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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
23.09.2009 Obama tentenna sulla guerra in Afghanistan
Analisi di Christian Rocca, Bernard-Henri Lévy, redazione del Foglio

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Christian Rocca - La redazione del Foglio - Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Kabul in bilico - La brutta guerra che l’Afghanistan può ancora vincere - Obama difende l’eredità di Bush»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 23/09/2009, a pag. 1-4, l'articolo di Christian Rocca dal titolo " Kabul in bilico ", a pag. 3 l'editoriale dal titolo " Obama difende l’eredità di Bush ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 21, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " La brutta guerra che l’Afghanistan può ancora vincere  ". Ecco gli articoli:

Il FOGLIO - Christian Rocca : " Kabul in bilico "

 Christian Rocca

Milano. Era già successo ai tempi di George W. Bush sull’Iraq, quando la battaglia interna all’Amministrazione repubblicana e le pressioni dell’opinione pubblica sulla strategia da adottare a Baghdad avevano aperto sulle rive del Potomac un fronte altrettanto caotico di quello del fiume Tigri. Ora che alla Casa Bianca c’è Obama si stanno ripetendo, sulla questione afghana, gli stessi intrighi di palazzo e la medesima gran confusione tra la Casa Bianca e il Pentagono, tra i falchi e le colombe, tra il personale civile e quello militare, tra i consiglieri e i collaboratori del presidente. Obama non sa bene che cosa fare, sperava che le elezioni presidenziali afghane assicurassero una guida più legittima al paese e fermassero l’offensiva talebana. Non è successo. Così nelle ultime ore ha deciso di prendere tempo e ha chiesto ufficialmente ai capi militari, in particolare al generale Stanley McChrystal, di rimandare la quantificazione della richiesta di nuove truppe a dopo che sarà ripensata l’intera strategia militare adottata qualche mese fa. Il presidente non sa se continuare con le operazioni di protezione della popolazione civile e la strategia antiguerriglia, per cui servirebbero tra 15 e i 40 mila soldati in più, sul modello di quanto è stato fatto in Iraq col “surge” e secondo quanto suggerito dal generale McChrystal. L’alternativa è limitare l’azione, come sembrano preferire il vicepresidente Joe Biden e altri consiglieri, ad attività di semplice antiterrorismo, in particolare in Pakistan, puntando su agenti Cia e azioni aeree con i predator senza pilota comandati dalle basi in Nevada. L’indecisione ha aperto il campo alle fisiologiche soffiate alla stampa dei rapporti del Pentagono e alle indiscrezioni di palazzo. Fino a qualche settimana fa, sembrava che Obama puntasse sulla prima ipotesi, ora pare che stia prevalendo la seconda. Le difficoltà sul teatro di guerra afghano hanno fatto perdere a Obama lo smalto dei mesi passati, quando spiegava senza giri di parole che a Kabul si gioca una partita decisiva per la sicurezza nazionale americana e che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di sconfiggere al Qaida e non consegnare il paese ai talebani. Sulla base di questo progetto, sia pure senza entusiasmo, Obama aveva subito dato il via libera alla richiesta di più soldati espressa dai suoi generali, aumentando del 50 per cento il contingente in Afghanistan. Il generale McChrystal, privatamente, ha chiesto di poter disporre degli uomini necessari a sconfiggere i talebani e intanto li sta spostando dai centri rurali alle città più popolate. Nel suo rapporto, giunto chissà come sulla scrivania del cronista del Washington Post Bob Woodward, ha scritto che è necessario agire subito, entro un anno, per evitare l’avanzata irreversibile dei talebani. Qualche giorno fa, il capo di stato maggiore Mike Mullen ha detto al Senato che in Afghanistan servirebbero 40 mila uomini, oltre a un governo locale più credibile, denunciando lo stato del dibattito interno all’Amministrazione, visto che il segretario alla Difesa, Bob Gates, è considerato tra i contrari a un maggior impiego di soldati. La questione è sempre la stessa: se l’obiettivo è quello più limitato di combattere al Qaida si può anche fare a meno di impegnarsi in una lunga guerra contro i talebani. Anche il consigliere per la Sicurezza nazionale Jim Jones pare sia tra i prudenti, al punto da aver detto a un giornalista che qualora McChrystal avesse chiesto esplicitamente più truppe la risposta di Obama sarebbe stata di stupore (per farsi capire meglio, Jones ha detto che Obama avrebbe usato l’espressione “WTF”, cioè “what the fuck?”, “ma che cazzo?”). Ma c’è chi fa notare di averlo visto di recente con il giornalista che ha pubblicato il rapporto. La diffusione del dettagliato documento di McChrystal crea una difficoltà ulteriore per Obama, perché indebolisce la sua posizione – ribadita nel giro di interviste domenicali – secondo cui la richiesta di nuove truppe ha senso solo se in funzione di una strategia giusta. Lo scoop di Woodward ha svelato che la strategia di McChrystal c’è, ed è la stessa che in Iraq si è dimostrata giusta, per cui se Obama continua a prendere tempo vuol dire che sta pensando di ridefinire la missione. Su questa ipotesi nascono le voci, non confermate, delle prossime dimissioni di McChrystal, soltanto tre mesi dopo aver ricevuto l’incarico presidenziale di comandante della missione. L’opinionista Andrew Sullivan ha scritto sul sito dell’Atlantic Monthly che la visione strategica di McChrystal e dei suoi sostenitori, tra cui la destra neoconservatrice che proprio ieri con Fred e Kimberly Kagan ha diffuso un dettagliato piano per la vittoria in Afghanistan centrato sull’aumento del contingente, vada molto oltre la missione anti talebana: “L’idea è trasformare l’Afghanistan in un protettorato americano semi permanente. Questo è l’impero del XXI secolo: occupare uno stato in via di fallimento per evitare che crei caos ulteriore. La logica di McChrystal è che l’America deve occupare anche il Pakistan. E la Somalia. E qualsiasi posto dove al Qaida cerca di rifugiarsi”.

