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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
22.08.2009 Obama: il risultato delle elezioni in Afghanistan non influirà sui rapporti con gli Usa
Analisi di Maurizio Molinari, Andrea Nicastro, redazione del Foglio. Cronache di Giordano Stabile

Testata:La Stampa - Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - Giordano Stabile - Andrea Nicastro - La redazione del Foglio
Titolo: «Il risultato non influirà sui rapporti con gli Usa - Aspettiamo i dati, ma abbiamo vinto - Temiamo i brogli, l'occidente vigili - Il dopo voto del mullah Omar»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 22/08/2009, a pag. 4, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Il risultato non influirà sui rapporti con gli Usa " e due articoli di Giordano Stabile titolati " Aspettiamo i dati, ma abbiamo vinto " e " Temiamo i brogli, l'occidente vigili ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 8, il commento di Andrea Nicastro dal titolo " Dall'Iran fino all'Afghanistan. La pericolosa trama dei due vincitori " e, a pag. 10, la sua intervista a Wali Massud dal titolo " In caso di brogli siamo pronti a una rivolta ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Il dopo voto del mullah Omar ". Ecco gi articoli:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Il risultato non influirà sui rapporti con gli Usa "

«Non sosteniamo alcun candidato in questa elezione». All’indomani della chiusura dei seggi in Afghanistan e con i contendenti Hamid Karzai e Abdullah Abdullah entrambi impegnati a rivendicare la vittoria, il presidente americano Barack Obama parla da Washington per far sapere che la Casa Bianca non si schiera nella contesa in atto. «Il nostro unico interesse è nell’avere un risultato giusto, che rifletta accuratamente la volontà del popolo afghano» sottolinea Obama parlando dal prato verde del South Lawn. Assicura che «aspetteremo fino a quando tutti i voti saranno contati» in attesa dei «risultati ufficiali della commissione elettorale indipendente afghana e della commissione elettorale dei ricorsi». Citare specificamente le due commissioni significa per il capo della Casa Bianca far sapere a Karzai e Abdullah che Washington non accetterà alcuna scorciatoia verso l’annuncio del vincitore.
Dietro la decisione del presidente di parlare in diretta tv - presa a metà mattinata, con una modifica del programma precedentemente annunciato - vi è quanto sta avvenendo a Kabul, dove tanto Karzai che Abdullah stanno facendo pressione sui rappresentanti americani per essere legittimati come vincitori della sfida. Ciò che Washington più teme è una «Florida afghana», come spiega una fonte diplomatica chiedendo l’anonimato, e l’intervento di Obama punta a far sapere a Karzai e Abdullah che entrambi devono rimettersi al «risultato delle urne». Non potrebbe esserci nulla di più pericoloso di una faida politica a Kabul destinata a spaccare in due non solo il governo filo-occidentale ma anche il blocco etnico che lo sostiene per il semplice fatto che Karzai ha ricevuto gran parte del voto pashtun e Abdullah ha fatto altrettanto con quello delle minoranze tagike, uzbeke e turcomanne.
Ciò che più conta per Obama è che l’Afghanistan non perda la propria precaria stabilità, per questo plaude alle elezioni «che si sono svolte regolarmente a dispetto delle violenze dei taleban». «Si è trattato delle prime elezioni democratiche gestite dagli afghani nelle ultime tre decadi, con 6000 seggi aperti, più di 30 candidati presidenziali e 3000 candidati ai consigli provinciali, incluso un numero record di donne» afferma il presidente, leggendo un testo scritto prima di salire sul Marine One. Il fatto che «milioni di afghani abbiano esercitato il diritto di scegliere i loro leader e determinare il proprio destino nonostante le violenze e le intimidazioni dei taleban» ha colpito l’inquilino della Casa Bianca, che rende omaggio al loro «coraggio» e «alla dignità che hanno avuto affrontando il disordine».
Sulle prospettive dell’Afghanistan, Obama si mostra ottimista: «Il futuro appartiene a coloro che lo vogliono costruire, non a chi vuole distruggerlo». L’ultima parte del discorso contiene un altro messaggio a Karzai e Abdullah: «Il nostro obiettivo è chiaro, la sconfitta di Al Qaeda». Come dire, bisogna evitare dispute destinate a indebolire la giovane democrazia perché non farebbero altro che il gioco dei terroristi jihadisti. «Gli Stati uniti vogliono smantellare Al Qaeda e i suoi alleati estremisti» perché la guerra afghana «è venuta da noi quando Al Qaeda ha attaccato le nostre spiagge l’11 settembre partendo dall’Afghanistan». Il richiamo ai contendenti di Kabul è esplicito: mettete da parte le rivalità perché ciò che conta è sconfiggere i taleban. Ironia della sorte vuole che in queste ore è il Pakistan del presidente Zardari - fino a un mese fa accusato di incertezza con i taleban - l’alleato su cui Washington può contare di più nella regione.

