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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
01.09.2009 Afghanistan: i talebani mozzano naso e orecchie a un contadino perchè è andato a votare
Cronache e interviste di Paolo Valentino, Mattia Bagnoli, redazione del Foglio, Pierangelo Sapegno

Testata:La Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Mattia Bagnoli - Pierangelo Sapegno - Paolo Valentino - La redazione del Foglio -
Titolo: «Mutilato dai taleban perché voleva votare - Una exit-strategy non prima del 2013 - Dottrina McChrystal»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 01/09/2009, a pag. 16, l'articolo di Mattia Bagnoli dal titolo " Mutilato dai taleban perché voleva votare " e l'intervista di Pierangelo Sapegno a Guido Crosetto, sottosegretario alla Difesa, dal titolo " Una exit-strategy non prima del 2013 ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 17, l'articolo di Paolo Valentino dal titolo " In Afghanistan una nuova strategia " e la sua intervista a Mike O'Hanlon dal titolo " Problemi molto seri ma non è il Vietnam ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo "  Dottrina McChrystal". Ecco gli articoli:

La STAMPA - Mattia Bagnoli : "Mutilato dai taleban perché voleva votare  "

I  taleban gli hanno tagliato le orecchie e il naso. La sua colpa? E’ andato a votare: tanto si paga in Afghanistan per l’esercizio democratico delle elezioni. Ma l’orribile storia di Lal Mohammed, 40 anni, umile contadino della provincia di Uruzgan, non si ferma qui. Al danno per le violenze che ha sofferto si è infatti aggiunta la beffa del completo disinteresse delle autorità: trasportato a dorso d’asino fino all’ospedale di Kabul, a Mohammed sono state negate le cure per mancanze di letti: «Torni fra qualche giorno». Ora Lal, fasciato alla bell’e meglio, vive segregato in una casupola guardato a vista dagli amici. E ha paura, poveretto, per sé e per la sua famiglia.
«Tutti gli stranieri e gente come Karzai hanno detto che dovevamo andare a votare», dice all’Independent uno degli amici di Mohammed. Poi sfodera un ghigno. «Ma guardate cos’è capitato a Lal. Credete che si occuperanno di lui ora? Non gli hanno nemmeno dato le medicine, e tocca a noi andare a procurargli del cibo». Piange Mohammed, e non solo per il dolore. La sua famiglia, dice, ha preso in prestito 400 dollari da uno strozzino per far fronte alle cure. «Ora dobbiamo restituirne 800 in tre mesi. Non so come faremo, dovremo vendere delle cose. Io non so quando potrò tornare a lavorare. In questo Paese la gente povera soffre, e non so se le elezioni cambieranno le cose. Io di certo non voterò più». Ed è esattamente quello a cui i taleban aspiravano.
Erano più o meno le 10 del mattino dello scorso 20 agosto quando Lal si è trovato davanti tre uomini con gli AK-47 spianati. Era a circa 20 minuti di camminata dal suo seggio elettorale. I “bravi” giravano a faccia scoperta, armati della certezza dell’impunità: «Siamo taleban», gli hanno detto. Poi lo hanno perquisito. Quando gli hanno trovato la scheda elettorale l’ordalia ha avuto inizio. «Urlavano - racconta Lal - e mi picchiavano con il calco del fucile: ora ti diamo una bella lezione. Sono caduto. Uno di loro mi è saltato sul petto, ha tirato fuori un coltello e ha iniziato a recidermi il naso. Ho patito un dolore lancinante, e stavo per svenire quando ho sentito un’altra lama. E altro dolore. Avevo sangue dappertutto e ho pensato: meglio morire».
Alla fine della «operazione» i talebani lo hanno lasciato incosciente sul ciglio della strada. Come monito, probabilmente. Alla fine Lal è stato raccattato da un passante, che coraggiosamente lo ha portato a dorso d’asino verso il più vicino ospedale. Ovvero a Kabul, la capitale. Dopo un giorno passato a macinare mulattiere Lal è finalmente arrivato nei pressi di una strada principale, dove, tentativo dopo tentativo, è riuscito a trovare un tassista disposto a portarlo a Kabul.
«Il viaggio sull’asino è stato davvero duro», ricorda Mohammed. «Non pensavo sarei sopravvissuto: la strada era orribile e il viso mi faceva davvero male. Quando sono arrivato in ospedale ho tirato un sospiro di sollievo. Ma mi hanno detto che non c’erano letti disponibili e di ritornare dopo qualche giorno». Ora a Lal è stata promessa un’operazione chirurgica ma nel mentre attende in un tugurio protetto da due amici. Ma è preoccupato per la moglie e gli otto figli. «Siamo undici in famiglia e io sono l’unico che sbarca il lunario. Il più piccolo dei miei bambini ha solo due anni: non so chi si occuperà di loro, che cosa gli accadrà». E ora si dispera Mohammed, perché i taleban erano stati chiari: «Non andate a votare» avevano intimato alla gente dell’Uruzgan, una provincia stretta tra Helmand, Kandahar e Zabul. «Dicevano che le elezioni erano una truffa organizzata dagli stranieri ai danni dell’Islam», racconta ancora Lal. «Ma avevo votato anche nelle elezioni precedenti e non credo che stessi facendo niente di male. Io non prendo parte alla guerra e non ho niente a che fare con gli stranieri. Guardate le mie mani: sono solo un contadino, lavoro solo la terra».
«Quello che è successo a Lal Mohammed», scrive il quotidiano britannico, «racconta il lato nascosto e brutale delle elezioni, in un Paese alle prese con una guerra sanguinaria. E aiuta a capire perché così tanta gente - in tutta la nazione, ma specialmente al sud - non è andata a votare: era semplicemente troppo spaventata».

