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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero - Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
24.08.2009 Elezioni in Afghanistan: tra i due litiganti perde Obama
Analisi di Carlo Panella, Paolo Valentino, Arrigo Levi, Mattia Bagnoli. Intervista a Marco Bertolini di Giampaolo Cadalanu

Testata:Libero - Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica
Autore: Carlo Panella, Paolo Valentino, Arrigo Levi, Mattia Bagnoli, Giampaolo Cadalanu
Titolo: «Obama rischia un Vietnam a Kabul - L’incubo di Lyndon Johnson. E Obama convoca gli storici - Fratelli d'Italia a Kabul - Noi inglesi uccisi dai burocrati»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 24/08/2009, a pag. 1-21, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Obama rischia un Vietnam a Kabul ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 12, l'articolo di Paolo Valentino dal titolo "  L’incubo di Lyndon Johnson. E Obama convoca gli storici  ". Dalla STAMPA, a pag. 1-23, l'articolo di Arrigo levi dal titolo " Fratelli d'Italia a Kabul " e, a pag. 9, l'articolo di Mattia Bagnoli dal titolo " Noi inglesi uccisi dai burocrati ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 7, l'intervista di Gampaolo Cadalanu al generale Marco Bertolini dal titolo " Noi italiani resteremo a lungo come le altre truppe dell´Alleanza ". Ecco gli articoli:

LIBERO - Carlo Panella : " Obama rischia un Vietnam a Kabul "

 Carlo Panella

Le elezioni presidenziali in Afghanistan di giovedì scorso minacciano di portare a uno scontro esiziale tra gli alleati degli Usa e della Nato: uno dei candidati infatti, Abdullah Abdullah, ha accusato il rivale - e presidente uscente - Hamid Karzai di brogli infami, mentre e ancora per giorni non si saprà chi sia il vincitore e queste accuse si esalteranno a vicenda. Uno scenario pericolosissimo per un Barack Obama che ha vinto le sue elezioni promettendo agli americani - e al mondo - un immediato ritiro dall’Iraq e una rapida vittoria in Afghanistan, ottenuta riversandovi le truppe americane disimpegnate dalla Mesopotamia. Dopo sette mesi di presidenza dobbiamo invece registrare che in Afghanistan «la situazione è grave e sta peggiorando» (Mike Mullen, capo di Stato maggiore Usa), mentre in Iraq il disimpegno voluto da Obama, incentiva una ripresa terroristica devastante. La strategia di Obama scricchiola dunque pericolosamente, perché i fatti dimostrano che non è vero che un incremento di impegno militare in Afghanistan porti risultati apprezzabili, mentre il decremento dell’impegno militare in Iraq sta portando a risultati disastrosi. Questo, per una ragione semplice: Obama sbaglia puntando sull’escalation militare, perché errata è la sua analisi di fondo del nemico che gli Usa - e la Nato - contrastano in Iraq come in Afghanistan: un nemico che non è una grande «banda di terroristi, di militari irregolari» (come pensano i democratici di qua e di là dall’Atlantico), ma una aspirazione islamica, largamente popolare, verso una società basata sulla sharia e sul fondamentalismo; una visione politica che produce terrorismo (e ammirazione per i terroristi). Obama nel suo discorso del Cairo del 4 giugno scorso ha ampiamente dimostrato di non avere la minima idea di questa componente eversiva dell’Islam contemporaneo, come si è visto con gli ayatollah fondamentalisti iraniani, da lui esaltati come interlocutori affidabili, che invece si son subito dati a maciullare in “nome di Allah” gli oppositori interni. L’esito contrastato del voto presidenziale in Afganistan di giovedì dimostra che il problema del controllo del paese non è solo militare, ma essenzialmente è politico e che su questo fronte la Nato sta perdendo pericolosamente terreno. Abdullah (tagiko, ma con sangue pashtun nelle vene), che oggi accusa Karzai di brogli e gioca con lo spettro della guerra civile, è espressione della Alleanza del Nord (tagiki, uzbeki, turkmeni, minoranze hazara), mentre Karzai dovrebbe essere espressione della maggioranza - relativa - dei pashtun, ma in realtà non riesce a giocare questo ruolo (se non dentro la cinta urbana di Kabul). A suo tempo, nel 2002, gli Usa e la Nato vinsero la battaglia di terra contro i Talebani appoggiandosi sulle armate della “Alleanza del Nord”, ma poi intronarono a Kabul il pashtun Karzai (dal nullo peso militare e dal piccolo seguito politico), in omaggio alla tradizione che vuole in Afghanistan solo un leader pashtun possa garantire il comando dello Stato. Passati 7 anni, si è visto che Karzai non è riuscito a riscuotere consenso tra le popolazioni pashtun, tra i quali i Talebani riescono invece a vivere e a riscuotere quel tanto di consenso che gli permette di opporsi con successo alle truppe Nato. Insomma, oggi Abdullah a Kabul può denunciare brogli - probabili - perché sa che il suo avversario è debole presso la sua base elettorale e che tenta di imporsi barando (e comprando voti a man bassa). Evoluzione, dunque, ancora incerta di uno scenario drammatico, con un unico effetto positivo: la crisi tra Abdullah e Karzai dimostra a Obama che il nodo irrisolto del conflitto afghano è tutto ed essenzialmente politico, di capacità della leadership afghana, alleata agli Usa, di riscuotere consenso popolare più che militare. Esattamente come in Vietnam 40 anni fa (là dove il ruolo dei pashtun l’avevano i buddisti, se vogliamo), dove due presidenti democratici, Kennedy e Johnson, pensavano - come oggi Obama - che il problema fosse essenzialmente militare. Con l’esito che sappiamo, e che speriamo Obama non replichi.

