Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 31/08/2009, a pag. 1-28, l'articolo di Mario Cerci dal titolo " La 'non belligeranza' dell’Italia cerchiobottista ". Dalla STAMPA, a pag. 1-12, l'articolo di Marco Zatterin dal titolo " La mia guerra da Danzica ad Auschwitz ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 33, l'intervista di Andrea Tarquini a Marek Edelman, leader militare dell´insurrezione del Ghetto di Varsavia, dal titolo " Quel giorno imparai una cosa che: senza forza morale non si vince ". Ecco gli articoli:
Il GIORNALE - Mario Cervi : " La 'non belligeranza' dell’Italia cerchiobottista "
Mario Cervi
Che sollievo. La voce di solito vibrante - ma nella circostanza pacata - del più noto tra gli annunciatori radiofonici dell’Eiar, aveva dato il primo settembre 1939 la grande notizia. Grande, anzi grandissima, per gli italiani. Non la notizia dominante dell’attacco tedesco alla Polonia - l’inizio della seconda guerra mondiale - ma l’altra della «non belligeranza» fascista. Il Consiglio dei ministri, convocato dal Duce, aveva deciso che «l’Italia non prenderà iniziativa alcuna di operazioni militari». Mentre i panzer si avventavano verso Varsavia, noi rimanevamo fuori.
Ricordo la mia personale esultanza di ragazzo che aveva appena conquistata la maturità classica nel «Parini» di Milano. E insieme alla mia l’esultanza di tanti compagni di scuola e amici. Presto la nostra classe di universitari - 1921 - sarebbe stata arruolata al completo. Ma intanto ci godevamo quell’intermezzo, senza minimamente sapere cosa ne sarebbe stato di noi. La «non belligeranza», formula ambigua d’un Paese furbastro, era il meglio che ci potessimo aspettare dopo tanto rullare di tamburi. La propaganda del Minculpop ripeteva stancamente, mentre venivano consumate le ultime ore prima che il conflitto diventasse planetario, le parole d’ordine filotedesche. «Le proposte di Hitler per Danzica e il corridoio, leali ragionevoli ed eseguibili, lasciate stancamente cadere da Varsavia e da Londra. Inghilterra e compagni inchiodati alle loro tremende responsabilità. Inaudito egoismo». Le due grandi democrazie occidentali si schierarono, sia pure platonicamente, a fianco della Polonia il 3 e 4 settembre.
Con proclami verbali Mussolini ostentava la sua solidarietà a Hitler. Ma sapeva benissimo - glielo confermavano i rapporti quotidiani di polizia - che la gente, anche quella ostentante la camicia nera, tollerava male l’alleanza con i tedeschi. Semmai le simpatie andavano alla Francia. Del resto la pensavano così anche i vertici militari. Il maresciallo Badoglio, cui pure non difettavano le qualità di comando, non capì niente. Aveva la convinzione che la linea Maginot, eretta dai francesi a protezione del loro territorio, fosse invalicabile. Essendo capo di stato maggiore generale d’un esercito che fu impegnato quando la guerra era in corso da mesi, non profittò della lezione datagli dalla Wehrmacht, fece la guerra precedente, non la contemporanea.
Gli italiani avevano esaurito le loro riserve di patriottismo e di bellicismo con le campagne d’Etiopia e di Spagna. Anch’io, quindicenne, mi sono commosso per l’annuncio dell’Impero. Anche mia madre ha dato alla Patria la fede nuziale, imitando la regina Elena. Mussolini era un genio nel creare occasioni simboliche e nello smuovere sentimenti profondi. Ma l’idillio stava finendo. Le leggi razziali erano apparse ripugnanti - ricordo il mio dolore quando il preside del «Parini» Guido Vitali fu cacciato perché ebreo - e nei mesi che seguirono lo scoppio della guerra la commozione degli italiani andò non ai tedeschi - che insieme ai francesi si annoiavano nella drôle de guerre - ma ai finlandesi lottanti con l’Urss. L’eroe era il maresciallo Mannerheim, il cantore di quell’epopea Indro Montanelli.
L’invasato Hitler era odioso ai più. Nonostante il servile fiancheggiamento dell’informazione fascista, nessuno prestava fede alle provocazioni cui si appellava Hitler per le sue aggressioni.