Il FOGLIO - " Dottrina McChrystal "

 McChrystal

Il generale Stanley McChrystal, comandante della coalizione internazionale a Kabul, ha chiesto a Barack Obama, al Pentagono e al comando Nato di adottare una nuova strategia militare in Afghanistan perché quella attuale non funziona. Il generale, secondo le indiscrezioni della Bbc, ha paragonato l’alleanza militare a un toro leggermente indebolito dai ripetuti colpi del matador talebano. “La situazione è grave – ha scritto il generale in un comunicato – ma il successo è raggiungibile e richiede l’adozione di una nuova strategia, di impegno, di fermezza e di sforzi maggiori”. Il rapporto McChrystal non contiene richieste esplicite di nuove truppe, cosa che avverrà nelle prossime settimane, ma spiega che ci vorranno perlomeno tre anni prima che l’esercito afghano sia in grado di mantenere ordine e sicurezza nei villaggi che la coalizione internazionale libera dai talebani. In realtà il generale non fa altro che ribadire la necessità di ripetere la mossa riuscita in Iraq a David Petraeus, l’autore della strategia elaborata a fine 2006 per conto di George W. Bush, e contrastata dall’allora senatore Obama con cui è stata normalizzata la situazione a Baghdad e nelle province ribelli. Il presidente Obama, riconosciuto l’errore e raddoppiando il numero dei soldati americani, si era già impegnato a proteggere il popolo afghano e a convincere i talebani a partecipare al processo democratico come è stato fatto con le tribù sunnite irachene. Ma ora il suo generale gli sta chiedendo di fare di più. A Washington l’accertamento della situazione era atteso con impazienza, in una situazione in cui Obama deve barcamenarsi tra la necessità di non cedere ai talebani e la crescente insoddisfazione dell’opinione pubblica e del suo stesso partito per una guerra giunta ormai all’ottavo anno. Il rapporto di McChrystal non rasserena il presidente. Invece di parlare direttamente al paese, chiedendo un ulteriore sacrificio per sconfiggere l’ideologia jihadista, la Casa Bianca tende a minimizzare il contenuto delle raccomandazioni di McChrystal. Ma fare la guerra, fingendo di rappresentare il sentimento pacifista, è esattamente la politica che il suo generale gli ha chiesto di abbandonare.

CORRIERE della SERA - Paolo Valentino : " In Afghanistan una nuova strategia"

