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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
20.09.2009 Guerra in Afghanistan: due analisi capovolte
Di Barbara Spinelli e Guido Rampoldi

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Barbara Spinelli - Guido Rampoldi
Titolo: «Una guerra che va ripensata - Tutti gli errori dell'Occidente per 'aiutare' l'Afghanistan»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 20/09/2009, a pag. 1-25, l'articolo di Barbara Spinelli dal titolo " Una guerra che va ripensata ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 1-4, l'articolo di Guido Rampoldi dal titolo " Tutti gli errori dell'Occidente per 'aiutare' l'Afghanistan ". Ecco gli articoli, preceduti dal nostro commento:

La STAMPA - Barbara Spinelli : " Una guerra che va ripensata  "

" Molte guerre, a cominciare dal ‘14-18, avrebbero evitato il decadere in inutili stragi, se fossero state ridiscusse nel momento in cui cominciavano a divenire non solo sanguinarie - ogni guerra lo è - ma assurde e addirittura, come disse Benedetto XV nel 1917, inutili." La guerra in Afghanistan non è nè assurda nè inutile. L'obiettivo è ben preciso: il terrorismo islamico.
Spinelli scrive : "
Conoscere chi combattiamo significa meditare sugli avversari e su noi stessi: su come l’Occidente può sventare le minacce, sui mezzi - non obbligatoriamente militari - per promuovere una pace continentale che non si limiti all’area afghana. ". Quali sarebbero i modi "  non obbligatoriamente militari "per sventare la minaccia di Al Qaeda ? La signora Spinelli potrebbe elencarne qualcuno?
"
gli insorti non sono tutti talebani, i talebani afghani e pakistani sono diversi, tutti hanno rapporti complessi o inesistenti con Al Qaeda. Non hanno agende politiche globali, ma nazionali se non tribali. Marc Sageman, ex agente Cia e studioso di terrorismo, è convinto: se la guerra è insensata, è perché Al Qaeda non è più lì e s’è indebolita: «Se Obama vuol tutelare l’America, non deve fare la guerra in Afghanistan. Gli insorti afghani e pakistani non viaggiano»: viaggia chi mette bombe in Occidente (intervista a Rémy Ourdan, Le Monde, 9 settembre 2009)." Spinelli riporta le dichiarazioni di Marc Sageman, prendendole per oro colato. A suo avviso il terrorismo di Al Qaeda non ha una base fissa, perchè è un terrorismo internazionale. Meglio lasciare l'Afghanistan e il Pakistan in mano ai talebani, infischiarsene e lasciarsi colpire da altri attentati terroristici?
"
In Europa e nei rapporti con la Russia, Obama sta mostrando intelligenza, senso della storia. Ha studiato le paure della Russia, dell’Iran, e ha studiato anche l’Unione Europea, mettendo fine alle divisioni letali che Bush aveva attizzato fra paesi fondatori e Stati dell’Est riluttanti a condivisioni esplicite di sovranità. Ha deciso di rinunciare allo scudo antimissile per promuovere la pace nel continente, non per congelare dissidi, paure, nazionalismi. ".
La rinuncia di Obama allo scudo anti missile voluto da Bush non è una notizia positiva. Nemmeno la sua politica del dialogo con l'Iran lo è. I risultati visti finora non sono incoraggianti: l'Iran continua il suo programma nucleare, sul quale non intende negoziare.
Ci auguriamo che questa sia stata l'ultima predica domenicale della signora Spinelli Chamberlain, la quale, per il bene del quotidiano torinese, migrerà al quotidiano  Il Fatto,secondo quanto anticipato dal FOGLIO di ieri.
Ecco l'articolo:

 Barbara Spinelli Chamberlain

E’ stato detto, subito dopo l’attentato a Kabul che ha ucciso sei soldati italiani, che quando si vivono lutti così grandi non son decenti le polemiche e neppure le analisi politiche. Invece è proprio nell’ora del lutto e della pietà che urge il pensiero profondo, come è nelle tenebre che più si aspira alla luce. Neanche la polemica è fuor di posto, non fosse altro perché la guerra stessa è pólemos, controversia, e sulle controversie si dibatte, specie se sanguinose. Parlarne non è offendere i morti ma onorare una missione su cui certamente anch’essi si sono interrogati.
Molte guerre, a cominciare dal ‘14-18, avrebbero evitato il decadere in inutili stragi, se fossero state ridiscusse nel momento in cui cominciavano a divenire non solo sanguinarie - ogni guerra lo è - ma assurde e addirittura, come disse Benedetto XV nel 1917, inutili.
Iniziata nel 2001 come offensiva contro lo Stato talebano che ospitava Bin Laden, la guerra in Afghanistan è giunta a questa temperatura critica, dopo 8 anni. È una temperatura che non migliora estendendo la lotta al Pakistan o aumentando soldati, come nelle prime mosse di Obama. Migliora solo a condizione che la guerra non continui così: inerte, vuota di pensiero, indiscussa, indiscutibile. Non migliora se Obama continua a definirla «necessaria», dunque votata all’immutabilità perché da essa dipenderebbero le nostre vite. Se non ora che fa più morti e non dà frutti, quando metterla in discussione? Quando esaminare i suoi difetti maggiori, che sono la vista breve, la pigrizia mentale, l’occhio fisso su Kabul anziché su un’intera regione malata? Gli europei sanno per esperienza che le inutili stragi nascono dalla paura reciproca dei nazionalismi in un più vasto continente. Eppure, proprio l’Europa è singolarmente afasica sull’Afghanistan.
In Asia centrale accade qualcosa che gli europei conoscono. Il Pakistan ha un’enorme paura dell’India, il suo confine con l’Afghanistan ancora non è riconosciuto da Kabul, e l’alleanza afghano-indiana è per esso un incubo. Per questo Islamabad vuole non solo controllare Kabul, ma prolungare una guerra che tiene l’America in zona. L’Iran teme il ritorno dei talebani sunniti ma anche il perennizzarsi di basi Usa al proprio fianco Est. La Russia teme di legittimare con negoziati il terrorismo musulmano. Pensare la guerra vuol dire considerare la geografia e la storia di questi vari elementi. È quello che non è stato fatto. Bush è andato a Kabul come se sulle mappe fosse scritto: qui ci sono i leoni, hic sunt leones. E la guerra prosegue in un paese di cui non si vedono gli uomini: simile all’Africa senza storia descritta da Hegel.
Conoscere chi combattiamo significa meditare sugli avversari e su noi stessi: su come l’Occidente può sventare le minacce, sui mezzi - non obbligatoriamente militari - per promuovere una pace continentale che non si limiti all’area afghana.
In particolare, significa capire chi sono gli insorti che si moltiplicano contro gli occupanti occidentali: cosa li muove, dopo l’iniziale benvenuto del 2001, e come oggi si dividono. Loro ci studiano, meticolosi. Noi ignoriamo abissalmente l’Afghanistan, persuasi di combattere un monolite nominato Al Qaeda. Sul terreno è da tempo che le cose non stanno così: gli insorti non sono tutti talebani, i talebani afghani e pakistani sono diversi, tutti hanno rapporti complessi o inesistenti con Al Qaeda. Non hanno agende politiche globali, ma nazionali se non tribali. Marc Sageman, ex agente Cia e studioso di terrorismo, è convinto: se la guerra è insensata, è perché Al Qaeda non è più lì e s’è indebolita: «Se Obama vuol tutelare l’America, non deve fare la guerra in Afghanistan. Gli insorti afghani e pakistani non viaggiano»: viaggia chi mette bombe in Occidente (intervista a Rémy Ourdan, Le Monde, 9 settembre 2009). Non è neppure detto che un governo con talebani ospiterebbe oggi Al Qaeda.
