Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/08/2009, a pag. 6, l'articolo di Andrea Nicastro dal titolo " Kabul va alle urne tra bombe e agguati ", l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " La sfida per mobilitare le donne " e il commento di Franco Venturini dal titolo " Le urne e il bivio dell'occidente ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Il pacifista abbronzato". Dalla STAMPA, a pag. 2, l'articolo dal titolo " Io afghano dell'Onu lavoro con il terrore di essere scoperto ", a pag. 3, l'articolo di Giordano Stabile dal titolo " Nei seggi dell'Università. Qui vincerà la democrazia ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 2, l'intervista di Enrico Piovesana ad Abdullah Abdullah dal titolo " Karzai è solo un corrotto vinco e cambio il mio Paese ". Dal GIORNALE, a pag. 7, l'intervista di Alessandro Caprettini a Franco Frattini dal titolo " A Kabul in gioco la nostra sicurezza Il terrore islamico va sradicato ".
CORRIERE della SERA - Andrea Nicastro : " Kabul va alle urne tra bombe e agguati "

KABUL — Sul cielo di Kabul volano gli aquiloni dei bambini e più in alto un dirigibile bianco. È ancorato a una base militare afghana sulla collina arida che domina la città vecchia. Lo manovrano gli americani e sui giornali di Kabul è stato presentato come «un segugio volante che tutto vede e tutto sa. A lui, con telecamere e sensori, non possono sfuggire esplosivi o movimenti sospetti». Proprio sotto la pancia del «segugio» bianco ieri tre armati hanno fatto irruzione in una filiale della banca statale Pashtami.
«Erano giovanissimi, barba ancora rada — racconta il cuoco di una taverna a fianco dell’edificio —. Prima di entrare hanno sparato a due poliziotti in strada». Ieri, festa dell’Indipendenza dal dominio britannico, non c’erano impiegati da prendere in ostaggio. Ma gli assalitori hanno resistito due ore e mezza prima di venire uccisi da forze speciali afghane assistite da occidentali in tuta nera.
Il significato dell’attacco non è sfuggito agli abitanti di Kabul. «Non manderò mia moglie a votare — annuncia Rashid Hakerazai, venditore di ghiaccio — troppo pericoloso». I talebani sono riusciti con un’escalation di attentati a dare l’impressione di potenza che volevano.
La città ieri sembrava in preda all’isteria. Vuota di auto, le strade venivano chiuse a ripetizione per allarmi bomba. Poi un ordigno è davvero esploso in un bazar della stessa area a ridosso della «zona verde». Due i morti.
Le elezioni di domani rischiano, paradossalmente, di avere a Kabul un’affluenza più bassa che nel resto del Paese a causa della paura. Nelle campagne varranno i rapporti di forza consolidati: se il capo villaggio ha patteggiato l’appoggio a questo o quel candidato si voterà. I talebani staranno probabilmente a guardare per non scatenare reazioni locali. Nella capitale, invece, vota una nascente classe media che non conta sull’autodifesa, ma sulla protezione delle forze dell’ordine. La sfiducia potrebbe tenerli a casa.
Ci sono più o meno 300mila uomini tra afghani e internazionali a difendere i seggi. I talebani non dovrebbero essere più di 50mila. Domani non devono conquistare Kabul, basteranno un paio di kamikaze per screditare i nove anni del nuovo corso.
CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " La sfida per mobilitare le donne "
Donne afghane
HERAT — Per lo più arriveranno accompagnate dagli uomini di famiglia: il marito, il figlio maggiore, al peggio i fratelli o i cugini. Nelle zone rurali le donne ai seggi potrebbero in gran parte non andarci affatto.
I sondaggi di organizzazioni non governative locali e internazionali, osservatori Onu e i commenti dei media afghani concordano largamente nel ritenere che siano i capi famiglia, i leader religiosi, i consigli degli anziani nei villaggi più remoti a determinare le scelte di voto. E la grande maggioranza delle donne si adatterà ai dettami delle autorità tradizionali, tutte rigorosamente maschili. «Cinque anni fa vivevamo la grande stagione della speranza. Le donne votarono in massa alle presidenziali del 2004 e anche alle politiche dell’anno dopo. Ma ora non sarà così. I temi del riscatto femminile sono stati dimenticati anche tra i più progressisti dei candidati. Vincono paura e disinteresse per le nostre tematiche», spiega pessimista Suraya Pakzad, nota leader della «Voce delle Donne», l’organizzazione che nelle regioni occidentali del Paese sino a ieri sera cercava di mobilitare le sue attiviste.