WASHINGTON — L’azione delle forze occidentali in Af­ghanistan assomiglia a quel­la di un toro, che continua a caricare il matador nell’are­na, ma a ogni attacco è più in­debolito dai tagli subiti. La si­tuazione è grave e solo con un netto cambio di strategia sarà ancora possibile punta­re alla vittoria sui Talebani.
Come ai tempi in cui guida­va le truppe speciali, il gene­rale Stanley McChrystal è di­retto, quasi brutale nelle sue metafore. Il comandante dei militari americani e alleati nella regione ha trasmesso ie­ri al Pentagono e alla Nato l’atteso rapporto di valutazio­ne complessiva della guerra degli otto anni, che Barack Obama considera la priorità numero uno della sua politi­ca estera.
«La situazione in Afghani­stan è molto seria, ma il suc­cesso è ancora raggiungibile e richiede una diversa strate­gia d’esecuzione, impegno, determinazione e un mag­gior sforzo di unità», ha det­to ieri McChrystal in una di­chiarazione, annunciando la fine del suo esercizio di rico­gnizione. Il rapporto del ge­nerale non contiene racco­mandazioni sulla quantità di truppe aggiuntive necessa­rie, ma il messaggio è implici­to e probabilmente McChry­stal avanzerà la sua richiesta di rinforzi, tra 10 e 20 mila uomini secondo gli esperti, direttamente a Obama nelle prossime settimane.
Con i 20 mila soldati già in­viati tra primavera e inizio estate dalla nuova Ammini­­strazione, gli Stati Uniti han­no attualmente 62 mila mili­tari in Afghanistan. Altri 6 mi­la sono in via di spiegamen­to.
Insieme alle truppe della Nato, la macchina da guerra degli alleati nel Paese arriva così a 100 mila unità. Ma ogni decisione di spiegare al­tre truppe sarà politicamente difficile per Barack Obama, nel momento in cui solo il 49% dell’opinione pubblica americana pensa che valga la pena morire per Kabul. «Nei prossimi 15 mesi — ci spiega Stephen Biddle, uno dei con­siglieri del Pentagono per la
regione — una cosa indispen­sabile da fare sarà convince­re il pubblico americano che esistono un piano e una stra­tegia in grado di funziona­re » .
È quello che il generale Mc­Chrystal con il suo rapporto intende soprattutto offrire al­la Casa Bianca. Secondo le pri­me indiscrezioni, il generale raccomanda di concentrare gli sforzi più sulla popolazio­ne e meno sui militanti isla­mici, facendo della sicurezza dei villaggi e delle popolazio­ni
locali la principale priori­tà. «Dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare, agi­re e combattere», ha scritto McChrystal nel nuovo ma­nuale di contro-insurrezio­ne, da poco pubblicato e nel quale ha chiesto alle truppe di riflettere su come si aspet­terebbero che agisse un eser­cito straniero nel loro Paese «con le vostre famiglie e i vo­stri bambini» e di comportar­si in conseguenza.
Ma il pericolo di un falli­mento rimane alto. Agosto è
stato un mese in chiaroscuro per gli americani, che sono riusciti a far diminuire drasti­camente il numero delle vitti­me civili, grazie alle nuove di­rettive di McChrystal che proibiscono i bombardamen­ti dove troppe vite innocenti sono a rischio, ma hanno vi­sto salire a 45 i loro soldati uccisi, il numero mensile più alto dall’inizio della guerra nel 2001, conseguenza degli attacchi talebani.

CORRIERE della SERA - Paolo Valentino : " Problemi molto seri ma non è il Vietnam "

 Mike O’Hanlon

WASHINGTON — «È un ottimo rapporto, sobrio e onesto. Riconosce che la situazione è molto peggiorata rispetto allo scorso anno e che i Talebani hanno una presenza piuttosto efficace in tutto il Sud del Paese, con una strategia ben definita su come aumentare la loro influenza. Ma mostra anche di capire come dobbiamo lavorare insieme agli afghani, uno a uno, per costruire le loro istituzioni, molto più di quanto non abbiamo fatto fin qui».
Mike O’Hanlon è senior fellow della Brookings Institution, specializzato in strategia militare.
Considerato molto vicino all’Amministrazione Obama, ha seguito tutto il processo di valutazione della guerra in Afghanistan.
Il tema più controverso, la raccomandazione di spiegare nuove truppe, è stato evitato nel rapporto McChrystal. Come verrà affrontato e avrà eventualmente il presidente Obama la forza politica di far passare nuovi rinforzi?
«C’è una discussione in corso tra i capi militari e la Casa Bianca. Da stratega militare, penso che nuove risorse saranno necessarie.
Non ho informazioni sufficienti per quantificare.
Non sono però sicuro né che ci sarà una richiesta precisa, né che se fosse il caso verrebbe accettata.
Dipende se il generale saprà ben spiegare perché queste forze siano così essenziali e perché pensa che in tal modo potremo avere successo. Ci saranno resistenze, abbiamo appena inviato 25 mila nuovi soldati senza vedere risultati tangibili sul campo. Ma se il presidente fosse d’accordo, è impensabile che il Congresso a maggioranza democratica gli metta ostacoli su quella che ha definito la sua prima priorità di politica estera».
L’esito dell’elezione presidenziale, con le accuse di brogli, è un rischio per il processo in corso?
«No, sono abbastanza ottimista che alla fine gli afghani faranno un buon lavoro. Ma chiunque vinca, il prossimo governo dovrà fare di più contro la corruzione » .
Come vede il parallelo con il Vietnam?
«Vorrei ricordare che in Vietnam, nel periodo più intenso, morivano 100 mila vietnamiti e 5 mila soldati americani l’anno. Avevamo una strategia molto meno sofisticata, tutta fondata sulla potenza di fuoco.
Oggi la qualità della nostra strategia è superiore.
Nonostante i gravi problemi, in Afghanistan la vita delle persone migliora.
Possiamo ancora perdere, naturalmente, ma siamo in una posizione infinitamente migliore rispetto al Vietnam » .

