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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - la Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
23.08.2009 Afghanistan : Rappresaglia talebana. Omicidi e dita mozzate
Cronache e analisi di Alessandra Muglia, Giordano Stabile, Mimmo Candito, Giampaolo Cadalanu

Testata:Corriere della Sera - la Stampa - La Repubblica
Autore: Alessandra Muglia - Giordano Stabile - Mimmo Candito - Giampaolo Cadalanu
Titolo: «Le attiviste afghane 'Saremo l’avanguardia' -Rappresaglia taleban. Omicidi e dita mozzate - Integralisti, moderati e 'uomini d'onore'»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 23/08/2009, a pag. 13, l'articolo di Alessandra Muglia dal titolo " Le attiviste afghane «Saremo l’avanguardia»". Dalla STAMPA, a pag. 2, la cronaca di Giordano Stabile dal titolo "  " e la sua intervista a Philippe Morillon, capo degli osservatori europei, dal titolo " Ho chiesto ai due candidati di evitare una guerra civile ", a pag. 3, l'articolo di Mimmo Candito dal titolo " Integralisti, moderati e 'uomini d'onore' ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 4, l'articolo di Giampaolo Cadalanu dal titolo " 'Così abbiamo fermato i kamikaze' le strategie dei soldati italiani ". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Alessandra Muglia : " Le attiviste afghane «Saremo l’avanguardia» "

 Diana e SabrinaSaqeb, attivistecdel movimento femminista afghano

Se la legge che legittimava lo stupro coniugale tra gli sciiti alla fine è stata ammorbidita, gran parte del merito è loro. Di Diana Saqeb, la regista-attivi­sta 27enne, leader del movimento fem­minista afghano che ad aprile ha pro­mosso a Kabul il corteo delle donne, il primo dal 1973, preso a sassate in no­me della «giustizia islamica». E di sua sorella Sabrina, 28 anni, la più giovane parlamentare eletta quattro anni fa nel­la Jirga, impegnata per tre mesi nella estenuante discussione in aula degli emendamenti alla legge che ha solleva­to l’indignazione internazionale. Nel nuovo testo al posto del diritto allo stu­pro coniugale viene sancito quello di negare il cibo alla moglie che rifiuta di avere rapporti sessuali.

«Nel merito non è un gran risultato, lo so, ma è la prima vol­ta che le donne afgha­ne si fanno sentire, scendono in piazza e partecipano alla discus­sione su come modifi­care una legge che le ri­guarda: questo è il grande successo» insi­stono quasi all’uniso­no le due sorelle, con­sapevoli che, come ha detto ieri il rappresen­tante speciale Usa per Afghanistan e Pakistan Richard Holbrooke, «l’Afgha­nistan è il Paese con la cultura più tra­dizionalista del mondo e la situazione delle donne non può cambiare dal gior­no alla notte».

Nessuna delle due però si sente mo­bilitata su una battaglia di genere. «Ho votato Abdullah e non una delle due donne, perché non le ritengo persone capaci» spiega Sabrina. Anche le pri­me donne ministro in Iran non hanno il suo sostegno: «È uno show propa­gandistico a uso e consumo dell’Occi­dente, sono donne conservatrici, una di loro, da parlamentare, ha anche vo­tato contro una legge sulla famiglia a favore della donna» si scalda. Sono al­tre, per loro, le donne che stanno gio­cando un ruolo propulsore nel cambia­mento della società: «Quelle che han­no votato sfidando i mullah, anche a costo della vita, come ha detto ieri una ragazza su una tv locale. Poi ci sono le giovani che vanno a scuola nonostan­te le minacce dei talebani. Una delle studentesse di Kandahar sfregiate con l’acido a novembre ha detto che ritor­nerebbe sui banchi anche se venisse colpita 100 volte». Battagliere anche le donne parlamentari, protagoniste di un bel documentario di Diana: le si ve­de mentre tutte e 67 lasciano l’aula in segno di protesta contro i deputati ma­schi che le ignorano.

