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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.08.2009 Iraq : raffica di attentati di Al Qaeda a Baghdad ieri
Cronaca e intervita a Fouad Ajami di Maurizio Molinari, analisi di Guido Olimpio

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari - Guido Olimpio
Titolo: «Baghdad, attacco ai ministeri - La guerra dell'America si combatte su due fronti - La mano dello «sceicco» dietro la nuova offensiva che sfida la normalizzazione»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 20/08/2009, a pag. 4, la cronaca di Maurizio Molinari dal titolo " Baghdad, attacco ai ministeri " e, a pag. 5, la sua intervista a Fouad Ajami dal titolo " La guerra dell'America si combatte su due fronti ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 5, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo "La mano dello «sceicco» dietro la nuova offensiva che sfida la normalizzazione". Ecco gli articoli:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Baghdad, attacco ai ministeri  "

Massacro a Baghdad alla vigilia delle elezioni a Kabul: 95 vittime e 400 feriti è il bilancio ancora parziale di un’ondata di attentati nella capitale irachena che il governo locale attribuisce a gruppi jihadisti sunniti e i comandi militari americani riconducono alla strategia di Al Qaeda di tenere più fronti di guerra aperti, dall’Iraq all’Afghanistan, sullo scacchiere del Medio Oriente.
Le esplosioni avvenute ieri sono state potenti e quasi simultanee, come da manuale di Al Qaeda. Prima un camion bomba è saltato in aria di fronte all’edificio di dieci piani del ministero degli Esteri, demolendone l’intera facciata, e pochi minuti dopo un analogo attacco ha investito la sede del ministero delle Finanze mentre colpi di mortaio cadevano dentro la Zona Verde - dove si trovano gli uffici del premier, del presidente e l’ambasciata Usa - e altri due attentati avvenivano nei distretti commerciali di Baiyaa e Bab al-Muadham. «I terroristi stanno tentando di riaccendere il ciclo di violenze degli anni passati fra gli iracheni» ha commentato il presidente Jalal Talabani chiamando in causa gli estremisti sunniti di «Al Qaeda in Iraq», due miliziani dei quali sarebbero stati arrestati dalla polizia poco prima che iniziasse l’ondata di attacchi terroristici. Il riferimento di Talabani a quanto avvenuto negli «anni passati» si spiega con il timore del risorgere delle violenze interetniche definite la «principale causa di instabilità del Paese» dal generale Ray Odierno, comandante delle truppe americane in Iraq.
Se «Al Qaeda in Iraq torna a giocare la carta della guerra contro sciiti e curdi è perché - spiega Antony Cordesman, analista di Medio Oriente del Centro di studi strategici e internazionali di Washington - gli arabi sunniti hanno una crescente sfiducia nei confronti di Al-Maliki, imputandogli un piano per trasferire potere politico dai sunniti agli sciiti tanto dentro il governo che nelle forze armate». «I gruppi sunniti chiedono un aumento delle pensioni, l’amnistia per i loro detenuti e il ritorno di ufficiali ex baathisti in posizioni importanti nella struttura militare - si legge nel rapporto sul “Monitoraggio della stabilità in Iraq” redatto dal Congresso di Washington in luglio - in cambio di un totale cessate il fuoco ma il governo Al-Maliki non sta concedendo nulla».
A complicare le cose c’è la vicenda delle milizie sunnite «Figli dell’Iraq», che vennero create tre anni fa dal generale americano David Petraeus per staccare le tribù del nord dalla dipendenza da Al Qaeda. Il problema è che da quando, in maggio, le truppe Usa hanno trasferito ai comandi di Baghdad la gestione dei «Figli dell’Iraq» costoro non ricevono più gli stipendi nè possono accedere ai 100 mila posti di lavoro che gli erano stati promessi. Non è un caso che proprio nelle regioni del nord, roccaforte delle tribù sunnite, Al Qaeda sia tornata a fare proseliti per combattere contro i pashmerga curdi nella regione petrolifera contesa di Kirkuk. Il generale Odierno considera a tal punto esplosive le tensioni fra sunniti e curdi nel Nord da aver iniziato a pianificare il dislocamento di ingenti contingenti americani, da impiegare in unità miste con iracheni e pashmerga, al fine di impedire ad Al Qaeda di tornare a insediarsi facendo leva sugli odii interetnici. «La realtà è che Baghdad non paga le milizie sunnite e i capi tribali sono tornati a strizzare l’occhio ad Al Qaeda» spiega Pat Lang, ex capo dell’ufficio Medio Oriente della «Defence Intelligence Agency».
La tattica di farsi largo sul territorio cavalcando le tensioni interetniche assimila «Al Qaeda in Iraq» ai talebani afghani, feroci avversari delle tribù tagike, uzbeke, turkmene e hazara. Ma al di là delle similitudini fra jihadisti iracheni e afghani sul metodo di rafforzamento territoriale, ciò che colpisce degli attacchi di ieri è la scelta di tempo per farli coincidere con l’immediata vigilia delle elezioni presidenziali afghane. Da qui l’ipotesi, circolata con insistenza negli ambienti di intelligence, che i gruppi jihadisti vogliano tenere aperto un doppio fronte di crisi «calda» sul quale impegnare l’amministrazione Obama, al fine di ostacolare i piani per la stabilizzazione di Iraq e Afghanistan. D’altra parte negli ultimi messaggi audio di Ayman al-Zawahiri, vice di Osama bin Laden, si invitavano i seguaci proprio a riprendere su «più fronti» gli attacchi contro l’America e i suoi alleati in Medio Oriente.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " La guerra dell'America si combatte su due fronti "