Esistono ormai studi minuziosi sull’insurrezione, che confermano queste analisi. Essi constatano invariabilmente un fatto: così come è stata condotta, la guerra fa solo danni perché il vero nemico non è più lì ma in Waziristan (Pakistan), e perché gli insorti non coincidono con Al Qaeda anche quando ricorrono a metodi terroristi. È un’insurrezione con molte radici, secondo Thomas Ruttig, consigliere dell’Onu e dell’Unione Europea, professore all’Università Humboldt di Berlino e all’Università di Kabul. Una serie di fattori spiega il suo dilatarsi negli anni: gli errori fatti all’inizio da Bush, che ha abbattuto Kabul lasciando un vuoto nelle aree rurali; l’omertosa complicità coi signori della guerra più corrotti e legati al traffico di droga; i ripetuti bombardamenti contro i civili; la corruzione infine del governo Karzai, divenuta più che palese nelle elezioni di agosto (Thomas Ruttig, The Other Side, Afghanistan Analysts Network, luglio 2009).
Irresponsabilmente ciechi, Washington e alleati hanno fatto propria la strategia di Karzai, e dei signori della guerra con cui Karzai si è alleato prima del voto: ogni insorto, ogni oppositore, è chiamato talebano terrorista. Ignorata è la sete di giustizia, tanto che nei territori controllati dai talebani le corti islamiche sono considerate più eque. Trascurate e minimizzate sono le sfaccettature dell’insurrezione, e la sua metamorfosi in guerra civile. Se si parla di Vietnam non è per il numero di morti (in Vietnam furono molti di più). È perché si ripete il fatale errore che consiste nell’entrare nelle guerre altrui. Perché resta del tutto inascoltata l’autocritica di McNamara, architetto della guerra vietnamita, che nel ’95 ammise in un’intervista: «Quella che combattemmo - e non ce ne rendemmo conto - era una guerra civile. Certo, esistevano influenze sovietiche e cinesi. Senza dubbio, i comunisti volevano controllare il Sud Vietnam. Ma fondamentalmente era una guerra civile. Non puoi vincere una guerra civile con truppe esterne, soprattutto quando la struttura politica del paese è dissolta». Il «problema non fu la stampa. Fu che l’America era nel posto sbagliato con la tattica sbagliata». Il male non fu discutere troppo la guerra, ma troppo poco.
La metamorfosi dell’insurrezione ha dato forza ai talebani, rilegittimandoli e diversificandoli. Oggi ci sono i radicali ma anche i cosiddetti talebani anti-corruzione, ostili a Karzai e ai suoi legami col crimine. Ci sono i talebani per necessità (forced Talebans), entrati in insurrezione quando i bombardamenti occidentali hanno colpito assiduamente i civili. Il nucleo centrale talebano è a sua volta eclettico, contraddittorio. I talebani moderati non sono inventati: l’ultima volta che si manifestarono (trenta dirigenti, nel 2005) proposero un piano in sette punti che nessun occidentale esaminò seriamente.
Il fronte anti-Karzai è per forza divenuto un possente fronte anti-occidentale, viste le cecità e acquiescenze Usa e Nato. Resta, nei più, il timore di un ritorno dei talebani e dell’abbandono di una costituzione che ha dato garanzie alle minoranze e alle donne. Ma i vincoli di un fronte variegato hanno attenuato l’integralismo religioso, pur non mutando le opinioni talebane sulla democrazia parlamentare. Non è vero dunque che in Afghanistan combattiamo in primis contro il fanatismo: l’ideologia religiosa non è attraente per la maggioranza degli insorti, specie fra non pashtun, sciiti, donne. Risultato: nel 2003 i talebani controllavano 30 distretti su 364. Alla fine del 2008 ne controllavano 164. Gli attacchi sono aumentati del 60 per cento tra ottobre 2008 e aprile 2009, e nuovi fronti si sono aperti a Nord-Ovest, in zone difficili per i talebani.
In Europa e nei rapporti con la Russia, Obama sta mostrando intelligenza, senso della storia. Ha studiato le paure della Russia, dell’Iran, e ha studiato anche l’Unione Europea, mettendo fine alle divisioni letali che Bush aveva attizzato fra paesi fondatori e Stati dell’Est riluttanti a condivisioni esplicite di sovranità. Ha deciso di rinunciare allo scudo antimissile per promuovere la pace nel continente, non per congelare dissidi, paure, nazionalismi. Quest’intelligente prudenza, ancora deve mostrarla in Asia centrale. Non può che cominciarla aprendo, sull’Afghanistan, la vera discussione che in Vietnam mancò.