Diana non sa se questa forza e que­sto coraggio di molte donne afghane possa funzionare da catalizzatore e da esempio per altre battaglie in altri Pae­si: «Noi non viviamo in una società normale», constata con una punta di amarezza. Più ottimista Sabrina: «Le donne afghane possono dare un appor­to su due livelli: le più istruite, quelle che lavorano con le agenzie internazio­nali, hanno accumulato un bagaglio che possono trasmettere. Poi c’è l’espe­rienza delle donne abituate a lottare». Lei in qualche modo si è anche ritaglia­ta un ruolo di ambasciatrice: «Sono sta­ta in Iran alla vigilia delle elezioni, in­coraggiavo la gente ad andare alle ur­ne. Sono stata in India la scorsa setti­mana per un discorso sulle giovani ge­nerazioni in Afghanistan: coglievo sor­presa in platea mentre raccontavo la faccia meno nota del mio Paese, altra dal bivio 'o uccidi o vieni ucciso'. Ma più di tutto sorprendeva forse che per l’Afghanistan fosse una donna a parla­re, e pure parlamentare»

La STAMPA - Giordano Stabile : " Rappresaglia taleban. Omicidi e dita mozzate "

 Talebani

L’indice intinto nell’inchiostro è diventato il simbolo delle elezioni afghane. «Corrette, eque ma non dappertutto libere», come ha certificato ieri l’Unione Europea, che ha dispiegato la più importante missione di controllo internazionale sul campo. Non sono state libere certamente al Sud, dove l’indice annerito non è prova di coraggio e correttezza della consultazione, ma di infamia. I taleban avevano detto che avrebbero mozzato le dita a chi votava, e ieri sono arrivate le prime rappresaglie. Due elettori della provincia di Kandahar, denuncia Nader Nadery, della Fondazione per le elezioni libere ed eque in Afghanistan, sono stati mutilati, davanti a testimoni.
Le forze si sicurezza afghane e le truppe Nato della missione Isaf hanno dispiegato il massimo sforzo per vincere la battaglia nel Sud pashtun roccaforte dei taleban, ma l’esito è incerto, le voci che filtrano sull’affluenza sono pessimiste, si parla del 10, 15 per cento al massimo, e il prezzo di sangue cresce ogni giorno. Se nel giorno delle elezioni erano state uccise 26 persone negli attacchi terroristici, altre 11, tutti membri della Commissione elettorale indipendente (Iec), sono state giustiziate per vendetta dagli islamisti, subito dopo il voto. Esecuzioni mirate, prova che il controllo del territorio, nelle zone pashtun, è ancora in bilico, con le forze dell’Isaf che sono riuscite a sventare appena in tempo una serie di attentati a catena nelle province di Ghani e Kandahar: sono stati bloccati undici uomini legati al comandante Jalaluddin Haqqani e sequestrati centinaia di chili di esplosivo.
La Commissione è anche sotto attacco politico e in apparente stato di confusione. Le informazioni che filtrano a singhiozzo hanno innescato uno scontro sui numeri tra Karzai e Abdullah che è rientrato solo dopo le pressioni dell’Unione Europea, e del capo degli osservatori Ue, il generale Philippe Morillon, che li ha invitati «alla calma e alla responsabilità». Il problema è capire quando saranno rilasciati risultati certi e certificati, ma prima bisogna dirimere le centinaia di reclami sulle presunte irregolarità. Secondo Morillon, si dovrà attendere fino a metà settembre. Martedì dovrebbero uscire i primi dati parziali di alcune province del Nord e alcune del Sud, per non dare vantaggi a nessuno.
Anche il dato sull’affluenza è ancora incerto, ed è decisivo perché, se davvero l’affluenza è stata così bassa al Sud, dove Karzai costruì la sua vittoria nel 2004, per il presidente sarà difficile la riconferma, e perlomeno inevitabile il ballottaggio. Per gli osservatori Ue sul posto, bersagliati dai razzi dei taleban durante il voto, non si andrà oltre il 15 per cento, mentre alcuni uomini di Karzai, come il governatore di Kandahar, la sparano grossa, dichiarano ufficialmente che si è superato il 60. La missione Ue nel suo rapporto ha anche denunciato un numero anomalo di tessere elettorali, cresciute di milioni in pochi mesi, da 12 a 17.
E a qualcuno sorge il dubbio che la lunghissima verifica serva in realtà a prendere tempo e a mantenere il potere. «Ritengo sia inopportuno che la Commissione abbia deciso di non divulgare i dati per tutto il tempo che a quanto pare intende prendersi», ha osservato per esempio Glenn Cowan, di Democracy International. E nel lento tempo afghano, con la capitale ipnotizzata ieri sera dalle cantilene dei mullah per l’inizio del Ramadan, rischia di annacquarsi l’inchiostro della democrazia che la gente mostra con fierezza.