CORRIERE della SERA - Paolo Valentino : " L’incubo di Lyndon Johnson E Obama convoca gli storici  "

 Lyndon Johnson

WASHINGTON — Una sera dello scorso giugno, Barack Obama invitò in segreto a cena alla Casa Bianca un gruppo di storici americani. Tema centra­le della serata, lo ha rivelato ie­ri il New York Times , la preoc­cupazione del presidente che la guerra in Afghanistan prenda in ostaggio la sua presidenza, diventandone l'unico criterio di valutazione. «Ci ha detto di avere un problema — ha rac­contato uno dei partecipanti —, non può semplicemente voltare le spalle all'Afghanistan e uscirne, ma capisce anche che esso costituisca un grave pericolo per la sua amministra­zione » .
A cosa pensasse il presiden­te, lo rivela più di ogni altra co­sa la presenza fra gli invitati di
Robert Caro, autore di una mo­numentale biografia di Lyndon Johnson. Sensibilissimo alle analogie della Storia, anche Obama si rende conto che i rife­rimenti ai predecessori non so­no sempre e necessariamente quelli che si vorrebbero e si per­seguono. E che nei suoi oriz­zonti possibili non sono solo i prediletti Lincoln e Roosevelt, ma appunto anche il meno glo­rioso Lyndon Johnson, un pre­sidente che voleva rifare l'Ame­rica con il progetto della Great Society e in parte vi riuscì, ma affondò in una guerra all'este­ro che non poteva vincere.
Come Johnson, anche Oba­ma vuole cambiare radicalmen­te gli Stati Uniti, sull'onda dello slogan che «non si deve spreca­re una crisi»: dunque rilancio, ma anche tutte insieme sanità, emigrazione, energia pulita, di­ritti dei gay. Ma come Johnson col Vietnam, anche Obama è al­le prese con una guerra eredita­ta dal predecessore, che ha or­mai fatto sua e si presenta più complessa che mai.
Proprio ieri, l'ammiraglio Mi­chael Mullen, capo delle forze armate americane, ha definito «seria e in peggioramento» la
situazione sul terreno in Afgha­nistan. Ma soprattutto si è det­to turbato che il sostegno popo­lare alla guerra stia rapidamen­te diminuendo. Secondo una ri­levazione Abc/ Washington Post , a otto anni dall'inizio del­le ostilità meno del 50% degli americani è convinto che Ka­bul sia una causa per cui valga la pena di combattere. Eppure, ancora la settimana scorsa, Obama ha definito quella af­ghana «una guerra di necessità non di scelta, perché chi attac­cò l'America l'11 settembre complotta per farlo nuovamen­te ». Nelle stesse ore, il capo del­la Casa Bianca combatteva col Congresso a Washington una battaglia politica, incruenta, ma altrettanto difficile, per la ri­forma sanitaria. Per quanto fortissime, le ana­logie non devono naturalmen­te prendere la mano. In Viet­nam, nel momento di massimo sforzo bellico, c'erano 500 mila soldati americani, quasi tutti di leva. In Afghanistan, dopo l'in­vio dei 21 mila di rinforzo deci­so da Obama, siamo a 68 mila uomini, tutti arruolati volonta­riamente.
L'impatto emotivo della guerra in Indocina, così il
New York Times , «affondava più profondamente nella società americana, toccava più fami­glie e coinvolgeva persone che non volevano».
Ma i sondaggi d'opinione parlano chiaro. E il tempo non è dalla parte del presidente. Se la nuova strategia afghana (maggiore sforzo militare con­tro i talebani, maggiore aiuto al­le popolazioni, sostegno alla ri­costruzione politica) non pro­ducesse risultati nei prossimi mesi, sarebbe complicato per Obama tenere tutto insieme. E allora sì che la sindrome di Johnson graverebbe minaccio­sa su di lui.