La STAMPA - Giordano Stabile : " Aspettiamo i dati, ma abbiamo vinto "

 Hamid Karzai

«Rispettiamo la Commissione indipendente e aspettiamo i risultati definitivi. Non vogliamo forzare nulla. Abbiamo soltanto espresso il nostro ottimismo». Wahed Omar, portavoce del presidente Hamid Karzai, ha imposto una comunicazione quasi «americana» allo staff della campagna elettorale cerca di smorzare i toni, ma le dichiarazione della mattina sembravano il preludio di una reinvestitura anticipata.
Credete dunque di aver già vinto le elezioni?
«È una nostra valutazione che non si sostituisce alla Commissione elettorale. Siamo in possesso di dati di molte province che danno un trend chiaro, verso la vittoria al primo turno del presidente».
Sono dati vostri o della Commissione?
«In moltissimi seggi il conteggio è finito, e per molte province si può chiarmanente estrapolare il risultato definitivo. Tutto ci porta a dire che sarà a nostro favore».
Si sa qualcosa dell’affluenza?
«Dovrebbe situarsi tra il 40 e il 50 per cento, ma speriamo in qualcosa di più. In alcune province del Sud è andata meglio del previsto».
C’è però chi parla solo di un 25%?
«Favole. Siamo sotto il 70 per cento del 2004, e ci dispiace. Ma siamo convinti che almeno la metà degli afghani abbia votato, con coraggio, in condizioni difficili. Già questa è una grande vittoria per tutto l’Afghanistan, senza divisioni. Contiamo di festeggiare presto anche quella del presidente».
Quando?
«Presto. Questione di giorni, forse anche prima».

La STAMPA - Giordano Stabile : " Temiamo i brogli, l'occidente vigili "

 Abdullah Abdullah

«Siamo andati benissimo in tutto il Nord del Paese, come era previdibile. Ma la chiave del nostro successo è aver sfondato in province difficili per noi, come per esempio Herat, nell’Ovest».
Fazl Sancharaki, carismatico portavoce di Abdullah Abdullah, passa da una chiamata all’altra. Sono i resoconti distretto per distretto, seggio per seggio. Che, secondo i calcoli della compagine dell’ex ministro degli Esteri danno un margine di vittoria ampio al loro paladino.
Com’è andata?
«Siamo tra il 57% e il 61%. Sono dati che vengono dalla Commissione e che abbiamo incrociato con i nostri resoconti sul campo. In molte province siamo oltre il 70% cento. È impossibile che questo trend venga rovesciato».
Perché non avete aspettato la comunicazione ufficiale?
«Arriverà presto, probabilmente oggi stesso. Abbiamo parlato perché Karzai ha parlato. Ma lui parla sul nulla, noi abbiamo basi solide. È un flusso continuo. Finora niente ci smentisce».
E se il risultato ufficiale fosse diverso?
«Impossibile».
Si fida della Commissione elettorale? Teme i brogli?
«Noi confidiamo nella supervisione internazionale. La comunità mondiale non può abbandonare l’Afghanistan nel suo momento più cruciale. È il momento che l’Occidente si dimostri veramente democratico».
Potrebbero esserci degli scontri?
«Noi dialoghiamo. Sempre. Vedrete alla fine vincerà il buon senso. La nostra vittoria è troppo netta. La rispetterà anche il presidente Karzai».

CORRIERE della SERA - Andrea Nicastro : " Dall'Iran fino all'Afghanistan. La pericolosa trama dei due vincitori "