Mussolini, l’uomo del «se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi» e dei cervellotici progetti di conquista - sarà umiliato, per queste presunzioni da stratega di bar, nella campagna di Grecia -, era amato in quel momento per le sue qualità di mediatore. Il guerriero insonne era diventato un paciere. Dopo il convegno di Monaco, che in sostanza decretò lo smembramento della Cecoslovacchia, ma che aveva visto lui, Mussolini, nel ruolo di autorevole intermediario, manifestazioni osannanti l’avevano accolto al ritorno. La cosa non gli era piaciuta molto. S’era dato da fare per trasformare l’Italia in una nazione di combattenti instancabili e di filotedeschi tutti d’un pezzo, e se li era ritrovati pacifisti e ammiratori delle demoplutocrazie giudaico massoniche. Quando deliberò la non belligeranza gli italiani lo ammirarono, ma per motivi opposti a quelli che lui avrebbe voluto.
Non vorrei essere frainteso. Non vorrei cioè che si pensasse, per ciò che ho scritto, all’Italia descritta dai professionisti duri e puri dell’antifascismo. Un’Italia cioè che fremesse sotto il giogo mussoliniano, ansiosa di esserne liberata. Niente di tutto questo, per la stragrande maggioranza degli italiani. E men che meno in quei primi di settembre del 1939 che illusero - che ci illusero - sulla possibilità di tenere il Paese ai margini dell’immane strage.
Non fu così, purtroppo lo sappiamo. Badoglio aveva torto, la Maginot non è servita perché i tedeschi l’hanno aggirata invadendo il Belgio e l’Olanda. Inebriato dalle vittorie hitleriane, il temporeggiatore della non belligeranza s’era trasformato in predatore: ma come lo sciacallo che s’affianca alla tigre per avere qualche boccone delle sue prede. Il primo settembre 1939 Mussolini fu popolare, il 10 giugno 1940, giorno dell’intervento italiano, si rivolse con il suo discorso tonitruante a un Paese perplesso ma non sgomento. Molti italiani non solo subirono, ma accettarono la decisione perché ritenevano, come lo riteneva il Duce, che i tedeschi avessero già vinto, e che convenisse stare dalla loro parte. Quanto si sbagliavano...
La STAMPA - Marco Zatterin : " La mia guerra da Danzica ad Auschwitz "
Rumuald Rodziewicz
Il primo soldato tedesco che ho incontrato fu uno che vedeva per l’ultima volta un polacco». Roman Rodziewicz non ricorda esattamente quando e dove avvenne, però immagina sia stato poco prima del 27 settembre 1939, giorno in cui Varsavia si arrese alla Wehrmacht. Ogni tanto la memoria gli si inceppa, allora solleva le enormi mani e si massaggia la fronte. «Prima avevo visto gli aerei, arrivavano a ondate, più numerosi di quanto riuscissimo a credere - racconta -. Piovevano bombe come grandine, miravano anche alle chiese e agli ospedali. Noi ci domandavamo come fosse possibile essere così crudeli».
Accende un’altra sigaretta, la seconda in pochi minuti, per nulla «light». Abbozza un sorriso. A 96 anni non pensa sia più il caso di smettere, assicura anzi che «il fumo lo aiuta a ricordare» e da come riparte sembra aver ragione. Rumuald Rodziewicz, Roman per tutti, classe 1913, nato a Lawskim Brodzie e cresciuto in Manciuria, tiene accesa la fiamma della mitica brigata partigiana polacca del maggiore Henryk Drobzanski, «Hubal», l’eroe della resistenza antinazista. La sua vita è un romanzo, ha girato il mondo col padre ingegnere, ha combattuto i tedeschi, è sopravvissuto ad Auschwitz e Buchenwald, s’è unito ai polacchi di Anders in Italia a fine guerra e dal 1946 vive in Inghilterra.
Centinaia di volte ho pensato che sarei morto, sono stato molto fortunato», concede. Abita un piccolo appartamento in un pensionato di Gainsborough, nel Lincolnshire. Due stanze, le insegne dell’esercito polacco, le foto dei figli, una del papa. Vista l’età, non se la passa male. «Una sigaretta?», propone. No, grazie. «Allora un sorso di tè!». Si alza, accende il bollitore, manovra le tazze e riprende il filo di quei giorni di settanta anni fa in cui Hitler scatenò la Seconda Guerra Mondiale.
«La mobilitazione in Polonia cominciò in luglio, si era capito che una guerra con la Germania era ormai imminente. Avevo già fatto la leva in cavalleria, così chiesi di entrare nei carristi. Arrivai tardi e mi lasciarono nella riserva. Con mia sorella decisi allora di andare qualche giorno a Siedlce, una breve vacanza. L’attacco fu una sorpresa. Ci richiamarono all’istante. Salii su un treno e mi presentai al mio reggimento di ulani a Wolkowysk».
