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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - il Foglio Rassegna Stampa
02.09.2009 Iran: il terrorista Vahidi nominato ministro della difesa e acclamato da cori antisemiti
Intanto Ahmadinejad continua il suo programma nucleare

Testata:Il Giornale - il Foglio
Autore: Gian Micalessin - la redazione del Foglio
Titolo: «'Morte a Israele': l’Iran di Ahmadinejad incorona anche il ministro stragista»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 02/06/2009, a pag. 17, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " 'Morte a Israele': l’Iran di Ahmadinejad incorona anche il ministro stragista ". Dal FOGLIO , a pag. 3, l'editoriale dal titolo "  Scoprire le carte a Teheran". Ecco gli articoli:

il GIORNALE - Gian Micalessin : " 'Morte a Israele': l’Iran di Ahmadinejad incorona anche il ministro stragista "

 Ahmad Vahidi

Il presidente Mahmoud Ahmadinejad lo ripete da giorni. «Voglio scelte pulite, vogliamo - ripete parlando dei 21 fedelissimi proposti come ministri del suo nuovo esecutivo - promuovere la giustizia, preservare la dignità nazionale, raggiungere il progresso e fronteggiare i prepotenti». Sia fatta la sua volontà. Da ieri, grazie al voto entusiasta del Majlis, il parlamento iraniano, il presidente ha al fianco un ministro della Difesa all’altezza del programma. Lui si chiama Ahmad Vahidi e non è un politico qualsiasi. Lui è un super ricercato inseguito da un mandato di cattura internazionale, un generale con tanto di foto nella lista dei latitanti dell’Interpol, un ex capo pasdaran sospettato di aver progettato l’attentato del 18 giugno 1994 al centro della Comunità ebraica di Buenos Aires costato la vita a 85 persone.
Per usare le parole del procuratore argentino Alberto Nisman, titolare da anni dell’inchiesta sulla strage, il generale Vahidi - capo negli anni 90 della Brigata Al Quds, l’unità dei Guardiani della rivoluzione responsabile delle operazione speciali all’estero - è «l’elemento chiave nella pianificazione e nella decisione dell’attentato». Tra le stanze del nuovo «walhalla» iraniano dominato dai duri e puri di regime quei sospetti diventano autentici attestati di benemerenza. «Quelle accuse non hanno alcun effetto anzi giocheranno a suo favore», avvertiva Alaeddin Boroujerdi, presidente della commissione incaricata di vagliare le nomine ministeriali, rispondendo alle critiche di chi in Argentina e negli Sati Uniti definiva un insulto la nomina di un sospetto terrorista. E così, ieri, mentre i portavoce iraniani contrattaccano accusando il sistema giudiziario argentino di non aver esibito una singola prova contro il generale - l’aula del Majlis acclama la nomina del grande inquisito sottolineandone il gradimento al grido di “morte a Israele”. In quello slogan - così caro ai deputati oltranzisti - c’è la sintesi di tutti i sospetti su Vahidi, già sottosegretario alla Difesa nel precedente governo, e sulla strage di Buenos Aires. Una strage messa a segno, si dice, per vendicare il rapimento e la deportazione in Israele di Mustafa Dirani, un capo di Hezbollah responsabile, a suo tempo, della detenzione di Ron Arod, l’aviatore israeliano scomparso in Libano negli anni 80. Quei sospetti, nelle parole del capo della commissione difesa Gholam Reza Karami, uno dei più entusiasti sostenitori del generale, «sono la dimostrazione di come la nomina sia l’unica risposta possibile alle mosse della lobby ebraica».
Nell’aula del Majlis non tutti i 21 candidati di Ahmadinejad possono contare su una simile scontata approvazione. Chi non possiede un cursus honorum paragonabile a quello del «ricercatissimo» ministro della Difesa rischia di dover superare le forche caudine. Ne sa qualcosa Sussan Keshavarz, la candidata al ministero dell’Istruzione costretta ieri a rispondere alle critiche di quanti non la considerano all’altezza dell’incarico e dei religiosi che la vorrebbero depennata per il solo fatto di esser donna. Se riuscirà a convincere il Majlis la signora Keshavarz diventerà, assieme alle colleghe Marzieh Vahid Dastjerdi e Fatemeh Ajorlu designate al dicastero della Salute e a quello Welfare, una delle prime tre donne ministro della Repubblica islamica.
In attesa di queste e altre nomine indispensabili per varare il suo esecutivo Mahmoud Ahmadinejad studia come evitare le nuove sanzioni minacciate dalla Casa Bianca e dalla comunità internazionale per bloccare i suoi progetti nucleari. La platea prescelta stando alle voci sarebbe anche stavolta l’Assemblea delle Nazioni Unite. Sfruttando quell’auditorio e la presenza dei media di tutto il mondo il presidente conta di lanciare nuove offerte capaci di arginare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza. «L’Iran ha pronta una proposta aggiornata sulla questione nucleare ed è pronto a discuterne con le potenze internazionali» - ha annunciato ieri il capo dei negoziatori Saeed Jalili. Mesi fa il presidente americano Barack Obama aveva intimato all’Iran di rispondere entro fine settembre alle offerte avanzate a suo tempo dai 5 più 1, la controparte internazionale composta dai rappresentanti del Consiglio di sicurezza (Pechino, Mosca, Londra, Washington e Parigi) e da quelli del governo di Berlino.