 Fouad Ajami

L’amministrazione Obama è incalzata in Iraq e Afghanistan da nemici simili». Fouad Ajami, islamista di punta della Johns Hopkins University, legge gli attacchi di Baghdad e la guerra afghana come due aspetti diversi di un unico scenario.
Chi c’è dietro la raffica di attentati compiuti a Baghdad?
«I gruppi jihadisti sunniti che temono la pace in Iraq fra sciiti e curdi, vedono con sospetto la volontà della Siria di collaborare con Baghdad per rendere meno poroso il confine e puntano a sabotare il governo di Al-Maliki sfruttando le incertezze dovute al pogramma di ritiro degli americani. Questi jihadisti vedono inoltre gli Stati Uniti distratti dalle elezioni afghane e credono dunque di poter tornare in auge».
Hanno possibilità di riuscire?
«Molto poche. Il governo di Al-Maliki è saldo e l’amministrazione Obama se da un lato è vero che è distratta dall’Afghanistan dall’altro ha colto un importante risultato con l’intesa Siria-Iraq sull’aumento dei controlli di frontiera per bloccare l’arrivo di armi e volontari alla guerriglia. La verità è che il recupero di Bashar Assad è un risultato strategico importante, destinato a mettere alle strette i jihadisti sunniti che finora adoperavano l’aeroporto di Damasco come scalo per raggiungere via terra l’Iraq».
Insomma, non teme per la stabilità del governo di Baghdad?
«L’unico vero rischio viene dalle tensioni al Nord fra sunniti e curdi. I gruppi di assassini autori delle stragi di Baghdad combattono una guerra che hanno già perduto. Tenteranno di sfruttare il ritiro degli americani per riguadagnare del terreno, ma falliranno».
Anche Kabul è teatro di violenti attacchi jihadisti. C’è dietro una regìa comune?
«Ci mancano le informazioni per affermarlo con certezza. E’ però evidente che su entrambi i fronti i gruppi jihadisti espressione della galassia ideologica riconducibile ad Al-Qaeda sono all’offensiva. Gli Stati Uniti hanno però dalla loro un alleato importante in Afghanistan quanto lo è la Siria di Assad in Iraq».
A chi si riferisce?
«Al presidente pakistano Asif Ali Zardari. Da quando si è insediato ha iniziato a colpire i talebani pachistani come nessuno dei suoi predecessori aveva mai voluto fare. Zardari ha usato l’esercito per riconquistare la valle dello Swat, sta decimando le retrovie dei talebani afghani e dimostra di voler ripristinare l’autorità del potere centrale nelle zone tribali di confine. Se a ciò aggiungiamo che Zardari lavora assieme a due dei più eccellenti alti funzionari americani, il diplomatico Richard Holbrooke e il generale David Petraeus, diventa chiaro lo scenario di una regione dove i talebani afghani avranno presto una vita ben difficile».
Insomma, lei ritiene che Assad in Iraq e Zardari in Afghanistan siano gli alleati-chiave di Obama nella gestione dei due scenari di crisi?
«Esatto. Ma c’è una differenza. Obama vuole lasciare l’Iraq mentre ha deciso di rimanere in Afghanistan. I democratici hanno adottato la guerra afghana, considerandola un conflitto «di necessità», imposto all’America dopo l’11 settembre 2001, e dunque dovranno immergersi nel dopo-voto a Kabul tentando di migliorare quanto possibile una situazione che resta molto difficile. Non solo per l’aggressività dei talebani ma anche per le tensioni latenti fra maggioranza pashtun e minoranza tagika».