Ma la Commissione elettorale afghana segnala che la situazione di pericolo e le minacce talebane tengono lontano dai seggi le scrutatrici, specie nelle zone rurali. Sembra che nelle regioni orientali, quelle lungo il confine pakistano, manchino all’appello oltre il 20% delle 13.000 addette alle operazioni di voto. E nel Sud potrebbero essere meno della metà. Il problema è noto: in mancanza di funzionari femminili le donne non votano. Per tradizione evitano di aver alcun tipo di contatto con uomini sconosciuti. Emerge così un grave scollamento tra propaganda elettorale e realtà. Sulla carta infatti la situazione per l’elettorato femminile sembrerebbe migliorata. Nel 2004 c’era solo una candidata alle presidenza, oggi sono due.
Alla vicepresidenza sono addirittura 7, cinque anni fa nessuna. Le concorrenti per i 34 Consigli Provinciali sono passate da 286 a 342. E sembra anche cresciuto il numero delle iscritte al voto, oggi oltre il 41 per cento degli elettori. Ma viene anche osservato che il numero appare sospetto. Le donne spesso rifiutano di essere fotografate, anche per i documenti ufficiali. Le loro carte d’identità possono dunque venire facilmente falsificate e i loro nomi utilizzati per i brogli elettorali. Argomento questo che è ripreso con forza anche dalla deputata tagika Fawzia Kofi, nota pasionaria per le battaglie dei diritti delle donne, che nel parlamento di Kabul ci ribadisce i suoi timori di gravissime irregolarità: «Se ci saranno brogli, le donne saranno le prime a farne le spese».
Herat si dimostra un termometro molto sensibile nel registrare il deteriorarsi della condizione femminile. Fu la prima città, dopo Kabul, dove dopo la sconfitta talebana del 2001 riaprirono le scuole femminili. «Già nel 2003 la nostra radio locale, Sahar , riprese a trasmettere voci di giornaliste donne, che erano state severamente censurate dai talebani. E l’anno dopo le donne riapparvero anche su Herat tv », ricorda con nostalgia Suraya. Qui però nell’ultimo mese almeno 12 studentesse sono state picchiate o addirittura ferite a pugnalate dai fanatici religiosi.
Sembra ci siano anche alcune rapite. I talebani vorrebbero chiudere le scuole femminili. Le attiviste segnalano che nell’intero Paese il movimento per l’emancipazione della donna ha subito un grave arresto in seguito all’assassinio di quattro personalità note. La prima vittima fu agli inizi del 2007 Sakina Amajan, responsabile per gli Affari femminili nella provincia di Kandahar.
Seguirono le uccisioni di una nota poliziotta nella stessa città, quindi quelle di due giornaliste: Sangah Amag, di Tolo tv a Kabul, e la corrispondente di Radio Solah nel Parwan.
CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " Le urne e il bivio dell'occidente "
Franco Venturini
Ai tempi in cui George Bush voleva «esportare la democrazia», critici e sostenitori del presidente Usa convennero su un paio di punti.
Primo, non v’era dubbio che la democrazia fosse preferibile alla sua assenza, e dunque ampliare il numero dei Paesi democratici era, in linea di principio, una conquista tanto ideale quanto strategica (in un Paese democratico non troveranno ospitalità i terroristi come quelli dell’11 settembre). Secondo, l’applicazione pratica del principio suddetto era purtroppo assai più complessa di quanto i neocon avessero previsto (l’ultima drammatica conferma ci giunge dalla carneficina di Bagdad), moltitudini di conseguenze controproducenti erano in agguato e, soprattutto, la tenuta di elezioni non poteva essere considerata testimonianza di democrazia acquisita. Semmai, le elezioni dovevano essere il punto d’arrivo di un lungo processo politico e culturale, non un punto di partenza inserito a forza nella cornice preesistente.