CORRIERE della SERA - Bernard-Henri Lévy : " La brutta guerra che l’Afghanistan può ancora vincere  "

 Bernard-Henri Lévy

Quello che si sente dire anche nel­­l’Italia ancora comprensibilmente turbata dalla tragica morte dei sei sol­dati a Kabul.
La prima tappa è Tora, un fortino appoggiato su un terreno di pietri­sco, a 20 chilometri da Kabul. Siamo accolti dal colonnello Benoît Du­rieux, un intellettuale, capo del reggi­mento e autore di un eccellente «Reli­re 'De la guerre' de Clausewitz» (Édi­tions Economica, Paris 2005). Avan­ziamo verso Surobi, dove ci aspetta l’assemblea dei malek, i saggi della re­gione, per l’inaugurazione di una pic­cola scuola di ragazzi. Ci scambiamo discorsi sul tema dell’alleanza fran­co- afghana di fronte all’ascesa dei ta­lebani. Il numero di blindati mobilita­ti per lo spostamento, l’estremo ner­vosismo degli uomini, il volo raso terra, talora a 10 metri dal suolo, del­l’elicottero Caracal che ci ha portati qui di buon mattino, non lasciano dubbi sulla serietà della minaccia. Ma non ci sono dubbi nemmeno sul fatto che la strategia dei militari si ba­sa su un’idea semplice e che non ha molto a che vedere con la caricatura che ne danno i mass media: mostra­re, certo, che si è lì per fare la guerra, ma che questa guerra si propone an­che di portare sicurezza, pace, acces­so alle cure e al sapere, a un popolo che ha la coalizione come alleata.
Poi il forte Rocco, nel cuore della valle di Uzbin, 10 chilometri più a monte rispetto al punto in cui trova­rono la morte, nell’agosto del 2008, i dieci legionari francesi del Rpima (Reggimento di paracadutisti di fan­teria di marina). È un altro forte da western, ancora più isolato, circonda­to dalle montagne. I 159 uomini del capitano Vacina alloggiano qui nelle tende, rafforzate da compensato in previsione dell’inverno. Appena in­stallati, racconta Vacina, ecco le ele­zioni, il bombardamento talebano dei seggi elettorali, la risposta delle forze regolari afghane appoggiate dai legionari: segue poi l’incredibile spet­tacolo dei contadini che vengono a votare nel frastuono di bombe e mi­tragliatrici.
Si tratta veramente di una forza d’occupazione? Di neocolonialismo, come dicono gli «utili idioti» dell’isla­mo- progressismo? Gli eserciti, come i popoli, hanno un inconscio. E non nego che la tentazione possa esiste­re. Ma quel che osservo, per il mo­mento, è questo: una forza militare che viene qui per consentire, letteral­mente, alla gente di votare e che quindi è presente, non meno letteral­mente, per dare rinforzi a un proces­so democratico.
Quindi Tagab, nel cuore della valle di Kapisa, dove ritrovo il colonnello Chanson che ancora si ricorda di quando, quindici anni fa, allora gio­vane Casco blu a Sarajevo, mi impedì l’accesso al monte Igman. Stessa con­figurazione che a Rocco. Stesso pae­saggio di montagne, con in basso una vallata verdeggiante ma infesta­ta da gruppi armati. Il forte è stato bombardato ieri. Due giorni prima, un attacco più duro ha provocato un’incursione. E Chanson racconta l’arrampicata verso la posizione av­versa; l’occupazione delle due creste della montagna; lo scontro, al ritor­no, con un’unità jihadista; il combat­timento, durissimo; e infine la disfat­ta degli assalitori. Il bilancio dell’ope­razione? Chiediamo. Il numero esat­to delle vittime? Appunto, sorride Chanson: «Qui, io sono, e resterò, l’unico a saperlo. Infatti, ecco un al­tro principio: per ogni talebano ucci­so c’è un nuovo talebano che nasce; ogni vittoria strombazzata provoca, automaticamente, umiliazione e ven­detta. Di modo che vincere non deve più significare uccidere ma restare, semplicemente restare: essere gli ulti­mi a rimanere in campo e mostrar­lo ».
E ancora Nijrab, sempre nella valle di Kapisa, 18 chilometri a nord. È qui, in questo quarto forte, che è di
stanza il terzo battaglione dell’eserci­to nazionale afghano, comandato dal colonnello Khalili. Ricordo che, nel mio «Rapporto afghano» del 2002 or­dinatomi da Jacques Chirac, la prima raccomandazione era: aiutare a costi­tuire un esercito nazionale afghano e lasciargli, appena possibile, la re­sponsabilità di isolare, poi mettere fuori gioco, i neofascisti talebani. Eb­bene, è quello che sta accadendo, se devo credere alle spiegazioni di Khali­li. Spetta a lui l’iniziativa degli assal­ti. È lui che decide, o no, di richiede­re i rinforzi del battaglione francese. Ed è sotto il suo comando che si tro­vano i famosi «consiglieri» america­ni di cui mi parlava, poco prima, il co­lonnello americano Scaparotti. Di nuovo, il contrario del cliché. Di nuo­vo, l’inverso dell’immagine convenu­ta di una guerra franco-americana di cui gli afghani non sarebbero che le comparse.
Infine, Bagram, la base americana. Con la terribile prigione segreta, im­possibile da avvicinare, a 200 metri dal luogo in cui mi trovo. E con i 42 uomini del distaccamento francese Harfang, addetti stavolta ai due dro­ni Sidm, pilotati da terra dal persona­le navigante formato sui Mirage e che forniscono alle truppe qualsiasi informazione in grado di ridurre la parte di rischio delle operazioni. Im­magine di una guerra «tecnica», fon­data su un’estrema economia di mez­zi. Conflitto di «bassa intensità», la cui via d’uscita, ognuno ne è consape­vole, non può essere soltanto milita­re. E tendenza a «morti zero», tanto per l’avversario che per i soldati della coalizione stessa. Non ho visto tutto, naturalmente. Ma ho visto questo: una guerra brutta, come tutte le guer­re; ma una guerra giusta; che ha pre­so un verso meno negativo di quanto si dica, nonostante i drammi patiti dall’Italia e dagli altri Paesi dell’alle­anza; una guerra che i democratici af­ghani, con i loro alleati, possono vin­cere.