La STAMPA - Mimmo Candito : " Integralisti, moderati e 'uomini d'onore' "

 Mimmo Candito

Se c'è uno che ha pochi dubbi su come andrà a finire la guerra con i taleban è lui, il generale pakistano Ahmed Gul. Alto, magro, la pelle scura, e ancora dritto come solo un militare di carriera sa essere, il generale non è però un giurato imparziale, perché dei taleban lui è il padre, l'inventore, il primo finanziatore, e il loro primo armiere. Li creò quando - a metà degli Anni 90 - comandava i servizi segreti pachistani e, avuta notizia di questo gruppo di giovani studenti d'una scuola coranica della provincia di Kandahar, che si mostravano capaci di portare ordine nel nome di Allah, contenendo a suon di fucilate lo strapotere e i soprusi dei signori della guerra, scelse di puntare su di loro per farne lo strumento diretto del condizionamento strategico di Islamabad sull'intero Afghanistan.
Fece in modo che, «casualmente», quel centinaio di giovanotti guidati da un mullah orbo e invasato di nome Omar (che l'occhio l'aveva perduto nella guerra contro i sovietici), trovasse nelle montagne di Kandahar un gigantesco e «anonimo» deposito d'armi e li trasformò in un vero esercito, senza divisa certamente e però con una forza d'urto irresistibile, grazie alla fede mistica che li segnava e li invasava.
I taleban («seminaristi») a quel tempo erano una banda ogni giorno più folta che si mostrava come una qualche armata Brancaleone d’Oriente, ma in realtà era compatta e omogenea, tutti pashtun del Sud afghano, tutti misticamente segnati dall’appartenenza ad Allah, tutti indifferenti alla morte che li avrebbe portati nel paradiso della loro fede. Era questo che li faceva imbattibili, capaci di sconfiggere gli scalcagnati eserciti dei «signori della guerra» locali. Alla fine, tuttavia, la loro arma vincente, quella che diede loro a poco a poco, di vallata in vallata, il controllo dell’intero Afghanistan fu il principio di stabilire un rigido ordine sociale e politico là dove prima dominavano l’insicurezza, la corruzione, lo stupro, i rapimenti, gli abusi. I taleban portavano la pace sociale, ch’era una pace basata sulla sharia e sul ritorno mistico al Medio Evo, ma era comunque la pace; e in una società arcaica e tradizionalista questa garanzia era vincente sulla paura e l’angoscia quotidiane.
Quando i B-52 americani li sconfissero, nel novembre 2001, i taleban si divisero in tre gruppi. Uno se ne andò alla macchia dietro Omar e il fantasma di Bin Laden, un altro (più sparuto) consegnò le armi e si fuse con il nuovo potere del pashtun Karzai, il terzo si ritirò e si mimetizzò tra la gente dei villaggi del Sud e del Sud-Est, protetti dal codice d'onore tribale che condanna il tradimento degli ospiti del villaggio.
Il nuovo potere che s'installò a Kabul non ebbe mai la forza di allargare il proprio controllo al di là della capitale, per troppa corruzione e troppi pochi dollari da investire nel crearsi alleanze locali, e nel tempo l'insofferenza per la presenza oppressiva dei soldati stranieri, i kafir invasori, si è andata mescolando con l'insofferenza per i soprusi e gli abusi che i signorotti locali avevano intanto ripreso a praticare ovunque, impuniti, impunibili, sugli stenti della vita quotidiana. Le centinaia, e poi migliaia, di morti ammazzati dai bombardamenti indiscriminati degli americani hanno riacceso il «nazionalismo» afghano - tre guerre aveva combattuto l'Impero britannico in Afghanistan, e tre volte si era dovuto ritirare sconfitto - e hanno ricostituito quel brodo di coltura nel quale progressivamente è germinata la nuova offensiva taleban, collegata e fusa con quel secondo gruppo di ribelli che si erano rifugiati sulle montagne con il mullah Omar e avevano intanto continuato la loro guerra.
Oggi i taleban non sono più un «esercito» compatto e ordinato, ma piuttosto una galassia di formazioni mistico-militari che - pur nel comune obiettivo strategico di scacciare l'invasore ateo - hanno un legame molto lieve con un ipotetico comando centrale, e si muovono con sufficiente autonomia, legati tatticamente alla singola realtà dei villaggi nella cui vita quotidiana si fondono. Così ci sono aree taleban nelle quali - alla maniera vecchia - la musica è proibita, e altre dove invece è permessa; e ci sono aree dove le ragazze non possono andare a scuola, e altre in cui il Consiglio degli anziani ammette questa «modernità». Ci sono aree, e comandanti, radicali, per esempio Jalaluddin Haqqani che ha importato gli shaiid suicidi («I nostri B-52», dice), ed è sicuramente collegato con Al Qaeda, e però aree, e comandanti, riformisti, negoziatori, come il mullah Brehadar, che predica l'intendimento con i «kafir invasori» per ottenere la loro partenza dall’Afghanistan.
Gul si è mostrato sempre sicuro: «Vinceranno i taleban. Quando l’Armata Rossa tentò la conquista dell’Afghanistan, in una battaglia sulle montagne i mujaheddin catturarono quattro soldati russi e li scuoiarono come capretti. L’Armata Rossa si è dovuta ritirare dall’Afghanistan, e i taleban sono gli eredi di quei mujaheddin della montagna. Io lo so come finirà questa guerra».

