Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 21/09/2009, in prima pagina, l'editoriale, da condividere integralmente, di Angelo Panebianco dal titolo " Un impegno sul terrorismo ", a pag. 5, gli articoli di Davide Frattini ed Ennio Caretto titolati " Operai, stanchi e riconciliabili, Il ventre molle della galassia talebana " e " Affondo degli Usa, voto dubbio". Ecco gli articoli:
Angelo Panebianco : " Un impegno sul terrorismo "
Angelo Panebianco
Oggi, nel giorno dei funerali dei sei paracadutisti caduti a Kabul, l’Italia ufficiale si stringerà, con compostezza e rispetto, intorno ai nostri soldati. Come è certamente nei sentimenti di tutti e come l’opinione pubblica esige. Oggi non si sentiranno le «stecche» che si sono udite nel giorno dell’attentato. E’ importante che quelle stecche non si sentano più. Le questioni di guerra hanno questo di diverso rispetto alle normali lotte fra i partiti per, poniamo, l’accaparramento di cariche di presidenti di Regione: ci va di mezzo la vita dei soldati. Come ha osservato Emma Bonino ( Il Riformista , 19 settembre) il nemico ascolta, eccome: ci ascoltava quando, all’epoca del governo Prodi, la sinistra estrema minacciava sfracelli se non ce ne fossimo andati presto dall’Afghanistan e oggi ascolta le dichiarazioni (poi rettificate) di Umberto Bossi. Per questo, tali questioni non possono essere trattate dai partiti come se fossero faccende interne. Ciò non significa che non si debba partecipare, insieme agli alleati, a una riflessione collettiva su come fronteggiare le nuove, sempre più difficili, condizioni del conflitto in Afghanistan. Al di là di eventuali revisioni di strategia militare o politica, c’è un dirimente punto politico, come ha notato Sergio Romano, sul Corriere del 19 settembre, e come ha riconosciuto il ministro della Difesa Ignazio La Russa ( Il Corriere , 20 settembre): si tratta di rinnovare ogni sforzo affinché al Paese torni ad essere ben chiara la posta in gioco. Non è solo un problema italiano. E’ un problema europeo. Oltre che in Italia anche in Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Spagna, nelle opinioni pubbliche tende oggi a prevalere la richiesta di ritiro. Negli anni immediatamente successivi all’ 11 settembre 2001 era ancora chiaro agli europei il perché della presenza militare in Afghanistan. In seguito, man mano che andava sbiadendo la memoria dell’11 settembre e i talebani, ricostituite le forze, ricominciavano a combattere con crescente efficacia, le classi dirigenti europee non seppero rimotivare le opinioni pubbliche. E’ il senso della presenza europea in quel teatro che è andato perduto. Va urgentemente (ri) spiegato alle opinioni pubbliche che una vittoria talebana a Kabul destabilizzerebbe il Pakistan, e il fondamentalismo islamico tornerebbe a galvanizzarsi ovunque (anche in Europa). E’ per evitare che i kamikaze si mettano all’opera qui da noi che siamo in Afghanistan.
Poiché la guerra va ora male per gli occidentali, si è diffusa la tesi (consolatoria) secondo cui ciò che là accade avrebbe poco a che fare con il terrorismo islamico. Dipenderebbe dalle lotte fra i pashtun e le altre etnie, dai riflessi della rivalità indo-pachistana, eccetera. Questi elementi esistono. Ma sarebbe cecità non vedere che il conflitto ha due facce: la prima legata alle specificità locali e la seconda alle sorti del terrorismo internazionale. Ma come la mettiamo, qui da noi in Italia, si sente ripetere, con l’articolo 11 della Costituzione? L’articolo 11 venne scritto perché i costituenti avevano in mente le guerre di aggressione del fascismo. Sono quelle guerre che la Costituzione vieta. Significa far torto alla intelligenza e al patriottismo dei costituenti sostenere che essa ci impedisce di partecipare, con gli alleati, ad azioni militari tese a contrastare (oggi in Afghanistan, domani forse in Somalia e in altri luoghi) la diffusione del terrorismo.