La REPUBBLICA - Guido Rampoldi : " Tutti gli errori dell'Occidente per 'aiutare' l'Afghanistan "

Rampoldi scrive : " gli sforzi dell´Isaf per conquistare la fiducia della popolazione spesso venivano azzerati dall´aviazione americana, che non esitava a incenerire qualche famiglia pur di ammazzare un quadro di Al Qaeda. Quel po´ di Afghanistan che gli uni riuscivano a rimettere in piedi, gli altri investivano con le onde d´urto delle loro bombe. ". Rampoldi dipinge l'esercito Usa come ansioso di bombardare e " incenerire" famiglie afghane innocenti con la scusa di cercare qualche quadro talebano. Forse Rampoldi non se n'è accorto, ma la guerra in Afghanistan è iniziata per debellare il terrorismo islamico dei talebani e di Al Qaeda. Che cosa dovrebbero fare i soldati, una volta individuate delle cellule terroriste in alternativa a cercare di distruggerle?
"
Ma le debolezze maggiori l´Occidente le dimostrò negli interventi civili destinati a rimettere in sesto lo Stato e l´economia. Al dilagare della corruzione contribuirono tanto la rapacità di alcune imprese americane che operavano negli appalti pubblici, quanto l´avarizia dei governi europei che lesinavano i finanziamenti promessi a Kabul. " Le imprese " rapaci" sono solo Usa? E quali sarebbero? Rampoldi fa delle accuse pesanti, ha le prove di quello che dice?
Alla fine dell'articolo si legge : "
Ma non si può dire che questo governo o i precedenti abbiano esercitato una qualche influenza sulla strategia occidentale. Forse non per loro colpa, ma perché al di là di qualche meritoria invenzione (il Libano) una politica estera incisiva non è nella tradizione e nella vocazione del Paese.". Rampoldi si riferisce all'Unifil? La geniale missione per cacciare le vacche sioniste e lasciarsi sfuggire più terroristi possibile? Sì, proprio una bella invenzione. Ecco l'articolo:

 Guido Rampoldi

IN UN distretto dell´Helmand, la più turbolenta tra le province afgane, il contingente britannico decise che la vittoria poteva essere comprata. Si trattava di far arrivare al misterioso capo dei Taliban nell´area, il comandante Naqib, un´offerta che non avrebbe potuto rifiutare. Gli emissari incaricati di sondarlo tornarono con una risposta positiva: l´afgano era in vendita.
Si contrattò l´ingaggio, poi i britannici consegnarono a Naqib un voluminoso pacco di dollari, la somma pattuita. Ma gli attacchi dei Taliban non cessarono. Irati, gli acquirenti chiesero spiegazioni. E solo allora capirono: il Naqib che guidava la guerriglia non era il Naqib che avevano comprato. Quest´ultimo, effettivamente un quadro dei Taliban ma di rango basso, non era in grado di garantire quel che aveva promesso per una cifra che gli cambiava la vita.
Tra gli errori inanellati dagli occidentali in Afghanistan dal 2002, questo è tra i più comici, ma anche tra i più lievi. A ripercorrere adesso quella somma di malintesi, c´è da chiedersi che speranze di successo abbia un Occidente così proclive a spararsi sui piedi; ma è altrettanto lecito concludere che se malgrado tutto la Nato è ancora in Afghanistan, il nemico non dev´essere in condizioni migliori. Inoltre Washington e Nato hanno imparato dai loro sbagli, e usciti di scena gli uomini dell´amministrazione Bush, stanno tentando strade nuove. Le proposte cui da mesi si lavora sono le stesse che nell´Italia di questi giorni molta politica e molto opinionismo rivendono come idee proprie. Si potrebbe concludere che se l´Italia vuole dare un suo contributo, smetta di fare l´Italia: e cioè provi per una volta a discutere con serietà e magari cognizione di causa. Ma anche altrove in Occidente il dibattitto sull´Afghanistan è intorbidito da calcoli elettorali e ottusità ideologiche, o semplicemente risente degli umori ondivaghi di opinioni pubbliche che alternano irenismo e catastrofismo, così come un maniaco depressivo alterna stati di euforia e stati di prostrazione.
Fino al 2006 le società occidentali non parevano allarmate dal susseguirsi di passi falsi in Afghanistan. Né avevano prestato attenzione agli errori fatali seguiti alla vittoria sui Taliban. Confermando di considerare l´Afghanistan un campo di battaglia secondario rispetto ai propri interessi strategici, già quattro mesi dopo la dissoluzione dell´emirato l´amministrazione Bush aveva cominciato a richiamare truppe, per addestrarle all´invasione dell´Iraq nei deserti americani. I centocinquantamila soldati che avrebbero potuto stabilizzare l´Afghanistan furono dirottati in Mesopotamia. A corto di truppe, il Pentagono affidò la caccia ad Al-Qaeda, e in seguito il controllo dell´Afghanistan, ai nemici dei Taliban, i mujahiddin, guerrieri fondamentalisti piuttosto corrotti e molto brutali. In breve i mujahiddin divennero le nuove autorità del Paese. E nel 2004, quando si tennero le prime elezioni, entrarono in massa in parlamento, definitivamente legittimitati. In altre parole, la corruzione nasce innanzitutto dall´illusione, tipicamente americana, di risolvere ogni problema con le urne. Ma all´epoca nessun europeo obiettò che condurre elezioni in quelle condizioni era demenziale.
In sostanza gli europei accettarono il ruolo subalterno previsto dalla tradizionale ripartizione dei compiti, per il quale gli americani cucinano e loro puliscono i piatti. Ebbero l´incarico di stabilizzare l´Afghanistan. Inviarono a Kabul una Forza multi- nazionale con un mandato Onu: ma la tennero per anni nella capitale, vuoi perché non volevano prendersi rischi, vuoi perché il Pentagono non la voleva tra i piedi mentre liquidava a modo suo i seguaci di Bin Laden. Quando finalmente quella missione internazionale, l´Isaf, cominciò a spandersi per tutto l´Afganistan sotto la guida della Nato, fu chiaro che per obiettivi, per metodi e soprattutto per cultura militare, era in aperta contraddizione con la missione americana, Enduring Freedom.
Per esempio, gli sforzi dell´Isaf per conquistare la fiducia della popolazione spesso venivano azzerati dall´aviazione americana, che non esitava a incenerire qualche famiglia pur di ammazzare un quadro di Al Qaeda. Quel po´ di Afghanistan che gli uni riuscivano a rimettere in piedi, gli altri investivano con le onde d´urto delle loro bombe.
Inoltre i contingenti Nato presto rivelarono una certa somiglianza con gli eserciti persiani che Alessandro sbaragliava a ripetizione non lontano dall´Afghanistan. Benchè per numero sopravanzassero i macedoni in ragione di uno a tre, i persiani erano una somma di 24 nazioni, 24 lingue e 24 stili di combattimento che non riuscendo a coordinarsi fallivano le manovre più semplici. Allo stesso modo i contingenti Nato hanno differenti modalità di intervento e differenti propensioni al rischio. Malgrado sia a tutti chiaro che questa natura babelica indebolisce l´efficacia della missione, pare impossibile unificare quella disparità di condotte militari.
Ma le debolezze maggiori l´Occidente le dimostrò negli interventi civili destinati a rimettere in sesto lo Stato e l´economia. Al dilagare della corruzione contribuirono tanto la rapacità di alcune imprese americane che operavano negli appalti pubblici, quanto l´avarizia dei governi europei che lesinavano i finanziamenti promessi a Kabul. Con il risultato che nei primi due anni i poliziotti afgani ricevevano appena un quarto del salario, e saccheggiavano tutte le case che perquisivano. Inevitabile che questi esordi abbiano prodotto una polizia corrotta.
Altri errori decisivi. Gli occidentali si premurarono di formulare codici penali abbastanza "liberali", ma costruirono una giustizia remota e farraginosa, cui molti villaggi preferiscono le "corti mobili" offerte dai Taliban, o comunque da mullah itineranti. Per desiderio di Washington, all´inizio assecondato dal docile Blair, americani e britannici si dedicarono allo sradicamento di campi di papavero da oppio, la coltivazione che sfama un milione di afgani. E così spinsero migliaia di contadini nelle braccia dei Taliban (la nuova tattica americana non prevede sradicamenti, ma, grossomodo, omicidi selettivi di narcotrafficanti in flagranza di reato).
In questa baraonda Roma ebbe almeno il merito di avanzare proposte sagge (Parisi per l´unificazione delle due missioni occidentali, D´Alema per una conferenza regionale) e tuttora copre ruoli di primo piano con persone assai stimate (dal rappresentante dell´Unione europea a Kabul, Sequi, al capo di Stato maggiore Isaf, Bertolini). Ma non si può dire che questo governo o i precedenti abbiano esercitato una qualche influenza sulla strategia occidentale. Forse non per loro colpa, ma perché al di là di qualche meritoria invenzione (il Libano) una politica estera incisiva non è nella tradizione e nella vocazione del Paese. Che consoli o rattristi, gran parte dell´Europa non pare in una condizione migliore.

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