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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
11.09.2009 Libano: Saad Hariri ostaggio delle pretese di Hezbollah
Fine delle consultazioni, coalizione im­possibile

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Antonio Ferrari - Francesco Battistini - La redazione del Foglio
Titolo: «Hariri e il governo impossibile - La rinuncia di Hariri 'Niente governo per i veti di Hezbollah' - Hezbollah e Damasco tengono in ostaggio il governo a Beirut»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 11/09/2009, a pag. 12, il commento di Antonio Ferrari dal titolo " Hariri e il governo impossibile ", a pag. 14, la cronaca di Francesco Battistini dal titolo " La rinuncia di Hariri «Niente governo per i veti di Hezbollah» ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Hezbollah e Damasco tengono in ostaggio il governo a Beirut ". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Hariri e il governo impossibile "

 Saad Hariri

Strano Paese il Libano. Dolce, confuso, affascinante, ma so­prattutto imprevedibile e quasi mai affi­dabile. Dieci giorni fa, nell’ufficio del presidente della Repubblica Michel Su­leyman si erano incontrati, sorridenti e collaborativi, il vincitore delle elezioni, il filo-occidentale Saad Hariri, figlio del premier assassinato nel 2005, e il capo dell’opposizione Michel Aoun, ex gene­rale cristiano maronita, oggi alleato del­l’Hezbollah, quindi vicino a Siria e Iran. I due sembravano pronti ad accordarsi sul governo: 30 ministri, di cui 15 alla maggioranza, 10 agli oppositori, e 5 neutrali, proposti dal capo dello Stato.
Tuttavia, illudersi sulle regole demo­cratiche di un Paese che è sì una repub­blica, ma una repubblica fragile perché rigidamente feudale, è illusorio. E peri­coloso. L’opposizione ha preteso alcuni ministeri che la maggioranza voleva per sé, e dopo 73 giorni di consultazio­ni ciascuno è rimasto sulle posizioni di partenza. Le leggi dei feudi libanesi non amano i compromessi. E così ieri Hariri è salito nell’ufficio del presiden­te per gettare la spugna, sostenendo che il suo compito è diventato impossi­bile. Ora è scontato che il vincitore del­le elezioni verrà riproposto dai suoi so­stenitori, ma è altrettanto scontato che l’opposizione resterà intransigente. Per il capo dello Stato, scegliere un candi­dato per guidare l’esecutivo sarà un’im­presa proibitiva. Film già visto, ed è dif­ficile come sempre prevederne l’epilo­go, se non quello di una nuova stagio­ne di tensioni e magari di violenze.
Si pagano, tutte assieme, le illusioni che si erano affollate sul movimento nato dopo l’assassinio di Rafic Hariri, il giorno di San Valentino del 2005; le speranze nate dopo la guerra con Israe­le; le grandi aspettative su un’elezione politica, l’ultima, con i voti comprati a suon di dollari. Inventare una demo­crazia è come inventare l’etica. Senza sapere che entrambe non nascono dal nulla.

CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " La rinuncia di Hariri «Niente governo per i veti di Hezbollah» "

 Nasrallah, leader di Hezbollah

GERUSALEMME — Il partito di Dio ferma il partito di Dior. Alle due meno dieci del pome­riggio, il volto più sbiancato del solito, in mano la carta (quasi) bianca che gli era stata data due mesi e mezzo fa, Saad Hariri appare nei giardini di Beitenide. S’accendono le diret­te tv. Pochi minuti nella resi­denza estiva del presidente Mi­chel Suleiman. Una dichiarazio­ne da leggere, la solita cravatta griffata, in mano quel foglio bianco: «Visto che il mio impe­gno di formare un governo d’unità nazionale s’è scontrato con difficoltà ormai note, di­chiaro a tutti i libanesi che oggi mi consulto con sua eccellenza il presidente sull’impossibilità di questo tentativo, sperando che la mia decisione sia nell’in­teresse del Paese». Fine delle consultazioni, coalizione im­possibile. Getta la spugna l’ulti­mo, giovane erede della dina­stia Hariri e della Rivoluzione dei cedri che cacciò i siriani.
L'ultimo interprete del Liba­no occidentalizzato che al voto di giugno aveva sconfitto, 71 seggi a 57, i religiosi di Hezbol­lah. L’ultima carta giocata da americani e sauditi per contra­stare l’influenza di Teheran e Damasco. Il Libano ripiomba nel pantano istituzionale, nel vuoto politico, nel rischio di ca­os che da quasi cinque anni l’angoscia. A 39 anni, impallina­to
da amici e nemici, Hariri è costretto a mollare il colpo quando la lista dei ministri era ormai fatta.
Trovato l'accordo sulla for­mula 15+10+5, ovvero sulle ca­riche di nomina della maggio­ranza, dell’opposizione e della presidenza, d’improvviso «le stravaganti condizioni poste dalla minoranza — lamenta il premier incaricato — hanno contraddetto il risultato eletto­rale »: più duri delle scogliere sulla corniche beirutina, Hezbollah e l’alleato cristiano filosiriano Michel Aoun si sono arroccati su poltrone delicate che Hariri, invece, aveva riser­vato al druso Jumblatt.
Gl’Interni, che controllano gli arsenali sciiti. E soprattutto le Telecomunicazioni, che Aoun avrebbe voluto per suo genero Jibran Bassil: un po’ per­ché di lì passa gran parte della sicurezza nazionale, un po’ per­ché c'è da privatizzare le due grandi compagnie libanesi di telefonini. Lunedì è bastato un battito di ciglio di Hassan Na­srallah, «le cose si sono compli­cate », per far capire a Hariri e gongolare Bassil: «Il teatrino è finito » .
Settantatré giorni di rompi­capo, si torna alla casella inizia­le. Suleiman, che è abituato a queste sfiancanti trattative liba­nesi e pure lui aspettò decine di fumate nere prima di giura­re da capo dello Stato, ha due scelte: o rinominare Hariri, o ri­mandare il Paese alle urne. La prima soluzione, caldeggiata dalle diplomazie occidentali, al momento sembra esclusa dallo stesso Saad: «Ho capito che il presidente non poteva che an­dare di nuovo alle elezioni», di­ce in un tortuoso passaggio. Aprendo però alla possibilità di «rilanciare il dialogo». Un percorso obbligato: quando il dialogo s’è interrotto, l’anno scorso, sull’asfalto sono rima­sti sessanta morti.