Il FOGLIO - "  Scoprire le carte a Teheran"

Le nuove proposte sul nucleare che ieri l’Iran ha promesso di inviare alle grandi potenze “al fine di calmare le inquietudini sulla scena internazionale” puzzano di ennesimo bluff. Non è la prima volta che, alla vigilia di negoziati sul rafforzamento delle sanzioni, la Repubblica islamica finge maggiore cooperazione per guadagnare tempo e convincere Russia e Cina a usare il potere di veto all’Onu. Basta ripercorrere a ritroso il calendario della disputa nucleare. Il 21 agosto scorso, a pochi giorni da un rapporto cruciale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Teheran ha aperto agli ispettori il reattore a acqua pesante di Arak e concesso maggior accesso all’impianto di arricchimento di Natanz. Pur non riuscendo a celare la militarizzazione del programma nucleare, gli amici dell’Iran – come il direttore dell’Aiea, Mohammed ElBaradei – ora possono dire che la minaccia atomica è “esagerata”. La stessa sceneggiatura si era prodotta il 19 luglio 2008 quando, un mese dopo che il presidente americano, George W. Bush, era riuscito a strappare all’Europa il sostegno a sanzioni più severe, l’Iran si presentò a Ginevra con il numero tre del dipartimento di stato, William Burns, promettendo di “dare prova di buona volontà”. Risultato: nessuno. Una controproposta iraniana credibile non arrivò mai e la promessa di dialogo dell’allora candidato Obama fece dimenticare sanzioni e arricchimento dell’uranio. Ora il presidente Obama sembra essersi accorto dei bluff iraniani e ha fissato una scadenza – l’Assemblea generale Onu di fine settembre – entro cui la Repubblica islamica deve rispondere. Oggi si riuniscono a Francoforte i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza più la Germania e, come per magia, Teheran promette nuove proposte. Così, proprio quando Angela Merkel e Nicolas Sarkozy promuovono sanzioni più dure e l’Amministrazione Obama non è più disponibile a farsi prendere in giro, la Russia può tornare a dire che “isolare l’Iran non è la soluzione”. Se la Repubblica islamica ha davvero controproposte le metta subito sul tavolo. Anche gli occidentali giochino la carta della minaccia trasparente, dicendo chiaramente quali sanzioni sono disposti ad adottare multilateralmente o da soli. Altrimenti è solo una melina pericolosa che rischia di spingere Israele ad agire da solo contro la minaccia di una bomba nelle mani del duo Khamenei-Ahmadinejad.

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