Le elezioni che si tengono oggi in Afghanistan corrispondono perfettamente alle due constatazioni. Il sogno di un Afghanistan democratico è bellissimo come lo sono appunto i sogni acerbi che prescindono dalla razionalità. E non possono certo essere considerate termometro di autentica democratizzazione, malgrado l’impegno e il coraggio di molti afghani che andranno a votare, elezioni che pesano più per il numero dei soldati occidentali uccisi in questo periodo, e per quello dei seggi rimasti forzosamente chiusi, che per il verdetto delle urne.
Intendiamoci, le elezioni presidenziali in Afghanistan si dovevano assolutamente tenere. Rinunciarvi sarebbe stato, per l’Onu, la Nato e ogni singolo Paese impegnato sul terreno quale l’Italia, come dichiarare una resa che si sarebbe poi rivelata irreversibile e avrebbe condizionato l’insieme della sicurezza e degli equilibri politici mondiali. Anche il boccone amaro della conferma di Hamid Karzai, se l’ex ministro Abdullah Abdullah non ce la farà a costringerlo al ballottaggio, andava ingoiato per mancanza di credibili alternative. Benché a tutti fosse noto che Karzai, seduto sulle baionette straniere, ha fatto poco e male, non ha lottato contro la corruzione dilagante, è molto impopolare, e per vincere ha concluso alleanze impresentabili. E si sapeva, ancora, che la necessità di tenere elezioni sarebbe costata molte vite, che i talebani avrebbero fatto di tutto per insanguinare l’evento come in questi giorni è purtroppo accaduto. Nelle urne afghane l’Occidente ha deposto, insomma, un prezzo politico e umano eccezionalmente alto. E questo prezzo, quando la febbre elettorale si sarà placata, acquisterà un senso e una giustificazione soltanto se il sofferto pragmatismo di Obama riuscirà davvero a subentrare all’idealismo astratto di Bush.
Se tutte le energie e tutte le risorse saranno impiegate per affiancare all’azione militare un’autentica ricerca del consenso della maggioranza degli afghani. Se gli alleati, anche a costo di apparire «anti-democratici», convinceranno energicamente Karzai a svolgere meglio la sua parte. Se si farà davvero di tutto per limitare le vittime civili dei bombardamenti. Se si porrà fine alle clamorose mancanze di coordinamento tra organismi che dovrebbero stare dalla stessa parte. Se alla cultura dell’oppio — fonte di strette alleanze tra narcotrafficanti e talebani — saranno offerte alternative reali create con il sostegno finanziario internazionale. Se parallelamente avrà corso concreto lo «schema Petraeus » che ha avuto parziale successo in Iraq: dividere l’avversario usando bastone e carota (quest’ultima spesso sotto forma di biglietti verdi), colpire gli irriducibili e trovare un accordo con gli altri.
Se, in definitiva, da oggi si lavorerà seriamente a quella «exit strategy» (stiamo parlando comunque di anni) che appare pragmaticamente inevitabile ma che deve essere resa politicamente e strategicamente accettabile.
Obama insegue un onorevole disimpegno, non l’esportazione della democrazia. Bisogna augurargli e augurarci che non siano stati già commessi troppi errori e che non sia troppo tardi per rimediare.
Perché in tal caso le elezioni odierne, lungi dall’essere un passo importante nella prospettiva della «exit strategy », diventerebbero soltanto una crudele messinscena.
Il FOGLIO - " Il pacifista abbronzato"
Che fine hanno fatto?