Davide Frattini : " «Operai», «stanchi» e «riconciliabili» Il ventre molle della galassia talebana "
Talebani
KABUL — Gli «indottrinati» (in qualche madrassa del Pakistan), gli «scontenti » (capi tribù convinti che il governo di Kabul abbia favorito i rivali), gli «opportunisti » (considerano lo Stato debole e decidono di mettersi con il più forte), i «criminali» (attratti dai profitti del traffico di droga), gli «operai» (manodopera della guerriglia, costretta a scegliere chi paga uno stipendio).
E’ «la galassia talebana». Così la chiama l’ambasciatore Ettore Francesco Sequi, l’italiano che l’Unione Europea ha voluto come inviato speciale per l’Afghanistan. Ha appena incontrato il presidente Hamid Karzai, è in partenza per New York e il palazzo delle Nazioni Unite, in agenda ha segnato l’appuntamento con Arsalan Rahmani, l’ex ministro integralista, che da senatore tiene i contatti con i vecchi colleghi di regime. Karzai — sostiene Rahmani — cerca di trattare con i talebani da due anni («senza riuscirci»): «Barack Obama ha danneggiato il nostro dialogo con l’invio di nuovi soldati ».
La teoria non convince Sequi: «E’ la regola base del negoziato e un concetto fondamentale della tradizione afghana, quando si discute con un avversario, bisogna farlo da una posizione di forza. La strategia del nuovo generale americano Stanley McChrystal è molto intelligente: mostrare alla popolazione che le truppe internazionali sono qui per proteggerla, far capire agli insorti che c’è una determinazione a non abbandonare questo Paese». Perché della «galassia» fanno parte anche «gli stanchi», quei miliziani fiaccati dalla guerra che la pressione militare sta spingendo alle defezioni.
Allo slogan «Takhim-e-Sol», Pace e Riconciliazione, lanciato da Karzai nel 2005, l’ambasciatore preferisce la parola «inclusione». «Bisogna distinguere tra chi è 'riconciliabile' e chi neppure lo vuole. Esistono due livelli. Uno è la reintegrazione di comandanti di medio-basso rango, ai quali il governo deve offrire tre garanzie: protezione dagli ex commilitoni che li considerano dei traditori, opportunità
Negoziati
Due livelli: reintegrazione dei comandanti di medio-basso rango e contatto politico con i più ideologizzati
economiche alternative, la promessa che non finiranno in qualche prigione per i reati commessi. L’altro è politico e riguarda i talebani ideologizzati. In questo caso bisogna stabilire i termini per un eventuale contatto, non voglio chiamarlo negoziato. Le linee rosse da fissare, in un processo che deve essere tutto afghano, sono l’abbandono della lotta armata e il riconoscimento della Costituzione, che non è un concetto astratto. Nella Carta afghana ci sono dei paletti molto concreti: elezioni, separazione dei poteri (quindi qui non potrà nascere un emirato islamico), standard minimo dei diritti umani (niente lapidazioni nello stadio di Kabul, per capirci), uguaglianza tra uomo e donna (non si può proibire alle bambine di andare a scuola)».
Ambasciatore per l’Italia fino al 2008, quando si è presentato a Karzai nella nuova funzione di rappresentante europeo, il leader gli ha chiesto quale fosse esattamente il suo mestiere: «L’Europa è un po’ come l’Afghanistan — gli ho risposto — ci sono varie tribù. Ci riuniamo nelle nostre jirga, le assemblee, cerchiamo di prendere delle decisioni importanti.
Il presidente mi ha detto: allora facciamo lo stesso lavoro».
Malgrado le pressioni interne in Italia, Germania e Spagna per il ritiro delle truppe, Sequi considera le «tribù» europee ancora compatte. «C’è la consapevolezza comune che l’Afghanistan può essere un importatore di stabilità o sprofondare e ritornare a essere un esportare di instabilità. Non penso solo al terrorismo. Il 90 per cento della droga prodotta qui arriva in Europa. Molti identificano questo Paese con gli anziani barbuti, vestiti in abiti tradizionali: tra quindici anni, il 75 per cento della popolazione avrà meno di vent’anni. Non possiamo permetterci di perdere questa generazione ».