La storia non si ripete mai uguale. Ma a volte si assomi­glia. Due mesi fa, in Iran, i due princi­pali candidati alla presidenza aspetta­rono appena un paio d’ore dalla chiu­sura dei seggi per proclamarsi entram­bi vincitori. In Afghanistan i due favo­riti hanno fatto passare la notte, poi però al mattino lo stesso genere di an­nuncio. «Ha vinto Karzai», il presiden­te uscente di etnia pashtun. «No, ha vinto Abdullah», lo sfidante della mi­noranza etnica tagika.
In questi due mesi la contestazione iraniana ha assunto caratteri horror, con torture, scomparse, stupri. Ripro­porre a Kabul la trama dei «due vinci­tori » ne farebbe invece un film di guerra. Qui non esiste (ancora) una opinione pubblica. Non è immaginabi­le che «spontaneamente» dei cittadi­ni decidano di scendere in strada, marciare in corteo. E tanto meno che lo facciano in modo pacifico con le mani alzate.
L’Afghanistan ha, purtroppo, un’al­tra storia. L’Iran è un Paese centralizza­to con uno schiacciante apparato di si­curezza. L’Afghanistan no. Lo Stato è debole. Per anni Karzai è stato protet­to da guardie del corpo americane. I reparti del «suo» esercito funzionano solo quando c’è identità etnica tra uffi­ciali e sottoposti. Meglio se tagiki. I po­liziotti lasciano la divisa per il turban­te tribale al primo segno di guai. Qui tutti hanno un mitra in casa, le grana­te sepolte in giardino e un bazooka a spalla a casa del nonno.
Se Abdullah volesse davvero conten­dere la presidenza a Karzai, avrebbe persino i carri armati dello scomparso comandante Massud mai consegnati all’esercito regolare. Invece di cortei ci sarebbero assedi. Invece di slogan, bombardamenti. Ma l’Afghanistan ha almeno un vantaggio sull’Iran: ha l’Oc­cidente in casa. Karzai e Abdullah san­no che una guerra civile prosciughe­rebbe il fiume di aiuti. C’è da sperare che la storia dei «due vincitori» que­sta volta finisca in commedia.

il FOGLIO - " Il dopo voto del mullah Omar "

 Mullah Omar

Kabul. Il giorno dopo le elezioni, il partito delle dita tagliate e dei nasi mozzati è deluso. Ieri le analisi del voto erano tutte sul presidente in cerca di conferma Hamid Karzai e sul suo sfidante tagico Abdullah Abdullah – entrambi rivendicano la vittoria – ma sono i talebani la grande forza politica che ha gettato il proprio peso sulle presidenziali dell’Afghanistan e che ora è costretta a tirare le somme. A partire dall’affluenza degli afghani ai seggi, un dato condizionato prima dalle minacce e poi dagli attentati, che però la Commissione elettorale indipendente valuta tra il 40 e il 50 per cento. Il voto c’è stato e offre finalmente una radiografia precisa: quanto sono realmente potenti i talebani? Dove esercitano l’influenza maggiore? Hanno veramente la forza per riingoiare l’Afghanistan come annunciano nella loro propaganda? Nel loro giorno di massimo sforzo, i guerriglieri hanno colpito in 15 delle 34 province afghane. Con alcune sorprese. Kandahar è la loro città santa, il fondatore e leader carismatico mullah Omar è nato a pochi chilometri di distanza nelle campagne e lo stesso si può dire per estensione di tutto il movimento. I talebani di lignaggio più alto sono kandahari, “gente che arriva da Kandahar”, che ha fatto parte del gruppo fin dalle fasi iniziali. Eppure nella provincia l’affluenza degli elettori ha toccato il 60 per cento, secondo i primi dati, anche contando che nella parte nord tutti i seggi sono rimasti chiusi per motivi di sicurezza. I talebani hanno montato una campagna pesantissima per impedire le elezioni a Kandahar. Ogni ora un razzo è piovuto sulla città – uccidendo due donne e sei bambini, un bombardamento sui civili di cui nessuno parlerà – e i soldati del governo assieme a quelli canadesi in missione di “route clearance” hanno disinnescato quindici mine nascoste sulle strade verso i seggi. Ieri circolava la notizia di due elettori impiccati sulla strada del ritorno ma poi si è rivelata infondata. Né i motivi ideologici né i rischi concreti hanno bloccato i kandahari al voto. Secondo Dexter Filkins, inviato del New York Times, l’affluenza degli elettori è stata inaspettatamente buona anche in un’altra zona di massimo rischio, a Garmsir, nella provincia di Helmand. E’ una zona saturata dai talebani che i marine – lanciati lo scorso mese alla riconquista – chiamano “la testa del serpente” per la forma oblunga. Filkins descrive la fila continua di elettori che entra ed esce dal seggio, anche se i pashtun sono prudenti e non vogliono farsi fotografare. Sui rischi che corrono, loro, che hanno esperienza diretta e quotidiana della presenza dei talebani, hanno le idee chiarissime: “Ma anche se rischiamo di morire, oggi votiamo”. Lo stesso non si può dire di tutto il sud pashtun. L’affluenza è stata scarsa, perché le province meridionali sono quelle infestate dai talebani – del resto il senso di superiorità razziale dei pashtun è il midollo ideologico del movimento –, perché le minacce erano più credibili, perché il controllo occidentale è minore e perché più forte è anche la disillusione. “A noi arrivano i proiettili – dicono i pashtun presi in mezzo dalla guerra – agli altri arrivano i dollari”. Gli altri sarebbero soprattutto i tagichi, che controllano il nord, e le altre etnie che in passato hanno subito l’aggressività pashtun e ora si prendono la rivincita nelle urne. Il rischio è che questa rivincita etnica sia troppo sfacciata e spinga i pashtun a non credere più nel meccanismo democratico di Kabul e a unirsi ai violenti. Ora resta l’attesa. Oggi dovrebbero uscire i primi risultati provvisori, ma per quelli definitivi potrebbero essere necessarie settimane. Una cosa, incredibilmente, è già certa. Concluso tutto il processo elettorale, i talebani vogliono riprendere i negoziati “entro una settimana”, secondo i contatti solitamente ben informati di Asia Time. Le trattative erano state interrotte qualche mese fa, quando il leader Omar, attraverso il suo onnipotente braccio destro, il mullah Baradar, aveva informato il capo dei servizi segreti sauditi, il principe Muqrin bin Abdul Ziz, che non c’era più nulla da discutere. Troppi annunci da parte dell’Amministrazione Obama, sul raddoppio di soldati, sull’incremento degli sforzi, sulle nuove tattiche che sarebbero state adoperate. Ora però dentro la leadership talebana c’è di nuovo movimento. I comandanti vogliono riprendere i negoziati attraverso l’Arabia Saudita, gli Emirati arabi (le sole due nazioni a riconoscere il regime talebano negli anni Novanta, assieme al Pakistan) e la Turchia, ormai broker tuttofare del mondo islamico. Il loro unico ostacolo è l’ostinazione del mullah Omar, la stessa – lamentano – che lo fece impuntare a protezione degli arabi di al Qaida dopo l’11 settembre e trascinò tutto il regime alla disfatta. Il comandante americano Stanley McChrystal, intanto, riflette su quanti soldati chiedere a Washington. Per una strategia “a basso rischio”, “ci vogliono 45 mila uomini in più”.