E’agosto, certo. Ma nonostante la canicola viene da chiedersi dove siano finiti i pacifisti, che cosa sia successo al glorioso popolo arcobaleno, sotto quale ombrellone abbia trovato ristoro quel movimento di opinione pubblica che, nei giorni della guerra in Iraq, il New York Times aveva solennemente definito “la seconda superpotenza mondiale”. Sembrano scomparsi. Non che il complesso militare industriale di Washington abbia dato loro ascolto e, di conseguenza, messo i fiori nei cannoni. Anzi. A Washington c’è Barack Obama, invece dell’odiato George W. Bush, ma il ministro della Guerra e i generali che la guidano sono gli stessi del presidente “guerrafondaio”. Soprattutto, i 130 mila soldati americani sono ancora in Iraq a combattere, come prima, per aiutare uno dei paesi chiave del medioriente islamico a liberarsi del suo passato criminale e dalle tentazioni teocratiche. In Afghanistan, Obama ha raddoppiato il contingente militare e ha ordinato un’escalation bellica che coinvolge anche i paesi alleati (l’Italia ha inviato 200 soldati in più e il mese scorso per civili e militari è stato il più sanguinoso dal 2001). La campagna di bombardamenti si è strategicamente estesa al territorio pachistano, sul quale da quando Obama si è insediato alla Casa Bianca sono piovuti almeno trentadue missili. I rapporti con l’Iran e la Corea del nord, se possibile, si sono ulteriormente complicati e, anche se si è lontani da soluzioni militari, non si vede ancora traccia di quella grande ricomposizione pacifica mondiale che l’elezione di Obama avrebbe dovuto ispirare. Il carcere di Guantanamo, tanto per citare un altro totem del movimento pacifista, è ancora aperto. Se e quando verrà chiuso, sarà sostituito da altre strutture detentive in America, quasi certamente peggiori di quello attuale, dove i principali prigionieri della guerra al terrorismo continueranno a non avere diritti processuali. Prima o poi gli americani si ritireranno dall’Iraq e dall’Afghanistan, e con loro anche le truppe italiane. Ma gli estremisti del jihad islamico continuano a spargere sangue innocente e a tentare di uccidere i soldati della coalizione, compresi i nostri connazionali. Proprio ieri, tramite il generale Ray Odierno, l’Amministrazione Obama ha fatto sapere che i marine torneranno a presidiare la zona nord occidentale dell’Iraq, quella al confine tra il Kurdistan e le province sunnite, in aperta violazione dell’accordo di ritiro dai centri abitati firmato da Bush e dal governo di Baghdad. Le bandiere arcobaleno restano ammainate, ma non perché chi le sventolava con passione si sia finalmente reso conto che la battaglia in corso è per la libertà e la democrazia, nostre e del mondo islamico. La dissoluzione estiva della “seconda potenza mondiale”, piuttosto, dimostra che il movimento pacifista non era affatto motivato dall’opposizione agli interventi militari occidentali per cacciare Saddam e i talebani dai loro regni, ma dalla volontà politica e ideologica di detronizzare Bush (e, in Italia, Berlusconi). Non ci sono riusciti. Lasciando per scadenza del mandato la Casa Bianca, Bush ha avuto il merito di liberarci anche del popolo della pace.
La STAMPA - " Io afghano dell'Onu lavoro con il terrore di essere scoperto "

Ero in visita alla mia famiglia, nel Sud Est dell’Afghanistan, lo scorso mese, quando mi è squillato il cellulare. Pur riconoscendo subito il numero, non ho osato rispondere. Era una mia collega, con cui lavoro all’ufficio del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (WFP), a Kabul. Non ho risposto perché non potevo correre il rischio che mi sentissero parlare in inglese. La maggior parte dei membri della mia famiglia, nella provincia di Paktia, non sa che lavoro per le Nazioni Unite. Pensano, dal momento che gliel’ho detto io, che gestisco un’impresa privata - lo stesso pensano i miei vicini di casa, a Kabul. La verità, se si sapesse, potrebbe infatti metterci tutti in pericolo.
È per questo che non ho mai programmato i numeri di telefono dei miei colleghi internazionali nel mio cellulare. Non voglio, infatti, che qualcuno me li trovi, nel caso mi dovessero perquisire ad un posto di blocco. Quando parto per il Sud del paese, per andare a trovare la famiglia e gli amici, lascio il cellulare di lavoro a casa.
Purtroppo, questa situazione non è affatto inconsueta. Molti miei colleghi afghani, al WFP, fanno la stessa cosa. Alcuni di loro prendono addirittura precauzioni ulteriori, per proteggersi dai rischi che affrontiamo, tutti i giorni, solo andando al lavoro. Qui in Afghanistan, c’è chi ritiene che sia vietato lavorare con dei non musulmani. Alcuni sono disposti ad usare la violenza per far rispettare questo idea, e non fanno differenza tra chi lavora per una forza militare straniera o chi invece per un’agenzia umanitaria.
Anche il divario tra i ricchi e i poveri è un problema. L’Afghanistan è uno dei paesi più poveri sulla terra, e qualcuno pensa che quelli di noi che lavorano per le agenzie internazionali siano ricchi - cosa che potrebbe rendere, noi e le nostre famiglie, obiettivi di rapimenti a scopo di estorsione. Una volta, non molto tempo fa, un impiego alle Nazioni Unite era considerato qualcosa di cui vantarsi. Un lavoro come il mio avrebbe portato prestigio e status sociale.