La REPUBBLICA - Giampaolo Cadalanu : " 'Così abbiamo fermato i kamikaze' le strategie dei soldati italiani "

 

KABUL - Nell´incubo, alla guida della Toyota Corolla c´è un uomo non troppo anziano, solo, sbarbato di fresco. L´auto ha le sospensioni abbassate, sembra molto carica. Ai soldati si rizzano i capelli sotto l´elmetto. Gli esperti parlano di terroristi suicidi perché «la parola kamikaze definiva i giapponesi che si gettavano sulle navi Usa, soldati contro altri soldati». E invece dietro il volante della berlina più comune d´Afghanistan c´è «un fanatico, allucinato dal lavaggio del cervello, manipolato nelle convinzioni e ormai dissociato dalla realtà, che non vede l´ora di farla finita», dice un ufficiale.
Scorgere in tempo il volto del nemico, sempre più nascosto dopo la fine della Guerra fredda, per gli analisti è un rompicapo. Serve una raccolta di informazioni capillare e allargata: rapporti interni, relazioni delle pattuglie, notizie di stampa e di altre «fonti aperte», informazioni confidenziali e tanta capacità di distinguere. «Secondo le segnalazioni, a Kabul il giorno del voto sarebbero arrivati quattrocento suicidi. Ma erano allarmi ridondanti. Ne sono arrivati quattro: uno è stato abbattuto dalla polizia afgana, due si sono fatti saltare in aria senza uccidere nessuno, il quarto è stato preso vivo», racconta un esperto militare.
Ma per agire in tempo serve la conoscenza del nemico, cioè un ritratto dell´aspirante martire: «In genere è un uomo illetterato, il che significa plagiabile», racconta l´analista: «I capi della rivolta non si sacrificano, anche perché sono pochi a saper pianificare le offensive. Il suicida può essere reclutato in moschea fra i fedeli più entusiasti, oppure può essere il militante anti-occidentale più acceso. Viene isolato, indottrinato, manipolato. Le tecniche preferite sono i digiuni e la ripetizione ossessiva di alcuni versetti del Corano, ma dalle autopsie dei suicidi risulta anche l´uso di hashish o oppio. Prima dell´attentato, l´aspirante martire fa le abluzioni rituali e si sbarba, per presentarsi puro nell´aldilà». Tutte le pressioni provocano un effetto di estraniamento dalla realtà e il prescelto vuole uscirne il prima possibile. «La letteratura sui kamikaze giapponesi racconta che dopo la resa di Hirohito quelli già pronti all´attacco si trovarono disperati e senza uno scopo».
Perché l´intelligence possa individuare chi è pronto a colpire nel modo più estremo, serve però una nozione generale: chi è che vuole instaurare un emirato islamico in Afghanistan. Gli americani li hanno battezzati «insorti», gli uomini del contingente italiano, che ieri hanno ricevuto la visita e i complimenti dell´inviato all´inviato speciale Usa Richard Holbrooke, li chiamano "Opponent militant forces", cioè elementi ostili: entrambe le definizioni portano una notizia buona e una cattiva.
Quella buona è che l´etichetta Taliban vale per i fanatici integralisti, che dunque sono pochi. Quella cattiva è che non sono solo gli studenti coranici a volere un Afghanistan senza stranieri. Signori della guerra, commercianti di droga, trafficanti di armi, criminali comuni: come distinguerli dagli afgani pacifici, quelli che la missione Isaf ha il mandato di tutelare?
«Semplicemente, non è possibile», dice l´ufficiale. «Non portano uniformi, non hanno bandiera da esporre. Magari lavorano nei campi tutta la settimana, poi si mettono a disposizione dei capi, gli unici guerriglieri a tempo pieno. E attaccano il contingente Isaf». L´esperto dell´intelligence sospira e indica i due impiegati afgani della lavanderia, che camminano nella tempesta di sabbia avviandosi verso l´uscita di Camp Invicta.: «Sono persone per bene. Lo sappiamo. Abbiamo fatto ogni verifica. Ma quando escono da qui, chi sono veramente?».

