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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
29.08.2009 Un americano su due non crede più a Obama
Analisi di Alberto Ronchey, cronaca di Paolo Valentino

Testata: Corriere della Sera
Data: 29 agosto 2009
Pagina: 1
Autore: Alberto Rochey - Paolo Valentino
Titolo: «La dura realtà di una presidenza - Un americano su due non crede più a Obama»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 29/08/2009, in prima pagina l'editoriale di Alberto Ronchey dal titolo " La dura realtà di una presidenza ", a pag. 6, l'articolo di Paolo Valentino dal titolo " Un americano su due non crede più a Obama ". Ecco gli articoli:

Alberto Ronchey : " La dura realtà di una presidenza "

 Alberto Ronchey

E allora, davvero Yes we can ? L’ele­zione alla Casa Bianca di Barack Hussein Obama fu accolta con favorevoli aspettative, ma insieme con diffuse ap­prensioni. La presidenza degli Stati Uniti, per la pri­ma volta, toccava in sorte a un afroamericano tra vi­cende senza precedenti pa­ragonabili nella storia del­la macrosocietà multietni­ca, da tempo anche super­potenza definita «gendar­me internazionale». Oba­ma appariva non meno abile che duttile, ma desti­nato a prove impervie, ora oggetto di riflessione du­rante la vacanza di Mar­tha’s Vineyard. Nell’agenda presidenzia­le, da gennaio il primo compito è stato fronteggia­re la crisi drammatica del sistema finanziario e la cor­relata recessione. Si discu­te ancora sull’entità dei fon­di che il bilancio federale ha investito già, o dovreb­be investire, per il riassetto dell’economia e contro la disoccupazione di massa, considerando anche i costi della controversa riforma sanitaria. Suscitano qual­che inquietudine i dichiara­ti malumori del gruppo Bric — Brasile, Russia, In­dia, Cina — contro il dolla­ro come valuta di riserva mondiale. Fra numerose in­cognite, restano le mutevo­li quotazioni del petrolio, mentre il tentativo di conci­liare l’economia e l’ecolo­gia sfida complicazioni gra­vose. Potrà Obama supera­re la crisi, o sarà la crisi a sopraffare Obama?
Sulla scena politica inter­nazionale, un’estate di san­gue ha preceduto nell’Af­ghanistan dei talebani e di Al Qaeda l’elezione presi­denziale, mentre comporta non pochi rischi l’annun­ciato ritiro delle truppe americane dalle città ira­chene, benché graduale. Nell’Estremo Oriente, conti­nua il paranoico ricatto nu­cleare di Pyongyang. Nel Medio Oriente, persiste il
non meno paranoico nazio­nalismo nucleare degli ayatollah fra le turbolenze dell’Iran panislamista, mentre la guerra tra israe­liani e arabi palestinesi ri­mane cronicizzata. La di­plomazia di Obama vorreb­be almeno attenuare le ver­tenze con la Russia, speran­do in una realistica semista­bilità internazionale: im­presa complessa, malgra­do il patto firmato da Me­dvedev e Obama per la ridu­zione dei loro arsenali ato­mici nei prossimi sette an­ni o più. Non è ancora valu­tabile, intanto, la prospetti­va del G2 Usa-Cina.
All’interno della macro­società, Obama deve salva­guardare la coesione o con­vivenza multietnica e multi­religiosa fra 305 milioni di cittadini censiti, «bianchi» o afroamericani, ispanici, asiatici, amerindi, mentre variano le stime sulle mas­se d’immigrati clandestini. All’origine degli Stati Uniti, come si ricorda spesso, i governati erano appena 4 milioni, primaria comuni­tà senza il minimo possibi­le paragone con la società imponente, complessa e tu­multuosa nelle megalopoli dei nostri giorni.
Obama, talento pragma­tico e versatile, si professa ispirato nel suo fresco ame­ricanismo dalla storica figu­ra di Thomas Jefferson, non solo redattore della Di­chiarazione d’Indipenden­za, ma dotato di straordina­rie versatilità persino extra­politiche. Fra l’altro: «Sape­va calcolare un’eclisse, mi­surare un campo, progetta­re un edificio, domare un cavallo, suonare il violino, danzare il minuetto». Ma di fronte alle sfide innume­revoli del nostro tempo, sa­rebbe necessario manife­stare ben altre versatilità, su misura delle crisi e con­flittualità su scala globale. Per ora, l’ultimo sondaggio Gallup sulla popolarità del neostatista segnala un mo­desto 50 per cento. E poi? Tutto può ancora accadere.