Il FOGLIO - " Obama difende l’eredità di Bush "

 George Bush

E’toccato nientemeno che a Barack Obama riscattare l’eredità politica di George W. Bush e la sua controversa decisione del 2003 di invadere l’Iraq. Alla domanda di Dave Letterman sull’incauta scelta bushiana di mandare i soldati in Iraq, Obama ha risposto in un modo che deve aver fatto venire l’orticaria a molti teorici della sciagura costituita da Iraqi freedom. “Visto che Saddam non c’è più – ha risposto Obama – è una cosa buona. Era un personaggio che certamente voleva causare molti problemi”. Obama ha aggiunto che sarebbe stato meglio finire prima il lavoro in Afghanistan, nel fronte della guerra al terrorismo che Bush gli ha lasciato aperto, ma si è mostrato molto più ottimista sull’Iraq, dove la strategia politica e militare del “surge” adottata da Bush, elaborata dal generale Petraeus e osteggiata dall’allora senatore Obama ha avuto un successo “al di là di ogni immaginazione”. Per la Casa Bianca l’Iraq è talmente un caso chiuso che, nella maratona televisiva domenicale fatta di cinque-talkshow- cinque, Obama non ha trovato modo in 10.855 parole, di pronunciare né la parola “Iraq” né “Baghdad”. Sollecitato da Letterman, invece, ha spiegato una cosa che Bush ha detto centinaia di volte e cioè che “l’Iraq non sarà perfetto ma, grazie al sacrificio di chi ha combattuto, gli iracheni avranno l’opportunità di creare un modello di democrazia funzionante che penso finirà per essere davvero positivo per la regione”. In una trentina di parole, ecco la “freedom agenda” di Bush. L’eredità Bush è al centro di rinnovata attenzione mediatica. Ross Douthat ha scritto sul Times che Bush è stato un capo dell’esecutivo “disastroso”, ma anche che sono stati pochi i presidenti che come lui sono riusciti a riparare agli errori. L’Iraq è per Bush ciò che il Vietnam è stato per Lyndon Johnson, salvo il fatto che Bush alla fine ha trovato la soluzione, il surge, per pacificare il paese. E la crisi del 2008 rappresenta per Bush ciò che è stata la Grande depressione per Herbert Hoover, ma solo se Hoover fosse riuscito a rispondere con i bailout che hanno impedito il collasso.

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