La STAMPA - Arrigo Levi : " Fratelli d'Italia a Kabul "

Credo che non ci sia inno nazionale che non impegni i cittadini a «morire per la patria»: anche l’Inno di Mameli, come tutti sappiamo, afferma che «siam pronti alla morte», senza riserve possibili. Ma è lecito e giusto chiedere ai nostri ragazzi in uniforme di «morire per Kabul»?
I sostenitori di Neville Chamberlain, e della falsa pace sancita dal «Patto di Monaco», si chiedevano se fosse ragionevole «morire per Danzica», e rispondevano di no. Si sbagliavano, perché non vedevano, al di là di Danzica, il mostruoso disegno di dominio hitleriano. Il vecchio Pétain, dopo l’ingresso a Parigi della Wehrmacht e delle SS, giudicando ormai persa la guerra, riteneva inutile ogni forma di resistenza, e giudicava non impossibile che la Francia si vedesse riconosciuta dalla Germania nazista una qualche forma di «condominio» europeo.
Anche lui non sapeva quel che faceva. Ma, si dirà, Kabul è assai più lontana da noi di Danzica. Sennonché, le distanze, al giorno d’oggi, si sono incredibilmente accorciate. È un fatto che i fanatici islamisti (so bene che ogni religione ha conosciuto simili estremismi), che hanno le loro basi a cavallo fra Afghanistan e Pakistan, se mai si impadronissero del potere nel Pakistan, entrerebbero anche in possesso di armi nucleari e, oggi o domani, di missili capaci di raggiungere l’Europa, quel «mondo cristiano» che giurano di voler distruggere. Ma ci riesce molto difficile credere che riescano a tanto. E poi, non c’è l’America che è sempre pronta a far morire i propri «Gis», anche per noi?
Non so se meriti proporre una risposta a simili ragionamenti. Mi sembra che non ne valga la pena. Non saranno poche nostre parole a spiegare, a chi non l’ha ancora capito, quanto sia pericoloso il mondo in cui viviamo. Passiamo oltre, e teniamoci a quello che ci raccontano, del nostro corpo di spedizione, dei nostri ragazzi a Herat, le corrispondenze dall’Afghanistan che leggiamo sui nostri giornali. Dopo le votazioni, siamo stati felici di apprendere che nella provincia controllata dai soldati italiani è stato «mantenuto il controllo», forse meglio che in qualsiasi altra provincia; che solo una novantina di seggi su 1014 sono rimasti chiusi; che anche in una vallata dove i taleban avevano dato fuoco a due seggi la popolazione ha messo in fuga gli aggressori e riattivato i seggi prima ancora che «noi intervenissimo», come era nostro dovere.
Questo è un po’ anche merito nostro: o meglio, dei nostri ragazzi che abbiamo mandato in Afghanistan sapendo bene a che cosa andavano incontro, e ritenendo fosse giusto mandarli, per il bene della nostra patria, italiana ed europea. Io credo che si possa usare una parola come Patria nella convinzione di esprimere un concetto ancora vivo nell’anima della stragrande maggioranza degli italiani, anche se c’è chi sembra aver dimenticato la nostra storia, chi non ricorda che cosa fu, per la libertà di tutti, il Risorgimento, che cosa furono le Cinque Giornate di Milano - un grande moto del popolo «lumbard» - o che cosa fu la Resistenza. Ci tormenta il dubbio di non essere stati capaci di trasmettere queste memorie, questi valori, alle nuove generazioni. E non riusciamo a capire quale spirito animi quegli uomini investiti di responsabilità politiche precise che il popolo ha loro affidato con libere elezioni, i quali sembrano divertirsi a irridere a questi valori.
Ma pensiamo di conoscere gli stati d’animo degli uomini di queste nostre unità militari, che sanno di rischiare ogni giorno la vita, e che hanno perso dei loro compagni nell’adempimento del proprio compito, del proprio dovere. Pensiamo che l’Italia non sia, per loro, un nome vuoto di significato ma un nome che riempie l’anima di immagini e di sentimenti. Forse, se gli si chiedesse se siano «pronti alla morte», risponderebbero semplicemente che questo stanno facendo. Chi ha fatto una guerra sa bene che nessuno ha voglia di morire. Forse, se si è disposti a correre il rischio estremo, è per lealtà verso i propri compagni, e per un amalgama complesso di visioni e ricordi di cui è difficile definire i confini nel tempo e nello spazio: memorie di storia o di famiglia, immagini della propria città e del proprio Paese, rispetto per le libere istituzioni che ci siamo dati.
Se i nostri soldati sono stati «mandati al fronte», un fronte così lontano, la decisione è stata presa con coscienza, per volontà comune dei popoli che oggi ci sono fratelli. Abbiamo affidato loro la nostra sicurezza, il nostro futuro, e il bene anche di altri popoli, a partire da quello al quale il loro impegno (anche in tante opere di ricostruzione) e il loro sacrificio possono assicurare nuove e migliori condizioni di vita, e, lo speriamo, un domani di pace. Per loro, e per tutti noi.

