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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
26.08.2009 Elezioni afghane, è testa a testa fra Karzai e Abdullah
Cronaca di Andrea Nicastro, analisi del Foglio

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Andrea Nicastro - La redazione del Foglio
Titolo: «Elezioni afghane, è testa a testa. I talebani fanno strage nel Sud»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 26/08/2009, a pag. 14, due articoli di Andrea Nicastro titolati " Elezioni afghane, è testa a testa. I talebani fanno strage nel Sud  " e " Abdullah guida gli orfani di Massud alla battaglia per la sopravvivenza  ". Dal FOGLIO a pag. 3, l'editoriale dal titolo " La progressione della democrazia ". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Andrea Nicastro : " Elezioni afghane, è testa a testa. I talebani fanno strage nel Sud "

 Hamid Karzai

KABUL — A cinque giorni dal voto, la Commissione eletto­rale afghana ha finalmente da­to i primi conteggi parziali. Do­po mezzo milione di schede esa­minate, circa il 10 per cento del presunto totale, i due principali contendenti sono testa a testa. Il presidente Hamid Karzai è al 40,6% e lo sfidante Abdullah in­segue con il 38,7%. Appena 10mila voti tra uno e l’altro. Il tempo però non è un fattore in­differente. L’Afghanistan ha bi­sogno di una guida legittima e rispettata al più presto.
A dimostrarlo ancora una volta il clamoroso attentato di ieri nel centro di Kandahar, la capitale del Sud. Cinque auto­bomba sono esplose contempo­raneamente facendo crollare di­versi edifici. Almeno 40 minu­scole botteghe sono andate di­strutte. Donne e bambini tra le vittime. A tarda notte si cercava ancora tra le macerie e il bilan­cio provvisorio parlava di 41 morti e 66 feriti. Obbiettivo del­l’attacco sembrerebbe essere una società di costruzioni che impiega soprattutto ingegneri pachistani. Ma è un’ipotesi che si fatica a conciliare con le sim­patie politiche dei talebani, i primi sospetti. Si pensa anche a una questione di appalti e tan­genti, proprio nella città dove Wali Karzai, fratello del presi­dente, è gran tessitore di allean­ze e collettore di voti. Il suo aiu­to alla causa di famiglia non è ancora entrato nel conteggio delle schede elettorali di ieri. Se rimanesse il testa a testa tra Kar­zai e Abdullah sarebbe necessa­rio andare al secondo turno. Ma quando? E soprattutto que­sti risultati sono significativi? L’enorme quantità di reclami ri­schia di allungare i tempi: più di 800 le denunce di brogli, di queste 54 sono state definite «molto serie».
Se ci sono voluti 5 giorni per contare il 10% delle schede quanto ci vorrà per cancellare dubbi e accuse? L’inverno in Af­ghanistan arriva presto. A fine
ottobre alcuni passi sono già chiusi e intere comunità isola­te. Il dato presentato ieri appa­re poco rappresentativo a livel­lo nazionale. Sono state conteg­giate schede da un po’ tutto il Paese, ma in percentuali diver­se, molto dal Nord considerato più favorevole ad Abdullah e poco dal Sud che si aspetta ab­bia votato in massa Karzai. Da Kandahar, ad esempio, la città presumibilmente filo-Karzai sfi­gurata dall’attentato di ieri, so­no state messe nel computo ap­pena l’1,8% delle schede. Solo lo 0,5% da Herat dove i talebani hanno di nuovo sparato ai sol­dati italiani. Dal Panshir, inve­ce, cuore dell’alleanza tagika che ha espresso la candidatura di Abdullah, sono state incluse nei dati provvisori già il 49% delle schede disponibili. In so­stanza la metà dei voti conteg­giati.
Lo sfidante non ha aspettato i parziali per contestare l’intero processo elettorale. Nel giardi­no della sua casa ha presentato ai giornalisti pacchi di schede prevotate a favore di Karzai, fo­to e video che mostrano scruti­natori aprire le urne e riempirle di schede, soldati e poliziotti
che scortano camion «elettora­li » far sparire le scatole prove­nienti dai seggi e sostituirle con altre. «In alcune province — accusa Abdullah — l’intera macchina statale si è messa al servizio della vittoria del presi­dente Karzai. La truffa più co­mune è stata anche la più sem­plice. In distretti dove, secondo gli osservatori, ha votato appe­na il 10% dei cittadini, sono sta­te aggiunte schede per arrivare al 45-50%. Vogliamo che i voti delle aree con clamorose irrego­larità vengano messe in quaran­tena, ignorate. È mio dovere protestare perché il voto degli afghani venga rispettato. E pos­so dire fin d’ora che non li lasce­rò soli. Non accetterò compro­messi, tenterò tutte le vie legali e, se necessario, andrò fino in fondo».
Che cosa intenda per «fino in fondo» è stato chiesto a più riprese. «Siamo solo nella pri­ma fase della contestazione — ha spiegato — poi ci sarà la se­conda e la terza». Fino alla vio­lenza? «Invito alla calma e alla responsabilità», ha rassicurato Abdullah con un sorriso che la­sciava intendere tutt’altro.