CORRIERE della SERA - Andrea Nicastro : " In caso di brogli siamo pronti a una rivolta "

 Wali Massud

KABUL — «Se il conteggio dei voti sarà regolare, vinca chi vince e saremo tutti contenti. Se emergerà un 10 per cento di brogli, potremmo anche dire che in un Paese come questo è naturale. Se invece le manipolazioni saranno tanto massicce da stravolgere la volontà del popolo, tenteremo prima di ri­mediare con reclami e denunce, ma se nonostante la buona volontà non riceveremo giustizia, l'unica via sarà una seria protesta».
Cioè?
«In un anno da oggi, la mancanza di legittimità del gover­no porterà a scontri diffusi. Un anno da oggi e questo Paese vedrà decine di rivol­te contro l'autorità centrale. La guerri­glia talebana a confronto sembrerà un gioco di pochi ragazzotti».
Difficile a credersi, ma Wali Massud è un uomo mite. Mentre suo fratello, il co­mandante Massud, respingeva sette of­fensive sovietiche, combatteva la guerra civile, resisteva all'avanzata talebana, lui stava a Londra a dirigere l'ambasciata af­ghana e a gestire gli affari di famiglia. Non è un combattente. Ma un politico sì. Col nome che porta è, assieme al fra­tello Ahmad Zai Massud oggi vicepresi­dente, una figura centrale nello schiera­mento tagiko che ha espresso Abdullah come candidato. Le sue parole hanno il valore di un avvertimento.
«Il presidente Karzai porta un bel cap­pellino, un mantello folkloristico e con il suo inglese fa bella figura. Il mondo se n'è innamorato. Ma in Afghanistan tutta la magia scompare, persino quando par­la in pashtun, la sua lingua madre, non è convincente.Il look qui non basta. La gente valuta i fatti e non è nemmeno una questione etnica. Non tutti i pashtun votano per lui».
Come fa a esserne sicuro?
«La piccola tribù di Karzai ha cercato di sottrarre il business dell'oppio a una grande tribù pashtun. Che non l'ha vota­to. Bastava vedere i comizi preelettorali. A Kandahar, città d'origine del presiden­te, lo sfidante Abdullah ha radunato mi­gliaia di persone, lui poche centinaia. Lo stesso a Jalalabad, altra città pashtun».
E' difficile predire i risultati dai co­mizi.
«Sono tornato in Afghanistan da otto anni ormai. La Fon­dazione Massud che dirigo ha ramificazioni in tutto il Paese, programmi sociali e culturali. So che la gente non accettereb­be la riconferma di Karzai».
Nemmeno se sono stati i «signori della guerra» a farlo votare?
«L'influenza di quei personaggi è sopravvalutata. Durante la jihad antisovietica offrivano protezione e speranza. Ma og­gi cosa fanno? Come Karzai arricchiscono se stessi. La gente lo sa e alle urne li ha ignorati».

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