Tuttavia, la motivazione che spinge me, e molti miei colleghi, a lavorare ha delle radici più profonde, e ci induce ad affrontare i rischi che accompagnano il nostro lavoro. Quando mi guardo intorno, vedo un paese che ha un disperato bisogno di sviluppo, di stabilità e di crescita. Trenta anni di conflitto ci hanno tenuti separati dal resto del mondo. L’Afghanistan ha bisogno, ora, di un impegno continuo con la comunità internazionale, per riparare i danni provocati da decenni di conflitto. E ha bisogno anche di gente capace e istruita, per costruire un futuro migliore.
Per quanto mi riguarda, sento che è mia responsabilità aiutare il mio paese. Non si tratta solo di sfamare oltre 8 milioni di persone, facendo fronte ai bisogni umanitari immediati, così crudamente visibili da queste parti, ma anche utilizzare il cibo come strumento di sviluppo. Per esempio, nella riabilitazione dei canali di irrigazione, o nel fornire pasti scolastici ai bambini, aiutandoli così a costruirsi un futuro migliore e gettando le basi per uno sviluppo e una ripresa continuativi.
Ieri 19 agosto si celebrava, per la prima volta, la Giornata Mondiale Umanitaria, in omaggio alla dedizione di molte migliaia di operatori umanitari che, nel mondo, hanno speso la loro vita al servizio di una causa umanitaria. Vogliamo ricordare soprattutto coloro che la vita l’hanno persa, nel corso del loro lavoro di assistenza. Qui in Afghanistan, ogni giorno che passa mi ricorda che là dove maggiori sono i bisogni umanitari, spesso sono maggiori anche i pericoli nel rispondere a quei bisogni. Per quanto mi riguarda, so che non mi fermerò, e continuerò a lottare contro la fame nel mio paese.
La STAMPA - Giordano Sabile : " Nei seggi dell'Università. Qui vincerà la democrazia "

Dietro i sacchi di sabbia che proteggono la guardiola, e la porta laterale lasciata aperta, spuntano altri mitra. Il filo spinato protegge il cancello per le auto, chiuso. Sulla strada di accesso i jersey di cemento costringono a due curve strette, per rallentare le macchine. Si entra a piedi, dopo aver mostrato i documenti, senza nemmeno essere perquisiti. L’essere occidentale è probabilmente considerato un elemento decisivo contro l’ipotesi che sotto la giacchetta estiva ci possa essere una cintura esplosiva. Ma l’aria rilassata stona in un’altra giornata di attacchi taleban a catena. La mattina presto una bomba, forse in un carretto, è esplosa in un mercato popolare a Sud della capitale. Non è chiaro il bilancio dei morti. All’alba è stato assaltato l’edificio dove si trova una agenzia della Pashtani Bank nel quartiere di Jadi Maiwand. I terroristi si sono asserragliati nella palazzina di cinque piani, circondati da centinaia di poliziotti, in un infernale scambio di raffiche di armi automatiche, il cui esito era ancora incerto in serata. Sono almeno sei i morti, tre agenti e tre taleban. Un nuovo salto di qualità negli attacchi degli islamisti, anche se la polizia parla invece di un tentativo fallito di rapina e il presidente Hamid Karzai ha nuovamente invitato i media a non drammatizzare gli attacchi, a non spargere pessimismo e a non scoraggiare la gente dall’andare a votare. I seimila seggi, alla fine meno che nelle parlamentari, sono pronti, centinaia a Kabul. Quello allestito all’università è uno dei più grandi della capitale. Otto-diecimila persone sono attese domani. In una dozzina di aule stanno allestendo i seggi. Otto per gli uomini e quattro per le donne. Banchi e sedie sono accatastati fino al soffitto lungo una delle pareti gialline e scrostate. I banchetti e le seggiole per gli scrutatori sono al loro posto. «Le urne arriveranno questo pomeriggio, assieme ai paraventi per la privacy», spiega Fareed, il presidente del seggio, 28 anni. Si è laureato qui in giurisprudenza. Alto, il volto tirato, occhiali dalla montatura leggera, è teso ed eccitato. Ci tiene molto che tutto fili liscio, ma non sono gli attentati a preoccuparlo. Sul risultato non si sbilancia, forse per