CORRIERE della SERA - Andrea Nicastro : " Abdullah guida gli orfani di Massud alla battaglia per la sopravvivenza  "

 Abdullah Abdullah

KABUL — L’oftalmologo Abdullah è l'ultima pallottola a disposizione de­gli orfani del comandante Massud. Sconfitto lui, il loro gruppo rischia di sfaldarsi e, un domani, ritrovarsi a ma­ni nude davanti all’avanzata talebana. Hanno resistito con le armi a sovieti­ci, traditori e talebani, potrebbe an­nientarli la politica. Abdullah non è l’uomo forte del gruppo. È sempre stato il «portavoce» e ora si trova a fare da ancora di salvez­za. Il salto per l’ex chirurgo di guerra che saliva e scendeva dalle montagne a dorso di mulo è difficile. Ma tra il nucleo storico dei compagni del co­mandante ucciso due giorni prima del­l’attacco alle Torri Gemelle, era l’uni­co a potersi dire pashtun, almeno per parte di padre.
Gli orfani di Massud hanno punta­to su Abdullah ricordando i bocconi amari che dovettero inghiottire alla Conferenza Internazionale di pace a
Bonn. Nel 2001 in Germania, come ad una Yalta afghana, vennero tracciati i confini dei diversi potentati, veri o presunti, del Paese. L’Afghanistan de­ve essere governato da un rappresen­tante dell’etnia maggioritaria pashtun, come è sempre stato storica­mente, era il mantra degli esperti Usa a Bonn. La vittoria degli ex mujahed­din del Fronte Unito venne «mutilata» e gli americani imposero come leader lo sconosciuto Hamid Karzai. Da allo­ra gli orfani di Massud hanno conti­nuamente perso posizioni.
Younis Qanuni, il capo politico rico­nosciuto alla morte del Leone del Pan­shir, è passato da ministro dell’Inter­no, a ministro dell’Istruzione a presi­dente del Parlamento. Lo stesso Ab­dullah da ministro degli Esteri a disoc­cupato. Esautorati, spostati, destituiti capi di Stato Maggiore, generali, com­missari
di polizia. Il nerbo del gruppo di «orfani» è formato da comandanti guerriglieri. Dopo Bonn avrebbero dovuto essere assorbiti nel nuovo esercito, ma al tempo stesso sradicati dalle loro valli e privati di truppe omogenee per et­nia o legame familiare. Il progetto era di costruire un esercito nazionale al servizio dell’autorità centrale.
In gran parte è stato un fallimento. In questi otto anni di presidenza, Kar­zai ha continuamente tentato di erode­re
i poteri locali a vantaggio di quello centrale. Qualcuno dice anche a van­taggio della suo gruppo etnico o addi­rittura della sua stessa tribù. In ogni caso ha minacciato, combattuto, ma anche blandito e ripescato «signori della guerra». Comunque autonomi, comprabili o affrontabili uno a uno. Il vero «Fronte» era retto dai tagiki di Massud con la loro riserva di carri ar­mati ancora nascosta in montagna.
«Se perdiamo queste elezioni — so­stiene Abdul Afis Mansur, presidente del Consiglio Politico, un 'pensatoio' che raggruppa 60 tra partiti e Ong del nord tagiko — Karzai tenterà di spaz­zarci via. Non avremo poltrone nei mi­nisteri o nei governatorati; gli ufficiali superiori di polizia ed esercito verran­no marginalizzati e le leve del coman­do andranno in mani pashtun. Po­tremmo ancora difenderci con la vice presidenza del maresciallo Fahim, ta­giko ed ex comandante di Massud. Ma sarà difficile. E quando torneran­no i talebani dovremo prendere in ma­no le zappe. Dopo trent’anni di guerra non possiamo rinunciare alle armi».
Per i tagiki è l'ultima spiaggia, la battaglia della sopravvivenza come en­tità politica e forza militare. La speran­za di Abdullah è che la Comunità Inter­nazionale non accetti un presidente in­debolito da una bassa affluenza e da evidenti brogli.
Abdullah vorrebbe che le diploma­zie obblighino Karzai ad un compro­messo, se non proprio ad un passo in­dietro. Si potrebbe modificare la Costi­tuzione e creare un posto da primo mi­nistro su misura per lui. Ad uno l’auto­rità, all’altro il comando. «In questo Paese quando si smette di discutere — avvisa Mansur — si comincia a mo­rire » .

Il FOGLIO - "  La progressione della democrazia"

Le elezioni a dorso di mulo in Afghanistan sono differenti, sotto molti aspetti, dalle elezioni nella Confederazione svizzera. Si possono anche trascurare, per ipotesi di studio, gli sciami di seminaristi islamici che setacciano il paese alla ricerca di elettori da punire mozzando loro il naso, le orecchie e le dita, o le bombe interrate davanti alle porte dei seggi per scoraggiare il voto. L’Afghanistan resta un paese che ha centri di potere diversi e in conflitto tra loro, ci sono il sud pashtun e il nord delle altre etnie, e poi le affiliazioni tribali, le pressioni dagli stati confinanti e da quelli lontani, il livello disperante di corruzione, una lunga guerra civile che ha stremato tutti, il narcotraffico. Eppure, con tutto questo, l’Afghanistan è una democrazia e condivide tratti essenziali con le altre democrazie nel mondo. Primo: a Kabul è già possibile un accordo per la spartizione del potere che sia anche rappresentativo della volontà degli afghani. Secondo: il sistema si autocorregge. Se Karzai non soddisfa più gli elettori, emergono altri leader, che lo tallonano da vicino. Ieri la Commissione elettorale indipendente ha diffuso i dati sul primo 10 per cento di voti: Abdullah Abdullah al 38 per cento stringe sul presidente, al 41 per cento (ma è troppo presto per giudicare ed è sperabile che non si vada al ballottaggio). Sulla stessa strada, Baghdad è più avanti, anche se un tempo era considerata un caso irrecuperabile: ora il premier al Maliki teme una coalizione di ex alleati sciiti e sta pensando l’impensabile, un grande accordo elettorale con gli ex rivali sunniti. E’ la laboriosa progressione della democrazia

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