La STAMPA - Mattia Bagnoli : " Noi inglesi uccisi dai burocrati "

 Bernard Gray, dall’ex consulente del Ministero della Difesa inglese

I funzionari del Ministero della Difesa britannico (MoD) sono talmente incompetenti - e le commesse del settore militare tanto in ritardo - da mettere a repentaglio la sicurezza e l’efficacia delle forze armate del Regno Unito. In altre parole: i 206 caduti britannici sul fronte afghano sono in parte dovuti all’inadeguatezza dell’equipaggiamento fornito alle truppe da politici e mandarini del Mod. Armi e mezzi che, oltre a essere inadatti alla bisogna, costano molto e quando vengono consegnati sono già obsoleti.
E’ la devastante conclusione del rapporto elaborato dall’ex consulente del Ministero della Difesa Bernard Gray su incarico dell’ex ministro John Hutton. Il dossier, che avrebbe dovuto essere reso pubblico lo scorso luglio, è stato invece insabbiato dal nuovo ministro Bob Ainsworth - con il benestare del premier Gordon Brown - perché giudicato troppo critico. Il Sunday Times è però riuscito a procurarsene una copia e lo ha sbattuto ieri in prima pagina. Suscitando un terrificante polverone. Anche perché, come scrive il domenicale del Times, «il rapporto Gray è scritto in una lingua piana, comprensibile a tutti gli elettori, privo cioè di quei termini contorti usati di solito dai burocrati». «Com’è possibile che ci si impiega 20 anni per comprare una nave, un aereo o un carroarmato?», si domanda «pianamente» Gray. «Perché - continua - costa sempre almeno il doppio di quanto preventivato? E peggio ancora: perché, alla fine, i mezzi non sono mai all’altezza del compito richiesto? Mistero». La sezione «equipaggiamento» del MoD viene giudicata tanto inefficiente che varrebbe la pena «privatizzarla». Il costo di tanta sciatteria, anche in termini economici, è poi giudicato insostenibile: il bilancio del ministero della Difesa, stima infatti Gray, è in rosso per non meno di 35 miliardi di sterline. «L’esecutivo - attacca - sta mettendo a rischio la nostra capacità di condurre operazioni complesse». La situazione è tanto grave che, secondo l’ex consulente oggi divenuto uomo d’affari di successo, «il ritardo accumulato in campo navale impedirebbe oggi alle forze britanniche di combattere un conflitto come quello delle Falkland». Il rapporto - elaborato con i conti alla mano e attraverso interviste con figure chiave del MoD - conclude infatti che, in media, l’equipaggiamento viene consegnato con cinque anni di ritardo.
La «bomba» Gray, che segue di poco le dichiarazioni del generale Richard Dannatt, l’ex capo delle Forze Armate che ha lamentato la scarsezza di mezzi in Afghanistan, in particolare elicotteri, rischia di divenire l’ennesima gatta da pelare per il premier Gordon Brown. Che, al contrario, ha sempre sostenuto che le truppe britanniche hanno a disposizione l’equipaggiamento adeguato. Liam Fox, ministro-ombra della Difesa, ha usato parole di fuoco: «Non è possibile che il governo seppellisca un rapporto di tale importanza, che anzi dovrebbe essere pubblicato per intero. Questo dimostra quale sia l’urgenza di cambiare la leadership del Paese».
Ma non è tutto. Secondo un sondaggio pubblicato dal Mail on Sunday, infatti, oltre due terzi dei britannici si dicono oggi contrari alla presenza delle proprie truppe in Afghanistan e non ritengono che combattere quella guerra renda il Paese più sicuro. E di chi è la colpa? Di Gordon Brown, ovviamente. Il 72% ritiene infatti che il premier stia gestendo «molto male» o «abbastanza male» la guerra.