il suo ruolo istituzionale. «Vincerà la democrazia ». E’ di etnia tagika, probabilmente propende per lo sfidante Abdullah Abdullah, di padre tagiko e nuovo eroe dell’etnia uscita vincente dalla cacciata dei taleban, coccolata, ma pare non abbastanza, dal presidente Karzai. In quota ai pashtun è invece il suo vice Mohammad, 30 anni, pure lui giusperito, tarchiato e con gli occhiali tondi. Aiuta il tenente Abdullah, capo della sicurezza in questo settore, a rispondere alle domande sulle misure anti-terrorismo. «Chiederemo a tutti la carta di identità all’ingresso » risponde un po’ scocciato. Che qualche kamikaze si mescoli tra la gente in coda gli sembra assurdo. «Ci sono talmente tanti filtri in città». La missione al seggio ha l’aria di essere una corvée parecchio mal vista. «I turni sono lunghi, ma nessuno si lamenta». Inutile chiedergli per chi voterà, in caserma. Come la maggior parte dei militari e soprattutto degli ufficiali, è tagiko. Se le consegne dei gruppi etnici verranno rispettate, al seggio dell’università Abdullah Abdullah dovrebbe fare il pieno di voti. Tanto più che gode anche del consenso dei giovani. Malalay, 20 anni, il fazzoletto azzurro e verde annodato sotto il mento a incorniciare l’ovale del volto e gli occhi neri protetti dalle lenti fumée, studia letterature straniere e non potrebbe certo votare «per uno che vuole riportare la condizione delle donne al Medioevo», cioè Karzai con la legge familiare ad hoc per gli sciiti hazara approvata nei giorni scorsi, quella che autorizza lo stupro coniugale. Ma lo sfidante Abdullah piace anche per il suo programma di lotta alla corruzione, aggiunge Saleem Khumar, 21 anni, studente in legge. E di lotta anche alla cultura «dei clan, delle tribù», quel familismo amorale allargato all’inverosimile che impedisce lo sviluppo di un Stato di cittadini con gli stessi diritti, senza distinzioni. Piace anche la riforma sanitaria proposta dall’ex ministro degli Esteri, in uno slancio obamiano che ha riportato nel dibattito la questione sociale, sommersa dai problemi della sicurezza. In un Paese dove la speranza di vita è di 47 anni, dove sono endemiche malattie tropicali come la malaria, le uniche strutture realmente accessibili a tutti sono quelle della cooperazione, come la nostra Emergency o l’Indira Gandhi Children Hospital di Kabul. Poi è un proliferare di cliniche private o convenzionate, alcune eccellenti, altre improvvisate e truffaldine, addirittura con sedicenti medici. I dottori veri sono però di buona formazione, si sono specializzati all’estero, e cliniche come l’International Cure Hospital hanno regolarmente tra i loro pazienti gli occidentali espatriati. Kaber Abdullah, a capo della chirurgia dello Jamboriat Hospital, è però scettico sulla sanità universale, in Afghanistan. «Quando uno Stato raccoglie soltanto 13 dollari di tasse per abitante, che servizi può offrire? Certo ci vuole un controllo più serrato sulle cliniche improvvisate. Ma non possiamo sognare una sanità all’occidentale. Mente piccole realtà come la nostra offrono un buon rapporto qualità-prezzo». Al ritorno, nella zona del Darulaman, il vecchio palazzo reale sventrato dai bombardamenti nella guerra tra mujaheddin e taleban, i controlli sulla strada sono ogni cento metri. Un’agonia. All’ultimo, il poliziotto al check point, piccolino, il mitra a tracolla, comincia a innervosirsi. Fa segno di accostare a sinistra, poi più avanti. Mohammad, al volante, non ci capisce niente. Prosegue, pianissimo, sterza, poi fa retromarcia. Il poliziotto batte la mano contro il parabrezza, sembra saltare sul cofano, brandisce il mitra. Urla. Mohammad esce col capo chino. L’altro lo guarda severissimo. Poi scoppiano a ridere. Si abbracciano. Sono dello stesso villaggio, del Nord, verso Bayaman. Ai check point si incrociano centinaia di volte. Se sono dell’umore, e il capo guarda altrove, se la ridono. Mohammad presenta il cliente: «Italiankri. Journalist ». E si fila via senza tirare fuori i documenti.