Ennio Caretto : " Affondo degli Usa «Voto dubbio» "
Hamid Karzai
WASHINGTON — Per la prima volta dal 20 agosto — giorno delle discusse presidenziali afghane — Obama ha ieri espresso dubbi sulla regolarità del processo elettorale. E ha adombrato un cambio di strategia nel conflitto, con l’intensificazione della caccia ad Al Qaeda e a Bin Laden. Il presidente non ha escluso un aumento delle truppe americane in Afghanistan, chiarendo tuttavia che non ha ancora deciso. E ha aggiunto che come «non esiste una scadenza per il ritiro, così l’occupazione non sarà permanente». Obama ha affrontato la questione afghana in cinque interviste ad altrettante televisioni, in vista della megasettimana diplomatica dell’Onu e del G20 da domani a venerdì. Ha notato che le elezioni «non si sono svolte come speravo, lo scrutinio delle schede in molte regioni ha destato delle perplessità, e sono state segnalate frodi ». E ha auspicato chiarezza sull’accaduto, un messaggio al presidente afghano Karzai. In precedenza, il Dipartimento di Stato aveva preso le distanze da Karzai, osservando che «occorre attendere i risultati elettorali definitivi ».
Sul cambiamento di strategia, Obama non è stato preciso. Ha ammesso che eliminare Al Qaeda e Bin Laden non sarà un compito facile, ma lo ha riportato in primo piano. Ha poi manifestato riserve sull’invio di altre truppe: «Prima la nuova strategia, poi gli strumenti per attuarla», ha detto, ricordando che «come presidente devo rispondere a quelle famiglie che perdono i figli in guerra». Ma Obama potrebbe non avere alternative: da anticipazioni del Pentagono, il comandante delle operazioni in Afghanistan, il generale Stanley McCrystal, chiederebbe altri 30-40 mila uomini, d’accordo con il ministro della Difesa Bob Gates. In uno dei momenti più difficili, i brogli elettorali, il presidente si trova nella situazione in cui si trovò il suo predecessore Bush in Iraq, cioè nella necessità di un surge , un maggiore impegno militare. Lo caldeggiano i repubblicani al Congresso. Il loro leader al Senato Mitch McConnell sta premendo su Obama affinché accolga le istanze di McCrystal, come Bush accolse quelle del generale David Petraeus in Iraq. «Funzionò a Bagdad, funzionerà a Kabul», ha protestato il senatore, ammonendo che i prossimi mesi saranno cruciali, determineranno la vittoria o la sconfitta dell’America dopo otto anni. Con ogni probabilità, Obama userà l’Onu e il G20 per consultarsi sul surge , anche perché i democratici lo sollecitano a inquadrare la nuova strategia in una exit strategy. È atteso con enorme interesse il suo discorso al Palazzo di Vetro di New York mercoledì, che spazierà su tutta la politica estera americana. Il presidente vorrebbe aiuti concreti dagli alleati, soprattutto per un programma di rafforzamento dell’esercito e della polizia afghani. E dietro le quinte manovra per la stabilizzazione politica di Kabul, forse tramite un governo di coalizione. Ma la disponibilità degli alleati si sta riducendo. A Washington, hanno suscitato qualche apprensione le dispute in Italia dopo l’attentato alla Folgore: il New York Times ha scritto che Roma «discute il ritiro delle sue truppe». Una forzatura, sintomatica però dell’incertezza in cui si dibatte l’America. Il nostro ministro degli Esteri Frattini l’ha di fatto confutata dichiarando che all’Onu l’Italia proporrà una vera svolta per l’Afghanistan: «Si tratta di conquistare i cuori degli afghani», ha evidenziato «e di spingere Karzai ad assumersi più responsabilità». Il cambio di rotta sarà oggetto degli incontri del nostro premier Berlusconi insieme con l’Iran. Berlusconi parlerà all’Onu mercoledì, dopo Obama e dopo il presidente iraniano Ahmadinejad. La posizione italiana su Teheran, ha commentato Frattini, è che conviene ancora esplorare le prospettive di collaborazione.
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