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " La mano dello «sceicco» dietro la nuova offensiva che sfida la normalizzazione "

 Issa Al Masri

C’è la mano di Issa Al Masri, detto lo «sceicco», dietro la nuova offensi­va terroristica in Iraq. Un uomo abi­tuato a organizzare, pianificare e gui­dare anche sotto il profilo ideologico i gruppi di fuoco qaedisti.
Reduci di Albania

Egiziano, finito in galera dopo l’omicidio del presidente Sadat, Issa — ma il suo vero nome è Marjan Mu­stafa Salem Al Juhari —, è amico e complice di Ayman Al Zawahiri con il quale ha militato nella Jihad. Con­dannato in contumacia nel processo ai «reduci di Albania», si è rifugiato in Pakistan alla corte di Bin Laden. Per diversi anni ha agito nell’area tri­bale e i servizi segreti sospettano che abbia partecipato ad un complotto contro Musharraf nel 2004, quindi al piano per assassinare l’ex premier Benazir Bhutto. Proprio dopo questo omicidio si era sparsa la voce che fos­se stato ferito da un razzo sparato da un drone Usa.

Rifugio sicuro

Gli americani considerano lo «sce­icco » uno dei responsabili militari di quello che resta della Al Qaeda origi­nale. Per questo, in giugno, si è spo­stato in Siria. Fonti libanesi hanno ri­velato al
Corriere che Al Masri, pro­veniente dall’Iran, si sarebbe siste­mato in un rifugio sicuro nella zona di Damasco. Protetto dal Mukhaba­­rat, avrebbe esteso il suo controllo su un buon numero di militanti atti­vi in Iraq. E la sua mano si è fatta sen­tire con una serie di attentati spaven­tosi, avvenuti in momenti-chiave.
I segnali

I qaedisti hanno replicato con i ka­mikaze alle analisi ottimiste del go­verno iracheno che, pochi giorni fa, aveva sostenuto che «la sicurezza non era più un tema prioritario». Quindi hanno mandato un segnale di sangue al premier Nuri Al Maliki in visita in Siria. Una missione legata proprio all’ospitalità che Damasco concede a jihadisti e ad una robusta colonia di baathisti, ex seguaci di
Saddam. Bagdad preme perché i si­riani li mettano alla porta e lo stesso sta facendo con i sauditi, ma i due pa­esi nicchiano. È chiaro che Damasco e Riad — con l’aggiunta di Teheran per quanto riguarda gli estremisti sciiti — vogliono avere delle pedine da muovere sulla scacchiera irache­na.
La coincidenza

Difficile dire se gli attentati hanno un legame con le cruciali elezioni in Afghanistan — anche lì gli attentato­ri suicidi sono al lavoro — ma la per­cezione è quella di un attacco su più fronti che restituisce l’iniziativa a qa­edisti e talebani. A Bagdad come a Kabul. I terroristi «votano» con le bombe, colpiscono i simboli del po­tere, sfidano le misure di sicurezza, ribadiscono di essere in grado di con­trastare la normalizzazione raggiun­gendo ancora la superprotetta «zona verde».

Gli strumenti

Il ricorso a camion, letteralmente imbottiti di esplosivo, testimonia poi la determinazione nell’inseguire l’obiettivo di distruzione e nel provo­care un alto numero di vittime. Arie­ti letali alternati con i baby-kamika­ze, altro prodotto della fabbrica della morte irachena. Ragazzini di 14-16 anni capaci di immolarsi con la cin­tura- bomba. Piccole avanguardie di un movimento che ha atteso il ritiro dei soldati Usa dai centri abitati e la rimozione di alcuni posti di blocco per infiltrarsi. I leader che guidano alcune delle fazioni qaediste aveva­no promesso lotta ad oltranza, irri­dendo anche Barack Obama e il go­verno iracheno: «Non pensate che sia finita». Hanno allora chiesto ai re­clutatori di fornire nuovi kamikaze e hanno studiato raid terroristici simi­li a bombardamenti aerei. Così sono riusciti a centrare i ministeri nel cuo­re di Bagdad. Lo sceicco Issa e i suoi «fratelli» hanno compiuto la missio­ne.

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