La REPUBBLICA - Enrico Piovesana : " Karzai è solo un corrotto vinco e cambio il mio Paese "
Abdullah Abdullah
Mister Abdullah, prevede che ci sarà subito un vincitore al primo turno o si andrà al ballottaggio?
«C´è la possibilità che si vada al secondo turno, ma non ho dubbi che, Dio volendo, vincerò al primo turno».
Ritiene che la correttezza del voto possa essere viziata dal fatto che il candidato presidente Karzai abbia utilizzato il suo potere di presidente in carica per fare campagna elettorale?
«Nessun altro candidato ha tanti cartelloni elettorali sparsi in giro per il paese, né tanto spazio sulla stampa. Ma non penso che questo influenzerà l´opinione pubblica, da anni scontenta a causa della distanza tra il governo e la gente, del deterioramento della sicurezza, dell´inefficienza e della corruzione dell´amministrazione pubblica, della crescente disoccupazione».
Quali saranno le sue priorità nel caso in cui lei venisse eletto presidente dell´Afghanistan?
«Prima di tutto bisogna concentrarsi sulla sicurezza, sull´efficienza dell´amministrazione pubblica e su un impegno reale contro la corruzione pubblica. Poi c´è bisogno di una riforma istituzionale, per passare dal presente sistema presidenziale ipercentralista a un sistema parlamentare di premierato decentrato e partecipativo, che preveda l´elezione popolare di governatori e sindaci, che ora invece sono di nomina governativa».
Qual è stato il principale errore commesso da Karzai in questi anni a suo parere?
«Quello di dissipare il consenso politico che si era creato attorno a lui. Karzai ha fallito come leader a causa dei troppi ministri, governatori e pubblici ufficiali corrotti da lui nominati».
Alle scorse elezioni presidenziali gli Stati Uniti si erano apertamente schierati a sostegno di Hamid Karzai. Pensa che questa volta ci siano stati meno interferenze?
«Sono certo che questa volta gli Stati Uniti non sostengano nessun candidato, e questo è uno sviluppo positivo».
Come giudica le grandi offensive militari della Nato in corso nel paese, in particolare nella provincia meridionale di Helmand? Pensa che servirà a migliorare le condizioni di sicurezza?
«Il successo di queste operazioni dipende da quello che succederà ai civili. Se i civili verranno reinsediati nei loro villaggi che sono stati costretti ad abbandonare, allora questo consoliderà la pace».
Quel è il suo giudizio sulla lotta al narcotraffico condotta dal governo afgano e dalla comunità internazionale?
«Non ha funzionato. Ci sono stati dei successi relativi in alcune zone, ma nel complesso non ha funzionato. Bisogna concentrarci veramente sui contadini, fornendo loro colture alternative, e colpire i narcotrafficanti e coloro che con questi traffici si arricchiscono. Non è più un segreto che tra questi ci sono anche persone collegato con alti, altissimi esponenti governativi».
Il GIORNALE - Alessandro Caprettini : " A Kabul in gioco la nostra sicurezza Il terrore islamico va sradicato "
Franco Frattini
Roma«Difficile decidere oggi, a tavolino, quanto ci vorrà per ridare le chiavi del loro futuro agli afghani. Basta guardare all’Irak, dove hanno fatto squillare le trombe per il ritiro americano e proprio oggi (ieri, nda) hanno dovuto contare 100 morti...». Franco Frattini, nelle ultime ore delle sue brevi vacanze estive, concorda con quanto nelle stesse ore vanno dicendo Sarkozy ed Hillary Clinton: non si può programmare un ritiro a breve da Kabul. «Lo dobbiamo anche alla memoria di tanti soldati caduti - continua il ministro degli Esteri - e all’impegno di non lasciare incompiuta una azione di sicurezza internazionale senza la quale l’Afghanistan potrebbe tornare ad essere seria fonte di pericolo. Quando ce ne andremo, allora? Dipende da noi e dal governo che uscirà dal voto di quest’oggi. Se avessimo abbandonato i seggi elettorali i nostri soldati non avrebbero bloccato proprio poche ore fa decine di talebani che incitavano al non voto e, fatalmente, il D-day della fuoriuscita sarebbe ritardato...».
