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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
21.09.2009 Guerra in Afghanistan: un impegno contro il terrorismo
Analisi di Angelo Panebianco, Davide Frattini. Cronaca di Ennio Caretto

Testata:Corriere della Sera
Autore: Angelo Panebianco - Davide Frattini - Ennio Caretto
Titolo: «Un impegno sul terrorismo - 'Operai', 'stanchi' e 'riconciliabili' Il ventre molle della galassia talebana»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 21/09/2009, in prima pagina, l'editoriale, da condividere integralmente, di Angelo Panebianco dal titolo " Un impegno sul terrorismo ", a pag. 5, gli articoli di Davide Frattini ed Ennio Caretto titolati " Operai, stanchi e riconciliabili, Il ventre molle della galassia talebana " e " Affondo degli Usa, voto dubbio". Ecco gli articoli:

Angelo Panebianco : " Un impegno sul terrorismo "

 Angelo Panebianco

Oggi, nel giorno dei funerali dei sei pa­racadutisti caduti a Kabul, l’Italia uffi­ciale si stringerà, con compo­stezza e rispetto, intorno ai no­stri soldati. Come è certamen­te nei sentimenti di tutti e co­me l’opinione pubblica esige. Oggi non si sentiranno le «stecche» che si sono udite nel giorno dell’attentato. E’ im­portante che quelle stecche non si sentano più. Le questio­ni di guerra hanno questo di diverso rispetto alle normali lotte fra i partiti per, ponia­mo, l’accaparramento di cari­che di presidenti di Regione: ci va di mezzo la vita dei solda­ti. Come ha osservato Emma Bonino ( Il Riformista , 19 set­tembre) il nemico ascolta, ec­come: ci ascoltava quando, al­l’epoca del governo Prodi, la sinistra estrema minacciava sfracelli se non ce ne fossimo andati presto dall’Afghanistan e oggi ascolta le dichiarazioni (poi rettificate) di Umberto Bossi. Per questo, tali questio­ni non possono essere trattate dai partiti come se fossero fac­cende interne. Ciò non signifi­ca che non si debba partecipa­re, insieme agli alleati, a una riflessione collettiva su come fronteggiare le nuove, sempre più difficili, condizioni del conflitto in Afghanistan. Al di là di eventuali revisioni di stra­tegia militare o politica, c’è un dirimente punto politico, co­me ha notato Sergio Romano, sul Corriere del 19 settembre, e come ha riconosciuto il mi­nistro della Difesa Ignazio La Russa ( Il Corriere , 20 settem­bre): si tratta di rinnovare ogni sforzo affinché al Paese torni ad essere ben chiara la posta in gioco. Non è solo un problema italiano. E’ un pro­blema europeo. Oltre che in Italia anche in Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Spagna, nelle opinioni pubbli­che tende oggi a prevalere la richiesta di ritiro. Negli anni immediatamente successivi al­l’ 11 settembre 2001 era ancora chiaro agli europei il perché della presenza militare in Af­ghanistan. In seguito, man mano che andava sbiadendo la memoria dell’11 settembre e i talebani, ricostituite le forze, ricominciavano a combattere con crescente efficacia, le clas­si dirigenti europee non sep­pero rimotivare le opinioni pubbliche. E’ il senso della presenza europea in quel tea­tro che è andato perduto. Va urgentemente (ri) spiegato al­le opinioni pubbliche che una vittoria talebana a Kabul desta­bilizzerebbe il Pakistan, e il fondamentalismo islamico tornerebbe a galvanizzarsi ovunque (anche in Europa). E’ per evitare che i kamikaze si mettano all’opera qui da noi che siamo in Afghanistan.
Poiché la guerra va ora ma­le per gli occidentali, si è diffu­sa la tesi (consolatoria) secon­do cui ciò che là accade avreb­be poco a che fare con il terro­rismo islamico. Dipendereb­be dalle lotte fra i pashtun e le altre etnie, dai riflessi della ri­valità indo-pachistana, eccete­ra. Questi elementi esistono. Ma sarebbe cecità non vedere che il conflitto ha due facce: la prima legata alle specificità locali e la seconda alle sorti del terrorismo internazionale. Ma come la mettiamo, qui da noi in Italia, si sente ripete­re, con l’articolo 11 della Costi­tuzione? L’articolo 11 venne scritto perché i costituenti ave­vano in mente le guerre di ag­gressione del fascismo. Sono quelle guerre che la Costitu­zione vieta. Significa far torto alla intelligenza e al patriotti­smo dei costituenti sostenere che essa ci impedisce di parte­cipare, con gli alleati, ad azio­ni militari tese a contrastare (oggi in Afghanistan, domani forse in Somalia e in altri luo­ghi) la diffusione del terrori­smo.