Paolo Valentino : " Un americano su due non crede più a Obama "

 Barack Obama

WASHINGTON — Barack Obama riesce a scherzarci, otti­mista e un po' tracotante. Si è perfino inventato un neologi­smo, spiegando che a Washin­gton in agosto tutti hanno il wee wee . Traduzione indisponi­bile, ma in soldoni il presiden­te voleva dire che il film lo ha già visto: nell'agosto 2007 tutti lo davano per spacciato di fron­te alla corazzata Hillary, un an­no fa molti vedevano la sua marcia minacciata da Sarah Pa­lin. Sappiamo com'è andata.
Ma forse Obama farebbe be­ne a preoccuparsi, lui così at­tento e sensibile alle analogie della Storia. E a prendere sul se­rio l'ultimo sondaggio Gallup, che ha visto l'indice di gradi­mento per la sua azione scen­dere al 50%. In febbraio, poche settimane dopo l'insediamen­to, la stessa campionatura gli dava un cosiddetto «job appro­val » del 69%.
Gallup non è da sola. Altre rilevazioni nazionali, dal Pew
Center a NBC/Wall Street Jour­nal, hanno segnalato una cre­scente insoddisfazione degli americani, scontenti di come Obama stia gestendo la vicen­da della riforma sanitaria e pie­ni di dubbi anche sulla sua po­litica economica, visto che i se­gnali di stabilizzazione non in­cidono ancora sulla vita delle persone. L'unica consolazione viene dalla politica estera, do­ve il gradimento rimane piutto­sto alto.
A impressionare di più è pe­rò la velocità della discesa, che ha pochissimi precedenti da quando Gallup cominciò a son­dare l'opinione degli america­ni su Harry Truman. Se la ten­denza continuasse e il gradi­mento del presidente scivolas­se sotto il 50% prima di novem­bre, Barack Obama avrebbe re­gistrato il terzo più rapido de­clino dalla Seconda Guerra Mondiale. Peggio di lui hanno fatto solo Gerald Ford e Bill Clinton. Il primo s'incartò in appena 3 mesi, colpa il perdo­no accordato al predecessore Richard Nixon. Al secondo ne furono sufficienti 4 pieni di pa­sticci, tra la fallita riforma sani­taria, l'ipocrisia dei gay nell' esercito e un taglio di capelli da migliaia di dollari, con l'Air Force One fermo sulla pista in attesa che il parrucchiere finis­se l'opera.
Ma è il resto del racconto a
dover mettere in allarme un presidente, che in luglio convo­cò un gruppo di storici in gran segreto alla Casa Bianca, preoc­cupato dall'ipotesi che la guer­ra in Afghanistan diventi per lui ciò che la guerra del Viet­nam fu per Lyndon Johnson. Ci vollero infatti 5 anni a Dwight Eisenhower per scen­dere sotto la barra del 50%, ne occorsero 3 ai Bush padre e fi­glio.
Lo stesso Johnson e perfino Nixon si godettero per oltre 2 anni l'approvazione di più di metà degli americani. Meno be­ne Ronald Reagan: toccò la so­glia di rischio dopo 10 mesi, complice un'economia che ci mise un po' prima di reagire bene alla
supply side economi­cs , l'economia dell'offerta che fu la cifra della sua rivoluzio­ne.
Ma come ricorda anche Gal­lup, ogni cattiva notizia ha il suo risvolto positivo. E perfino un crollo vertiginoso nei primi mesi delle presidenza non è ir­reversibile. Anzi. A dimostrar­lo sono proprio Reagan e Clin­ton, entrambi protagonisti di
una lunga rimonta che li portò a facili rielezioni, rispettiva­mente nel 1984 e nel 1996.
Alla Casa Bianca, a parte il
wee wee obamiano, la conse­gna è calma e gesso: «La popo­­larità - ha spiegato il portavo­ce Bill Burton - non è qualcosa da mettere su uno scaffale e ammirare. E' facile rimanere popolari a Washington se non fai nulla». Come dire che il ca­pitale politico di un presidente va speso. Il problema di Oba­ma è che finora, si veda lo stal­lo sulla riforma sanitaria, sta spendendo in anticipo senza grandi risultati. E come avver­te l'adagio, chi paga avanti ri­schia di mangiar pesce marcio.

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