C’è però chi nel centrodestra, come Bossi, comincia a borbottare per i tempi di questa nostra permanenza su quel terreno....
«Bossi sa benissimo - perché penso che Maroni gliel’abbia riferito - che molte delle cellule terroristiche individuate in Italia avevano rapporti proprio con l’Afghanistan. Ne va della nostra sicurezza, il ministro degli Interni non potrà che confermare. Poi, certo che siamo preoccupati per l’escalation terroristica: sono timori di tutti noi. Ben sapendo comunque che i nostri soldati non sono da meno rispetto a nessun altro contingente: coraggiosi e capaci. Per cui è sbagliato soffermarsi sui rischi che corrono, mentre - come ha fatto capire La Russa - occorre semmai affrontare il discorso di dotarli di strumenti più sofisticati, di blindati di ultima generazione».
Per l’Afghanistan non pare che Obama abbia virato rispetto alla ricetta Bush, non crede?
«Il presidente americano ha virato in tre punti: ha dato ordini precisi per non colpire vittime innocenti nei raid sui villaggi (facendo anche rimuovere qualche comandante per negligenza); cerca di capire se sia possibile separare i miliziani di tribù locali dagli irrecuperabili talebani legati ad Al Qaida e si sta impegnando a finanziare coltivazioni alternative al papavero da oppio anziché limitarsi a distruggere quelle coltivazioni. Chiaro comunque che Obama, come Bush, non offre mazzi di fiori agli insorti: la parola d’ordine resta quella di sradicare il terrorismo da quelle zone».
Senta Frattini: da anni siamo impegnati su tanti terreni. Bosnia, Kosovo, Irak, Libano, Afghanistan. È tutta roba che costa, e in tempo di crisi...
«È vero. Ci costa tanto: siamo il quarto contributore della Nato, ma il prestigio internazionale si ottiene anche e soprattutto con le missioni internazionali. A parte questo le posso dire che stiamo ragionando da qualche mese sulla riduzione delle truppe in Bosnia e Kosovo: pensiamo ad un dimezzamento dei nostri uomini, ma ragionando con gli alleati e senza scelte unilaterali che sarebbero slealtà».
Lei parla di «prestigio», ma a tratti pare che i nostri alleati riconoscano poco il nostro ruolo: piovono critiche...
«Mi lasci dire che più che accuse mi paiono attacchi dovuti da invidia. La verità è che ci sarebbe parecchia gente ben contenta se ci fosse un’Italia meno attiva e meno protagonista. Specie quelli che prima avevano rapporti coi paesi del Sud del Mediterraneo dei quali oggi siamo i primi interlocutori! Abbiamo rotto la nostra storia coloniale come nessuno ha fatto, siamo presenti nelle partite energetiche suscitando parecchie insofferenze. Non meravigliamoci dunque delle critiche al nostro governo, visto che la competizione si sta facendo davvero dura».Allude anche alle forzature dei media di alcuni Paesi nei confronti di Berlusconi?
«Mica alludo. Sono sicuro. Del resto l’ho detto a chiare lettere giorni fa anche alla Bbc che ci rimproverava di aver sostenuto il gasdotto South Stream. Ma come, proprio Londra che appoggia il gasdotto sul mare del Nord che taglia fuori tanti Paesi della Ue, viene a farci la ramanzina?!».
Per la verità anche a Bruxelles si respira spesso l’aria di attacco anti-italiano. Non trova?
«Certo. Un gioco da spiegare ai non addetti ai lavori. Quello per il quale ad alcuni dà fastidio il Berlusconi che s’inserisce nell’asse franco-tedesco che faceva e disfaceva ogni cosa. Quello delle invidie per un Paese che in pochi giorni, al di là della conferma del numero due della Nato, ha piazzato altri tre italiani in posizione di vertice dell’Alleanza tra cui il rappresentante a Kabul. Guardi, non mi meraviglio degli attacchi, ma semmai dell’uso che qualcuno ne fa in Italia: prenda il reato di immigrazione clandestina. Lo hanno già 5 Paesi Ue tra cui la Germania, cui nessuno ha però mai rimproverato nulla. Le basta come esempio?».
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