La STAMPA - Pierangelo Sapegno : " Una exit-strategy non prima del 2013 "

 Guido Crosetto

A vederli insieme, che scherzano con i soldati, che ci parlano e che li salutano, a vederli anche quando li abbracciano, come fossero davvero dei padri di famiglia, questi due hanno qualcosa in comune. Uno è il sottosegretario alla Difesa, Guido Crosetto, l’altro è il futuro capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il generale Giuseppe Valotto. Ogni tanto al generale è scappata pure una barzelletta. Dice Valotto: «Io non mi sento un capo. Sono solo un soldato». Forse anche Crosetto è così, con i suoi due metri di stazza che ti incombono sopra mentre fra le labbra è sempre lì che tira una sigaretta accesa. La risposta che incontrano, ha davvero qualcosa di speciale. Missione Afghanistan, truppe italiane, da Herat a Bala Morghab passando per Adraskan, dove ci sono 38 carabinieri che addestrano le forze di polizia afghane. Eppure tutto quello che verrà non è in mano alle armi. C’è la ricerca di un dialogo, i progetti di aiuto, quelli sul campo e quelli in cantiere («a Bala Morghab chiederò di investire dei soldi per costruire un mercato al coperto - dice Crosetto -: sono convinto che serviranno più quelli di tante armi»). Poi ci sono le elezioni: «Gli ultimi dati in nostro possesso dicono che avrebbe vinto Karzai. Ma, vista la realtà afghana, sono cifre che non danno certezze».
Com’è adesso la situazione in Afghanistan?
«È un momento di stallo, sia per quel che riguarda lo scontro in atto fra la parte democratica del paese e gli insorgenti talebani, sia all’interno della stessa forza democratica. Per quel che ci concerne, io sono il primo a pensare che bisogna cambiare strategia. Non basta aumentare soldati e armi. Bisogna invece far crescere la cooperazione, fare investimenti per ponti, scuole, strade, ospedali».
Quindi più soldi direttamente all’Afghanistan?
«Sì, ma gestiti dai nostri militari. Assolutamente. Se li si lascia a loro spariscono».
Ma questa politica presupporrebbe una riduzione delle nostre forze? Anche all’interno del suo governo c’è chi ha parlato di ritiro.
«No, nella maniera più assoluta. Sbaglia chi dice adesso che dobbiamo tornare. È un errore grave che ci sia qualcuno che lo urli proprio mentre qui la situazione s’è fatta più calda e i tuoi soldati stanno rischiando la vita. È mancanza di rispetto verso chi fa il proprio lavoro. E poi se un morto scatena queste richieste, loro cercheranno di farne ancora di più. Quelle sono state dichiarazioni gravi, lo ripeto».
Allora, i nostri soldati devono continuare ad andare in Afghanistan, ma dobbiamo cambiare strategia?
«Bisogna seriamente pensare a un passaggio dalla guerra alla ricostruzione democratica. Dobbiamo cercare di scendere dai carri e dai lince e costruire un mercato».
Invece, quando dovremo pensare effettivamente all’exit strategy?
«Vuole una data? Diciamo 2013. Per avere un’inversione di tendenza. Che non vuol dire andare via. Ma per allora, gli afghani dovranno essere già stati messi in condizione di poter contare sulle loro forze».
Non è così vicino il 2013...
«Lo so. Ma facciamo un passo per volta. Guardi, uno dei nostri doveri adesso è raccontare meglio quello che i nostri cittadini stanno facendo laggiù. Bisogna far vedere la verità anche a quelli che con le loro tasse finanziano la missione. Questo è un impegno che mi prendo».
Cioè? I soldati che diventano giornalisti e raccontano il loro lavoro?
«Vedremo. Non posso anticipare niente. Quello che stanno facendo i nostri ragazzi è importante. Non è solo uno sforzo militare. È anche davvero uno sforzo democratico. L’unico modo per farlo capire è l’immagine. L’idea è quella che loro stessi in prima persona testimonino il loro lavoro, che siano i soggetti di questi racconti e non solo gli oggetti. Così tutti potranno vedere: noi stiamo realizzando un’impresa, non stiamo facendo una guerra».

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