Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Bibi e Abu Mazen da Obama Analisi di Angelo Pezzana, Francesco Battistini.
Testata:Libero - Corriere della Sera - L'Unità Autore: Angelo Pezzana - Francesco Battistini - Umberto De Giovannangeli Titolo: «Barack penalizza Israele e minaccia la pace- Israele e la mappa delle colonie - Ci fidiamo di Obama. Deve strappare lo stop alle colonie israeliane»
Riportiamo da LIBERO di oggi, 22/09/2009, a pag. 21, l'articolo di Angelo Pezzana dal titolo " Barack penalizza Israele e minaccia la pace ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 9, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo " Israele e la mappa delle colonie ", preceduto dal nostro commento. Segue, inoltre, un breve commento all'intervista di Umberto De Giovannangeli a Saed Erekat dal titolo " Ci fidiamo di Obama. Deve strappare lo stop alle colonie israeliane " pubblicata sull'UNITA' di oggi, che non riportiamo. Ecco gli articoli:
LIBERO - Angelo Pezzana : " Barack penalizza Israele e minaccia la pace"
Barack Obama con Netanyahu e con Abu Mazen
E’ difficile che dall’incontro tra Barack Obama con Bibi Netanyahu e Abu Mazen possa uscirne qualcosa che assomigli alle speranze proclamate dal presidente americano. Dopo otto mesi di Casa Bianca, anche sul versante mediorientale il segnale è negativo, come è stato confermato dai colloqui dell’inviato in M.O. Mitchell. L’inesperienza di Obama brilla ancora di più se paragonata alle buone intenzioni di Bush e Clinton, che saranno state solo tali e non avranno prodotto risultati, ma almeno consideravano Israele un paese amico oltre che alleato. Questa considerazione è finita con l’arrivo di Obama, che applica allo Stato ebraico lo stesso trattamento che riserva ai governi democratici, anche loro fedeli alleati, dell’Europa orientale o alle repubbliche ex sovietiche liberatesi dal giogo comunista. Mentre di tutt’altra natura sono i rapporti instaurati con gli stati dittatoriali. La lista è lunga, dalla Corea del Nord, all’Iran, Cuba, Siria, per bene che vada la sua è una politica del sorriso e della mano aperta, in attesa che arrivi, in cambio, un mutamento di rotta. Una politica che finora gli ha procurato solo brutte figure e nessun successo. L’esempio di Israele è illuminante. Invece di rendersi conto che i problemi che hanno determinato il conflitto con i palestinesi sono risolvibili soltanto con una decisione salomonica, Obama continua ad aggirarne la soluzione con richieste che Israele non potrà mai soddisfare, stante l’obiettivo della controparte che è sempre il medesimo. Come notava Benny Morris, sul Guardian dell’ 11/9, l’obiettivo dell’OLP è ancora quello scritto nel suo atto costitutivo degli anni ’60, e cioè la distruzione di Israele. E vero che decenni di negoziati ci hanno abituato a considerare i contendenti come se fossero equivalenti, ma così non è. Gli stati arabi, e i palestinesi per loro conto dopo, hanno in sessanta anni cercato di cancellare lo Stato ebraico dalle carte geografiche, sempre regolarmente sconfitti. Questo risultato avrebbe dovuto produrre un solo e unico ragionamento, ragazzi, accontentatevi di quello che vi verrà dato, come capita a tutti coloro che vengono sconfitti in guerre che hanno scatenato. No, con i palestinesi, anche da parte di Israele, è sempre stato usato il guanto di velluto, dentro al quale non c’era nessun pugno di ferro. Prima Arafat, poi Abu Mazen, si sono visti offrire praticamente tutto quello che chiedevano, tranne il ritorno di quelli che vengono ancora chiamati “profughi”, il cui arrivo avrebbe cancellato la natura ebraica dello Stato, decretandone la fine. Eppure, ciò malgrado, il rifiuto continua ad essere il leit motiv della loro politica. Viene giudicato persino ragionevole discutere della possibilità che Gerusalemme diventi capitale di due stati, una proposta che verrebbe rifiutata da qualunque stato che la ricevesse. Ma per Israele, il ragionamento non vale, Obama ha persino sottoscritto il divieto per il governo israeliano di costruire sul suo territorio nazionale, con un ragionamento, questo sì, da stato coloniale che detta gli ordini ad una sua provincia. Fra queste acque mobili, Bibi si sta muovendo con abilità, il suo approccio è di apertura, due passi avanti e uno indietro, sa troppo bene quanto l’alleato americano sia importante per Israele, e poi Obama non è eterno, in Israele il suo consenso è sotto al 3 %, e pure in casa i sondaggi lo danno in forte calo. Prima o poi qualcuno gli farà notare che la sua politica attrae consensi fra i nemici degli Stati uniti solo perchè maltratta gli alleati, qualcuno poi gli chiederà come mai non ha preteso da Abu Mazen una spiegazione logica del rifiuto a considerare Israele uno stato ebraico, e pure perchè nell’ultimo congresso dell’Anp ha riservato accoglienze trionfanti agli autori degli orrendi massacri di civili israeliani, applauditi addirittura con ovazioni da dei rappresentanti palestinesi che il giorno dopo ci sono stati descritti quali ardenti desiderosi di pace. Obama vuole costruire ponti, ma non si chiede chi li attraverserà. Non si capisce perchè Israele debba partecipare, addirittura consenziente, alla creazione di uno stato che, a queste condizioni, potrebbe realizzare quello che è stato finora il sogno palestinese. Non la costruzione di un loro stato, ma la distruzione di un altro. Obama può anche essere in buona fede quando si augura la pace, ma è ora che si svegli, dica chiaramente quale progetto ha in mente, e Israele giudicherà se è accettabile. Prima, nulla che metta in pericolo la sua sicurezza.
CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Israele e la mappa delle colonie "
Alcune precisazioni sul pezzo di Battistini. Contrariamente a quanto scrive, tutti gli insediamenti illegali, quando scoperti, vengono smantellati. Battistini scrive : " Peraltro, proprio a Gerusalemme Est, dopo Annapolis sono aumentate le costruzioni nei quartieri orientali ebraici (750 nuovi progetti) e le demolizioni delle case palestinesi «abusive»". Non comprendiamo l'utilizzo delle virgolette con la parola abusive. Le case demolite lo erano e, come in ogni paese civile, gli edifici abusivi vanno demoliti per legge, a prescindere dall'etnia del proprietario e del costruttore. Per quanto riguarda il riconoscimento di Israele come Stato ebraico, definito "la pietra tombale sul diritto al ritorno dei profughi del 1948", Battistini sa bene che è vero il contrario. E' diritto al ritorno dei profughi del 1948 ad essere la pietra tombale sullo Stato israeliano. Ecco l'articolo:
GERUSALEMME — L’ultima (e unica) volta in cui Netanyahu andò da Obama a parlare di colonie da congelare, maggio scorso, lo stesso giorno sui giornali israeliani uscì il progetto d’una nuova colonia da costruire a Maskiot, nella Valle del Giordano. Stavolta sarà diverso. Ma non troppo: Bibi, Barack e Abu Mazen si vedono all’Onu, tutti insieme per la prima volta, argomento gli insediamenti, e nessuno si aspetta granché. «L’unico a volere questo incontro è Obama — riassume Nahum Barnea, editorialista israeliano —. Gli altri due sono lì solo perché l’assente ha sempre torto». Netanyahu, ostaggio dell’estrema destra nel suo governo; il presidente palestinese, ricattato dall’ascesa dei fondamentalisti di Hamas. Eppure, è di qui che deve passare la soluzione dei Due Stati che tutti (più o meno) dicono di volere. E al momento è su questo problema che il presidente americano si gioca la partita arabo-israeliana. Ecco un piccolo atlante per orientarsi nella disputa. Che cosa sono Le colonie israeliane di cui si discute sono nate negli ultimi quarant’anni al di là della Linea Verde, ovvero del confine che prima della Guerra dei Sei Giorni (1967) divideva Israele dall’area giordana. Oggi si trovano sulle Alture del Golan, sotto amministrazione civile israeliana, ma soprattutto nell’area di Gerusalemme Est e in Cisgiordania (la West Bank, che Israele preferisce chiamare Giudea e Samaria). Sono 121 quelle nate su spinta e finanziamento dei vari governi israeliani: vere città come Maale Adumim (sorto nel 1975 alle porte di Gerusalemme, più di 30mila abitanti) o Ariel (1978, 16mila abitanti), simboli come Gush Etzion (fondato nel 1967), cantieri sempre aperti come Gilo. Più di 50 sono invece le colonie totalmente illegali, alcune microscopiche, nate senza il permesso formale del governo israeliano. Chi ci abita Le colonie occupano il 3 per cento della Cisgiordania, ma di fatto il loro controllo si estende al 40 per cento delle municipalità. Dal 1996, nessun governo israeliano ha ufficialmente autorizzato la costruzione di nuovi insediamenti, ma gli interventi per bloccarli sono stati praticamente zero. Uno degli ostacoli principali al congelamento, su cui adesso insiste Netanyahu, è la loro «crescita naturale »: il 5,5% l’anno, contro una media nazionale dell’1,8. Oltre ai 180mila che vivono nei quartieri ebraici di Gerusalemme Est, i coloni sono quasi 270mila. La popolazione (130mila nel 1995) è raddoppiata in poco più di dieci anni e l’età media è molto bassa: solo il 2,9% dei coloni ha più di 65 anni, contro una media nazionale del 10%. Secondo il governo israeliano, questo aumento impetuoso non può essere limitato. L’Anp sostiene invece che sono le politiche di incentivi e di esenzioni fiscali, fortemente volute in passato proprio dal Likud, il partito del premier, a favorire questa crescita naturale. I palestinesi: sgomberare A dirlo, sono innanzi tutto gli organismi internazionali. Dall’Onu alla Corte internazionale dell’Aja, dall’Unione Europea alla Croce rossa, decine di documenti dichiarano questi insediamenti una violazione degli accordi sanciti dalla Convenzione di Ginevra, a Oslo nel 1993, dalla Road Map e dalla conferenza di Annapolis del 2007. Molti Paesi, come la Gran Bretagna, boicottano i prodotti agricoli degli insediamenti. Anche la Corte Suprema di Israele ha stabilito (2005) che questi