Davide Frattini : " «Operai», «stanchi» e «riconciliabili» Il ventre molle della galassia talebana "

 Talebani

KABUL — Gli «indottrinati» (in qual­che madrassa del Pakistan), gli «sconten­ti » (capi tribù convinti che il governo di Kabul abbia favorito i rivali), gli «oppor­tunisti » (considerano lo Stato debole e decidono di mettersi con il più forte), i «criminali» (attratti dai profitti del traffi­co di droga), gli «operai» (manodopera della guerriglia, costretta a scegliere chi paga uno stipendio).
E’ «la galassia talebana». Così la chia­ma l’ambasciatore Ettore Francesco Se­qui, l’italiano che l’Unione Europea ha voluto come inviato speciale per l’Afgha­nistan. Ha appena incontrato il presiden­te Hamid Karzai, è in partenza per New York e il palazzo delle Nazioni Unite, in agenda ha segnato l’appuntamento con Arsalan Rahmani, l’ex ministro integrali­sta, che da senatore tiene i contatti con i vecchi colleghi di regime. Karzai — so­stiene Rahmani — cerca di trattare con i talebani da due anni («senza riuscirci»): «Barack Obama ha danneggiato il no­stro dialogo con l’invio di nuovi solda­ti ».
La teoria non convince Sequi: «E’ la re­gola base del negoziato e un concetto fondamentale della tradizione afghana, quando si discute con un avversario, bi­sogna farlo da una posizione di forza. La strategia del nuovo generale americano Stanley McChrystal è molto intelligente: mostrare alla popolazione che le truppe internazionali sono qui per proteggerla, far capire agli insorti che c’è una deter­minazione a non abbandonare questo Paese». Perché della «galassia» fanno parte anche «gli stanchi», quei miliziani fiaccati dalla guerra che la pressione mi­litare sta spingendo alle defezioni.
Allo slogan «Takhim-e-Sol», Pace e Ri­conciliazione, lanciato da Karzai nel 2005, l’ambasciatore preferisce la parola «inclusione». «Bisogna distinguere tra chi è 'riconciliabile' e chi neppure lo vuole. Esistono due livelli. Uno è la rein­tegrazione di comandanti di medio-bas­so rango, ai quali il governo deve offrire tre garanzie: protezione dagli ex commi­litoni che li considerano dei traditori, op­portunità

Negoziati

Due livelli: reintegrazione dei comandanti di medio-basso rango e contatto politico con i più ideologizzati

economiche alter­native, la promessa che non finiranno in qualche prigio­ne per i reati commessi. L’al­tro è politico e riguarda i tale­bani ideologizzati. In questo ca­so bisogna stabilire i termini per un eventuale contatto, non voglio chiamarlo negoziato. Le linee rosse da fissare, in un processo che deve esse­re tutto afghano, sono l’abbandono del­la lotta armata e il riconoscimento della Costituzione, che non è un concetto astratto. Nella Carta afghana ci sono dei paletti molto concreti: elezioni, separa­zione dei poteri (quindi qui non potrà nascere un emirato islamico), standard minimo dei diritti umani (niente lapida­zioni nello stadio di Kabul, per capirci), uguaglianza tra uomo e donna (non si può proibire alle bambine di andare a scuola)».
Ambasciatore per l’Italia fino al 2008, quando si è presentato a Karzai nella nuova funzione di rappresentante euro­peo, il leader gli ha chiesto quale fosse esattamente il suo mestiere: «L’Europa è un po’ come l’Afghanistan — gli ho ri­sposto — ci sono varie tribù. Ci riunia­mo nelle nostre jirga, le assemblee, cer­chiamo di prendere delle decisioni im­portanti.
Il presidente mi ha detto: allora facciamo lo stesso lavoro».
Malgrado le pressioni interne in Ita­lia, Germania e Spagna per il ritiro delle truppe, Sequi considera le «tribù» euro­pee ancora compatte. «C’è la consapevo­lezza comune che l’Afghanistan può es­sere un importatore di stabilità o spro­fondare e ritornare a essere un esportare di instabilità. Non penso solo al terrori­smo. Il 90 per cento della droga prodotta qui arriva in Europa. Molti identificano questo Paese con gli anziani barbuti, ve­stiti in abiti tradizionali: tra quindici an­ni, il 75 per cento della popolazione avrà meno di vent’anni. Non possiamo per­metterci di perdere questa generazio­ne ».