Lì assistette ai primi bombardamenti tedeschi. Aveva 26 anni. Lo incaricarono di organizzare la difesa antiaerea, con una mitragliatrice pesante, due leggere e le carabine ordinarie della cavalleria. «Gli uomini si sdraiavano al suolo e sparavano; non abbattemmo neanche un aereo». La disparità delle forze e l’inusitata violenza dell’offensiva furono subito chiare. «Il 17 settembre scoprimmo che anche i russi erano entrati in Polonia: eravamo stati invasi due volte. Fummo destinati a Vilnius, almeno sinché non ci dissero di tornare indietro perché Varsavia stava cadendo».
Sulla strada della capitale, Roman raccolse le prime notizie sulle carneficine dei nazisti. «Ci dissero di case bruciate con gli ebrei chiusi vivi dentro, del tiro a segno contro chi scappava». Arrivò il contatto con la Wehrmacht, poi una Varsavia accerchiata, distrutta e sfiancata. «Hubal ci disse che l’esercito era finito e che bisognava iniziare la resistenza. Non ci togliemmo l’uniforme. Fummo i primi partigiani polacchi».
L’inverno si fece rigido, pioggia e vento gelido, cominciò a nevicare in ottobre. I «banditi di Hubal» seminarono il panico fra i tedeschi che li cacciavano senza risparmiare energie. «Dicevano che eravamo migliaia, in realtà non siamo mai stati più di cinquecento». Quando finì l’avventura, «eravamo 28». Il gruppo cadde in un’imboscata il 30 aprile 1940 nei pressi del villaggio di Anielin. Fu una trappola.
«Avevamo attraversato l’abitato senza accorgerci che c’erano i nazisti. I mezzi erano stati accuratamente nascosti e i soldati erano al coperto. Ci accampammo in un bosco a poche centinaia di metri, eravamo sfiniti. Loro ci attaccarono nel sonno. Hubal mi svegliò, disse delle cose che non riuscii a capire. Aprimmo il fuoco quasi alla cieca». Inutile. Il maggiore fu colpito nel giro di qualche istante. Niente da fare: «Con i pochi scampati tornai nella clandestinità e continuammo a combattere».
«Non mi presero per un po’», tiene a precisare il vecchio Roman. Successe il 25 agosto 1943, nella sua città natale. «Ero stato tradito. Mi legarono e mi condussero nella prigione distrettuale, in una stanza senza finestre né luce. Il pavimento era coperto da tre dita d’acqua. Non c’era da sedersi. M’ero già preso la polmonite due volte, temetti di essere spacciato. Quando mi portarono via non avevo neanche il catarro. Fortuna, no?».
La tappa successiva fu un campo di Minsk. In ottobre era ad Auschwitz, timbrato con la matricola 165642. «Una mattina ci caricarono su un vagone, cinquanta persone, strette e nello sporco. Ci avvertirono che se uno fosse fuggito tutti gli altri sarebbero stati uccisi; nessuno tentò. Arrivati al portone del lager, fummo colpiti dalle nuvole di fumo nero che uscivano dai camini. Ci spogliarono, ci selezionarono, ci diedero le casacche degli ebrei appena ammazzati. Erano ruvide, pungevano la pelle. Un tedesco disse che noi cristiani eravamo fortunati, non ci avrebbero bruciati prima di un mese. Per gli ebrei sarebbe stata questione di ore».
Invece Roman resistette per un anno - col triangolo rosso e la «P» dei prigionieri politici - fino al trasferimento a Buchenwald. Lo misero in una squadra che riparava le ferrovie bombardate. Vide Colonia, «dove la gente ci prendeva a sassate». Dresda dopo le bombe alleate. Pilsen. Salisburgo. «Il 5 maggio 1945 incontrammo gli yankee. La sera prima il comandante tedesco ci aveva chiamati. Disse che aveva avuto ordine di ucciderci e non intendeva obbedire».