La STAMPA - Giordano Stabile : " Ho chiesto ai due candidati di evitare una guerra civile "

Philippe Morillon

Gli terrò il fiato sul collo, può starne certo. I candidati sanno che dietro di me c’è l’Unione europea, con tutto il suo peso e la sua imparzialità. Non possono permettersi di perdere l’appoggio internazionale. Sono sicuro che si comporteranno bene». Il generale Philippe Morillon ha l’ufficio al quinto pianto dell’Hotel Intercontinental di Kabul. In cima a una piccola collina, nella parte Ovest della città, l’iperblindato albergo a cinque stelle offre una vista magnifica della capitale afghana. E il massimo livello di sicurezza. Ma il generale non vuol sentir parlare di bunker: «Siamo in mezzo alla gente afghana, protetti da poliziotti afghani, da militari afghani. E’ stata la mia prima condizione per accettare l’incarico». Il capo degli osservatori, 70 anni e fare energico, ha dovuto dare una strigliata a Karzai e Abdullah, prima che il gioco ad alzare la posta sfuggisse loro di mano.
Generale, che cosa ha detto ai due contendenti?
«State calmi e soprattutto calmate i vostri sostenitori».
Teme un colpo di mano?
«La legge elettorale afghana è stata scritta con molta saggezza. E prevede tempi lunghissimi. Giustamente, per questo Paese. Lo so che in Occidente si vogliono conoscere i risultati prima ancora che chiudano le urne, ma qui siamo all’inizio. E questo è una garanzia. I candidati hanno fatto i loro ricorsi. I voti saranno controllati e ricontrollati. Solo così si garantisce la fiducia della gente, in un Paese che conosce la democrazia da pochi anni».
E’ anche un Paese diviso in due. Al Sud hanno votato pochissimi.
«I nostri osservatori parlano di 10-15 per cento, molto meno che nel 2004».
Vi accusano di non aver mandato osservatori , al Sud.
«Che cosa? A Kandahar due dei nostri si sono ritrovati sotto il lancio dei razzi. Io non mando nessun uomo al massacro. E’ il mio primo dovere, proteggere i miei uomini. Ma siamo stati anche nelle province più difficili, anche nell’Helmand. Il problema è che al Sud i taleban sono riusciti in gran parte nell’intento di boicottare il voto».
Ma il governatore di Kandahar, uomo di Karzai, dice che l’affluenza è stata del 60 per cento e canta vittoria.
«E’ un caso già oggetto di ricorso. Sarà verificato dalla Commissione elettorale afghana e noi vigileremo. Per questo dico che ci vuole tempo. Ma anche fiducia».
Poi c’è il numero abnorme di tessere elettorali rilasciate negli ultimi mesi. Gli iscritti sono passati da 12 a 17 milioni. Si parla di elettori con dieci tessere.
«Ci sono varie denunce. Ho fiducia in Azizullah Ludin, il presidente della Commissione elettorale. Ha parlato chiaro. Ha detto che rispetterà i tempi. Ha messo la sua faccia. In questo Paese è importante».
Abdullah dice di non aver fiducia. Ci sono rischi?
«Nessun candidato vuole la guerra civile. Ne hanno avute troppe. Polizia e esercito hanno dato una buona prova durante il voto, la sicurezza nazionale ha fatto grandi passi. E poi ci sono quasi 100 mila soldati della Nato».
... che però non controllano il Sud.
«Questo non è un Paese in disfacimento, come qualcuno vuol far credere. Kabul, il Nord, sono in pieno sviluppo. Basta guardarsi in giro. Il Sud è un’altra storia. C’è un intreccio tra vecchi signorotti della guerra, trafficanti di droga, politica corrotta. E la Nato finora ha avuto troppe limitazioni, almeno lì. Nei campi di oppio i convogli passano lungo i solchi tracciati dai trattori, per non schiacciare in papaveri...».
Peggio la Bosnia o l’Afghanistan?
«Non c’è paragone. In Bosnia sono arrivato quando era ancora dentro il tunnel. Qui ne stiamo uscendo. Sono ottimista».

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