove si scambiano ruoli e compiti. Ci sono i seguaci del Lashkar-e-Jangvhi o di Jash Mohammed, separatisti kashmiri, mujaheddin del Movimento uzbeko e ovviamente i talebani pachistani. Molti di loro hanno seguito corsi di addestramento tenuti da 007 (attivi o in pensione) di Islamabad. Li volevano impiegare in chiave anti-indiana ma oggi se li ritrovano nel cortile di casa dove usano i trucchi e i sistemi che gli sono stati insegnati. Sarà difficile fermarli.
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