L’odissea di Rodziewicz si concluse in Italia, ufficiale di collegamento, a Verona, a Porto San Giorgio, a Roma. «Ah l’Italia! - sospira come chi accarezza i pensieri migliori -, ragazze straordinarie e gente di cuore. Tuttavia non ho mai capito perché i partigiani abbiano ammazzato anche la donna di Mussolini». Nel ’46 s’imbarca a Napoli e giunge in Inghilterra, dove lavora nell’industria del metallo sino alla pensione. «Se ripenso al passato non posso dire di odiare i tedeschi - confessa -. Però quando ne vedo uno sento qualcosa che tira qui». Si tocca la pancia con una smorfia triste, accende l’ennesima paglia. Ricorda. Torna indietro sino all’Adriatico e sillaba un nome di donna. «Clara». Il fiore della sua guerra, che forse non avrebbe dimenticato nemmeno smettendo di fumare. Allunga il braccio, cerca un contatto, ha gli occhi umidi. «Ho attraversato ogni sorta di orrore - sussurra -. Sono stato un buon soldato. Ma anche molto fortunato. Molto, davvero».
La REPUBBLICA - Andrea Tarquini : " Quel giorno imparai una cosa: che senza forza morale non si vince "
Marek Edelman
«Ricordo ancora quei giorni, quelle due grandi date che vissi, come fosse ieri. Il primo settembre ‘39, gli Stuka in picchiata sulle nostre case, le Panzerdivisionen, la caccia all´ebreo... e il novembre dell´89, la caduta del Muro di Berlino. Due momenti dell´inevitabile della Storia che è imperativo ricordare per i giovani e per chi verrà. Ebbero Danzica come luogo primo, e ci rammentano che senza la forza morale non basta la più grande forza militare per vincere e piegare il mondo». Dal telefono, la voce del comandante Marek Edelman suona ancora chiara e lucida. Lui, leader militare dell´insurrezione del Ghetto di Varsavia, poi grande mente di Solidarnosc durante la Guerra fredda, racconta i suoi ricordi, di «quando si viveva lottando, tenuti in piedi solo dalla speranza».
Comandante, cosa significa per lei questo anniversario dell´aggressione nazista alla Polonia, l´inizio della seconda guerra mondiale?
«E´ un ricordo importante, non tanto per chi l´ha vissuto, ma soprattutto perché deve restare vivo come monito, per tutti quelli nati dopo, e per chi verrà dopo di noi. Il ricordo della guerra più terribile, e degli imperativi della Morale che può vincere».
Cosa ricordi personali ha di quel giorno?
«Non solo lo shock tremendo dell´aggressione. Per il razzismo, per la violenza dell´occupazione. Non bastò la sorpresa terribile di essere schiacciati dalla soverchiante macchina militare nazista. Il fatto più terribile era sentirsi per decreto degradati tutti a Untermenschen, a subumani. Noi ebrei, tutti noi polacchi, chiunque non fosse tedesco e nazista. E´ terribile quando un popolo, come fecero allora i tedeschi, tratta tutti gli altri come esseri subumani».
Come guardava allora ai tedeschi?
«Per me era terribile anche vedere come la macchina di sterminio nazista avesse tolto ogni umanità anche a loro. Tornai a Varsavia, nascosi e posi in salvo i miei pochi averi, vidi morire tanti amici e cari o seppi della loro morte, mi unii subito alla Resistenza. Vennero anni di lotta, eppure vedevamo che tra i nemici spietati che combattevamo c´erano anche piccoli, semplici esseri umani, ridotti alla disumanità dalla tirannide. Ridotti da uomini a macchine di morte e nemici: o noi o loro».
Quando entrò nella Resistenza?
«All´inizio di ottobre. Vidi tanti amici cadere attorno a me, vidi le deportazioni, pensai di non avere scelta».
Pensava a una lotta disperata, o quando cominciò a pensare che la Germania nazista avrebbe potuto perdere?
«Io, come resistente, mi sentivo sempre diviso tra due sentimenti opposti. Ero schiacciato dal pessimismo. E al tempo stesso ero convinto che i tedeschi avrebbero perso la guerra. Pessimista, perché la potenza della macchina militare nazista faceva paura. Ma a Hitler mancava la forza morale. E senza la morale non puoi vincere. Questa era la speranza».
Poi venne la Guerra fredda. E l´89, la caduta del Muro, come il ‘39 ebbero Danzica come luogo.
«Sì, e questo è un fatto simbolico molto importante. Di quei due grandi momenti, Danzica resta per il mondo il simbolo della lotta per la libertà. Il simbolo di lotte che cambiarono il mondo. Grazie a quelle lotte, viviamo oggi in un mondo che nel ‘39 e nell´89 potevamo solo sognare. Oggi ho grande rispetto dei tedeschi. Specie dagli anni ‘70, si sono mostrati capaci di scelte coraggiose. La Germania è diventato un altro paese, parte importante di questo nuovo mondo che 70 o 20 anni fa sembrava solo utopia e sogno».
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