Ennio Caretto : " Affondo degli Usa «Voto dubbio» "

 Hamid Karzai

WASHINGTON — Per la prima volta dal 20 agosto — giorno delle discusse presidenziali afghane — Obama ha ieri espresso dubbi sul­la regolarità del processo elettorale. E ha adombrato un cambio di strategia nel conflit­to, con l’intensificazione della caccia ad Al Qa­eda e a Bin Laden. Il presidente non ha esclu­so un aumento delle truppe americane in Af­ghanistan, chiarendo tuttavia che non ha an­cora deciso. E ha aggiunto che come «non esi­ste una scadenza per il ritiro, così l’occupazio­ne non sarà permanente». Obama ha affronta­to la questione afghana in cinque interviste ad altrettante televisioni, in vista della mega­settimana diplomatica dell’Onu e del G20 da domani a venerdì. Ha notato che le elezioni «non si sono svolte come speravo, lo scruti­nio delle schede in molte regioni ha destato delle perplessità, e sono state segnalate fro­di ». E ha auspicato chiarezza sull’accaduto, un messaggio al presidente afghano Karzai. In precedenza, il Dipartimento di Stato aveva preso le distanze da Karzai, osservando che «occorre attendere i risultati elettorali definiti­vi ».
Sul cambiamento di strategia, Obama non è stato preciso. Ha ammesso che eliminare Al Qaeda e Bin Laden non sarà un compito faci­le, ma lo ha riportato in primo piano. Ha poi manifestato riserve sull’invio di altre truppe: «Prima la nuova strategia, poi gli strumenti per attuarla», ha detto, ricordando che «come presidente devo rispondere a quelle famiglie che perdono i figli in guerra». Ma Obama po­trebbe non avere alternative: da anticipazioni del Pentagono, il comandante delle operazio­ni in Afghanistan, il generale Stanley McCry­stal, chiederebbe altri 30-40 mila uomini, d’ac­cordo con il mini­stro della Difesa Bob Gates. In uno dei mo­menti più difficili, i brogli elettorali, il presidente si trova nella situazione in cui si trovò il suo predecessore Bush in Iraq, cioè nella necessità di un surge , un maggiore impegno militare. Lo caldeggiano i repubblicani al Congresso. Il loro leader al Se­nato Mitch McConnell sta premendo su Oba­ma affinché accolga le istanze di McCrystal, come Bush accolse quelle del generale David Petraeus in Iraq. «Funzionò a Bagdad, funzio­nerà a Kabul», ha protestato il senatore, am­monendo che i prossimi mesi saranno crucia­li, determineranno la vittoria o la sconfitta del­l’America dopo otto anni. Con ogni probabilità, Obama userà l’Onu e il G20 per consultarsi sul surge , anche perché i democratici lo sollecitano a inquadrare la nuova strategia in una exit strategy. È atteso con enorme interesse il suo discorso al Palaz­zo di Vetro di New York mercoledì, che spazie­rà su tutta la politica estera americana. Il presi­dente vorrebbe aiuti concreti dagli alleati, so­prattutto per un programma di rafforzamento dell’esercito e della polizia afghani. E dietro le quinte manovra per la stabilizzazione politica di Kabul, forse tramite un governo di coalizio­ne. Ma la disponibilità degli alleati si sta ridu­cendo. A Washington, hanno suscitato qual­che apprensione le dispute in Italia dopo l’at­tentato alla Folgore: il New York Times ha scritto che Roma «discute il ritiro delle sue truppe». Una forzatura, sintomatica però del­l’incertezza in cui si dibatte l’America. Il no­stro ministro degli Esteri Frattini l’ha di fatto confutata dichiarando che all’Onu l’Italia pro­porrà una vera svolta per l’Afghanistan: «Si tratta di conquistare i cuori degli afghani», ha evidenziato «e di spingere Karzai ad assumer­si più responsabilità». Il cambio di rotta sarà oggetto degli incontri del nostro premier Ber­lusconi insieme con l’Iran. Berlusconi parlerà all’Onu mercoledì, dopo Obama e dopo il presidente iraniano Ahmadi­nejad. La posizione italiana su Teheran, ha commentato Frattini, è che conviene ancora esplorare le prospettive di collaborazione.

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