Il FOGLIO - " Hezbollah e Damasco tengono in ostaggio il governo a Beirut "

Beirut. Saad Hariri ha annunciato il fallimento del suo tentativo di formare un governo dopo le elezioni del 7 giugno e ne ha addossato la responsabilità a Hezbollah: “Le condizioni poste dall’opposizione per la formazione del governo unitario di fatto contraddicono il risultato elettorale”. Hezbollah infatti – nonostante il pessimo risultato al voto – ha preteso sino all’ultimo di godere del diritto di veto sulle decisioni del governo. Hariri aveva proposto mercoledì al presidente Suleiman una lista di 30 ministri, 15 del movimento “14 marzo”, 10 dell’opposizione (Hezbollah, Amal e il movimento del generale cristiano Aoun) e cinque scelti dal presidente. Subito però Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, aveva annunciato il rigetto della lista e Hariri ne ha preso atto. Nelle prossime ore il presidente Suleiman dovrà decidere un nuovo incarico e molti preconizzano una nuova chance per lo stesso Saad Hariri. Lo scenario libanese torna a infiammarsi, l’instabilità politica continua a protrarsi e Hezbollah, nonostante sia fallita l’alleanza con i cristiani del generale Aoun (causa prima dell’insuccesso elettorale), continua a usare del suo abnorme peso militare e della sua forte alleanza con Iran e Siria per impedire alla maggioranza che si riconosce nella leadership di Hariri di governare il paese. Tutto può sempre accadere – come è sempre successo – nel paese dei cedri, ma lo scenario mediorientale non volge certo al sereno, come dimostrano le rivelazioni dei giorni scorsi del quotidiano kuwaitiano al Siyassa, basate su fonti di intelligence europee, secondo le quali il deposito di armi di Hezbollah esploso il 14 luglio scorso nei pressi del villaggio di Hirbet Salim, nel sud del Libano al confine con Israele – in teoria in piena zona demilitarizzata e sotto controllo formale dell’Unifil – conteneva anche armi chimiche, tanto che degli undici miliziani rimasti uccisi, tre sarebbero morti per intossicazione chimica. Secondo le stesse fonti di intelligence europee, che operano sul terreno in Libano insieme alla forza Unifil, Hezbollah avrebbe recentemente ricevuto una fornitura di maschere e altro equipaggiamento da guerra chimica, di granate e missili a corto raggio con testate chimiche, e sarebbe sul punto di ricevere anche armi biologiche. Gli equipaggiamenti protettivi da guerra chimica e biologica, sarebbe stati spedito per via aerea dall’Iran in Siria, e da qui fatti arrivare in Libano, operazione che – secondo le fonti della Difesa tedesca – indica l’intenzione di Hezbollah di usare missili a lunga gittata e armi chimiche contro Israele in un futuro conflitto. Questo, mentre lo sponsor di Hezbollah, quella Siria che avrebbe dovuto secondo le speranze di Barack Obama, dei democratici americani (e di Nicolas Sarkozy), facilitare la pacificazione dell’area, si dimostra all’opposto sempre più allineata sulle posizioni oltranziste e aggressive della Teheran di Ahmadinejad e Khamenei. Il ritiro degli ambasciatori Il 25 agosto si è infatti aperta una gravissima crisi diplomatica tra Siria e Iraq, quando il governo iracheno di Mottaki ha formalmente accusato il governo di Damasco di dare asilo e copertura a dei leader baathisti che hanno organizzato in Siria – e portato a segno a Baghdad – gli attentati che il 19 agosto hanno fatto cento morti. Filmati dei campi di addestramento dei terroristi baathisti iracheni, liberamente impiantati in Siria, proverebbero inequivocabilmente queste accuse. Piccata la risposta di Damasco, a cui è seguito il reciproco ritiro degli ambasciatori. Si sono poi aperti colloqui tra i due paesi al Cairo, mediati dalla Turchia e dalla Lega araba, che hanno un poco rasserenato il clima. A tutt’oggi però, la crisi irako-siriano è ancora virulenta perché non è stato ancora raggiunto nessun risultato concreto. Contemporaneamente, il cauto Mohammed ElBaradei, direttore generale dell’Aiea, ha formalmente accusato la Siria “di non aver ancora fornito la cooperazione necessaria per permettere all’Aiea di determinare l’origine delle particelle di uranio naturale di origine umana scoperte sul sito di Dair Alzour. La Siria non ha cooperato con l’Aiea per permetterle di verificare che, come afferma, l’edificio distrutto era di natura non-nucleare e non le ha offerto l’accesso alle informazioni, ai luoghi, agli equipaggiamenti e ai materiali richiesti”. L’aviazione israeliana bombardò nel settembre del 2007 il sito di Dair Alzour, sostenendo di avere le prove che vi operassero turbine per l’arricchimento dell’uranio fornite dal regime della Corea del nord.

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