La REPUBBLICA - Giampaolo Cadalanu: " Noi italiani resteremo a lungo come le altre truppe dell´Alleanza "

 Marco Bertolini

KABUL - Marco Bertolini non si fa illusioni. Ci vorrà tempo, molto tempo, prima che i soldati dell´Isaf possano lasciare l´Afghanistan. Il capo di Stato maggiore della missione ci tiene a sottolinearlo con forza: abbandonare il Paese oggi sarebbe da irresponsabili.
Generale Bertolini, le elezioni hanno cambiato qualcosa? I Taliban sembrano quasi spariti, come si spiega?
«Azioni contro il voto ce ne sono state, ma in effetti non c´è stato il coordinamento che si poteva temere, con azioni combinate. Alcuni si sono fatti spaventare, ma nel complesso non ci sono stati attacchi dirompenti e gli afgani hanno votato regolarmente. I Taliban aspettano di capire che succede».
Però si parla di brogli elettorali diffusi, di voto non significativo. E´ d´accordo?
«Credo che non si possa misurare questa democrazia con il nostro metro. Ci sono state le elezioni in un Paese che combatte contro un´opposizione armata. Questa è la democrazia a misura dell´Afghanistan».
Parliamo di Isaf. Gli olandesi vogliono andar via, i tedeschi pure, in Inghilterra la linea governativa è contestata duramente e i soldati sono molto scontenti. Persino il ministro La Russa ha cominciato a parlare di exit strategy. E´ vicina la fine della missione?
«I singoli Paesi che fanno parte della coalizione sono nazioni sovrane, ognuna decide per sé. Ma io credo che non sia possibile abbandonare adesso l´Afghanistan. Lo Stato afgano non può farcela, ha bisogno di sicurezza, di risorse, di governance. E tocca ad altri stati, più ricchi, dargli le risorse. Credo che la comunità internazionale dovrà prevedere una presenza lunga di personale straniero, magari non solo o non sempre militari».
Trenta o quarant´anni, come sostiene il capo di Stato maggiore britannico? O semplicemente "molto tempo", come ha detto alla Cnn il generale americano Mike Mullen?
«Consideri che cinque anni è la durata possibile di un governo. Sì, credo che ci vorranno tempi lunghi. Interrompere oggi il sostegno all´Afghanistan sarebbe da incoscienti».
In caso di contestazione dei risultati elettorali, se la popolazione si dovesse dividere su linee etniche, esiste un piano di emergenza dell´Isaf?
«L´ordine pubblico interno è un problema del governo afgano. Proprio queste elezioni hanno dimostrato che fra Isaf e istituzioni c´è collaborazione e integrazione. Ma bisogna ribadirlo: sono loro che comandano in questo Paese. Il pericolo di divisioni, in realtà, potrebbe esserci anche dalle nostre parti… Insomma, finché c´è un legittimo esecutivo afgano, e finché non viene sostituito da uno nuovo, la nostra resta una missione di sostegno. Non dimentichiamoci che già adesso appoggiamo una delle due parti in conflitto: il governo afgano che combatte contro gli insorti».
Si è parlato del problema di convivenza fra Isaf ed Enduring Freedom: due missioni diverse per scopo e modalità. Si è anche detto che l´atteggiamento "troppo muscolare" statunitense dentro Enduring Freedom spesso spazzava via i passi avanti di Isaf. E´ cambiato qualcosa con la nuova amministrazione di Washington?
«Adesso sembra che tutti abbiano scoperto l´acqua calda. Le direttive che chiedevano di evitare "danni collaterali" ci sono da tempo. Il problema è che le grandi strategie poi devono essere affidate al soldatino sul campo. A quello si deve chiedere un sacrificio: corri un rischio in più, non coinvolgere i civili. Ma questo non è sempre possibile».
Questo vale anche per Enduring Freedom?
«Posso rispondere solo per Isaf, ma credo che l´atteggiamento sia cambiato. La parola d´ordine adesso è: proteggere i civili».

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