territori non fanno parte dello Stato di Israele, poiché solo Gerusalemme Est è stata annessa nel 1980. Peraltro, proprio a Gerusalemme Est, dopo Annapolis sono aumentate le costruzioni nei quartieri orientali ebraici (750 nuovi progetti) e le demolizioni delle case palestinesi «abusive»: fra il 2004 e il 2008, ne erano state buttate giù 88, mentre solo nei primi sei mesi del 2009 ne sono state distrutte 40. I coloni: vogliamo restare Secondo un censimento del 2007, solo il 31,09% dei coloni è disponibile a una trattativa (ma non al ritiro), mentre gli altri si dividono fra ultraortodossi che tengono duro «per motivi religiosi» (il 29,08%) e chi aderisce alle tesi della destra Likud (38,96%) o della destra estrema (0,87%). La tesi prevalente: molti terreni sono stati comprati con regolari contratti. E poi Israele ha già ritirato i coloni dal Sinai, nel 1982, e da Gaza nell’agosto 2005. «Altre concessioni sono pericolose e l’avvento di Hamas nella Striscia ne è la dimostrazione. Inoltre, sono stati i palestinesi a rifiutare le offerte di restituzione fatte dai governi Barak e Olmert» (oltre il 95% della Cisgiordania). Negli ultimi mesi sono aumentate le violenze dei coloni, specie nell’area di Hebron. Una donna, Daniela Weiss, guida gli attacchi mirati dell’ala estrema contro i palestinesi o i pacifisti della sinistra israeliana: a ogni tentativo di sgombero, si risponde con aggressioni organizzate. Cosa vuole Netanyahu Dopo mesi d’attesa, il premier israeliano non dice no alla richiesta Usa di una moratoria (parola preferita a congelamento) degli insediamenti a partire da ottobre. Obama vorrebbe lo stop di un anno, Netanyahu è disponibile a sei-nove mesi, ma con varie condizioni: 1) escludere da ogni trattativa Gerusalemme Est, proclamata capitale di Israele ma non riconosciuta come tale dalla comunità internazionale; 2) terminare le 2.400 case già in costruzione in sette aree, da Gush Etzion a Maale Adumim, fino a Maskiot (valle del Giordano); 3) il riconoscimento da parte dell’Anp delle radici ebraiche dello Stato di Israele. A New York, Bibi va con un dato in tasca: nei primi otto mesi del 2009, i progetti edilizi nelle colonie sono comunque già calati del 34% rispetto all’anno prima. La betoniera non si è fermata. Però, inevitabile, sta rallentando. Cosa vuole Abu Mazen Per il presidente palestinese, la «moratoria» non somiglia neanche da lontano a un reale stop. L’Anp chiede l’applicazione delle risoluzioni e degli accordi internazionali, col ritiro integrale dei coloni (sia pur diluito nel tempo): al momento, gli insediamenti spaccano in quattro la Cisgiordania e isolano Gerusalemme Est («Che non va esclusa dalla trattativa»), impedendo «la contiguità territoriale del futuro Stato palestinese» tra Nablus, Ramallah, Gerico, Hebron e Betlemme. Inoltre, l’Anp teme che una dichiarazione di «ebraicità» dello Stato di Israele suoni come una rinuncia all’identità della parte occupata, danneggiando proprio gli arabi israeliani (il 20 per cento della popolazione), oltre a essere la pietra tombale sul diritto al ritorno dei profughi del 1948: quattro milioni di palestinesi, dal Libano e dalla Giordania. Cosa vuole Obama La questione degli insediamenti è la pre-condizione della «pace in due anni» che il presidente Usa sogna. Oltre a eventuali sanzioni più dure all’Iran, chieste da Netanyahu, in cambio di un congelamento di almeno un anno ci sarebbe la disponibilità di alcuni Paesi arabi più moderati, come il Qatar e l’Oman, a scambiare ambasciatori con Israele e a concedere l’uso dello spazio aereo alla compagnia di bandiera israeliana, El Al. Obama ci crede, ha impegnato il meglio dei suoi collaboratori, da Dennis Ross a Rahm Emanuel. E all’inviato in Medio Oriente, George Mitchell, dicono abbia dato di persona il consiglio: «Prendi casa a Gerusalemme. E sulle colonie, non mollare l’osso».
L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " Ci fidiamo di Obama. Deve strappare lo stop alle colonie israeliane ".
Ci auguriamo che l'intervista non appartenga al filone delle para-interviste inaugurato da Udg e a lui tanto caro. Nel titolo è ben specificata la posizione araba di Abu Mazen: pretese assurde senza nessuna concessione in cambio.Se l'incontro avverrà su queste basi, nessun stupore sul risultato.
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