Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 19/08/2009, a pag. 2, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Hillary: lavoreremo con chiunque vinca " e, a pag. 5, l'intervista di Emanuele Novazio a Franco Frattini dal titolo " No alle exit - strategy ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 3, l'articolo di Andrea Nicastro dal titolo " Più delusione che paura: gli scenari del dopo voto " e, a pag.2, l'intervista di Lorenzo Cremonesi ad Ahmed Yussuf Nuristani, governatore di Herat, dal titolo " I vostri soldati hanno lavorato bene ma sarebbe servito più coordinamento ". Dal GIORNALE, a pag. 15, l'articolo di Livio Caputo dal titolo " Un test per la politica della Casa Bianca ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 2, l'intervista di Alix Van Buren a Bruce Riedel, consigliere di Obama per Afghanistan e Pakistan, dal titolo "Solo un voto democratico porterà la pace". Ecco gli articoli:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Hillary: lavoreremo con chiunque vinca "
Hillary Clinton
Hillary Clinton promette di lavorare con chiunque sarà eletto a Kabul, il generale Stanley McChrystal si prepara a chiedere nuove truppe alla Casa Bianca e Robert Gates a fare altrettanto con gli alleati: l’amministrazione Obama lavora su più fronti per trasformare il risultato elettorale in un acceleratore della stabilizzazione dell’Afghanistan. Ma ha due timori: la scarsa affluenza alle urne e il ritorno in auge dei signori della guerra.
Il Segretario di Stato ha parlato alla vigilia dell’apertura delle urne sottolineando che «gli Stati Uniti sono pronti a lavorare con chiunque vincerà le elezioni» anticipando che l’intenzione è cooperare con il nuovo presidente per «migliorare il funzionamento del governo al fine di sconfiggere estremisti e terroristi». Il linguaggio di Hillary segna un distacco dal precedente forte sostegno dell’amministrazione Bush per Hamid Karzai e fa capire che la Casa Bianca di Barack Obama non ha pregiudiziali nei confronti dei maggiori sfidanti - Abullah Abdullah e Ahraf Ghani - nè dello scenario di un eventuale ballottaggio. L’approccio aperto al dopo-voto si spiega con la nuova strategia americana, basata sul rafforzamento delle istituzioni politiche nazionali parallelamente all’aumento della pressione militare contro i ribelli. Chiunque sarà infatti il nuovo presidente a Kabul si troverà a collaborare con Washington nella gestione di un’offensiva di autunno che si annuncia massiccia perché oltre ai 68 mila soldati di cui il Pentagono disporrà a partire da settembre, il generale Stanley McChrystal si appresta a chiederne ad Obama almeno altri 15 mila. Ciò significa prepararsi ad aumentare il controllo del territorio nelle regioni dell’Est e del Sud dove operano i taleban, andando incontro al rischio di maggiori perdite di vite umane, di soldati quanto di civili.
E’ questo lo scenario che spiega perché il ministro della Difesa Gates lavora a pieno ritmo ad una prossima conferenza di «generazione delle forze» per chiedere ai partner della Nato di andare oltre gli attuali 70 mila uomini, aggiungendo sul piatto anche maggiori risorse per la ricostruzione civile di settori economici considerati cruciali, come ad esempio l’agricoltura. Fonti militari a Washington confermano che «McChrystal sta per chiedere un aumento di truppe» e dunque il nuovo leader di Kabul si troverà a cogestire la fase più delicata del nuovo approccio di Obama: la riconquista dei villaggi che sono ancora nelle mani dei talebani.
Se Washington preme sull’acceleratore è perché punta a fare di settembre un mese di svolta nelle crisi regionali: non a caso ieri il presidente americano ha ricevuto alla Casa Bianca l’egiziano Hosni Mubarak annunciandogli l’intenzione di presentare un proprio «piano di pace per il Medio Oriente» in occasione dell’apertura della prossima sessione dell’Assemlblea Generale dell’Onu. La simultaneità fra ricostruzione afghana, iniziativa dplomatica in Medio Oriente e il summit di Pittsburgh del G20 con in agenda il nucleare iraniano preannuncia un settembre all’offensiva per la Casa Bianca.
Ma poiché il tassello cruciale resta l’Afghanistan su questo scenario incombono due incognite. Ad illustrare la prima è Admeh Rashid, il giornalista pakistano esperto di integralismo islamico, secondo il quale «la maggiore preoccupazione di Washington è l’affluenza alle urne» perché se nel 2004 andò a votare il 70 per cento degli aventi diritto e nel 2005 le elezioni per il Parlamento registrarono una partecipazione del 55 per cento «se dovessimo ora scendere al 30 per cento significherebbe che i taleban sono riusciti a indebolire la credibilità del nuovo Stato». D’altra parte la «campagna di attentati della guerriglia nelle ultime 72 ore - aggiunge Rashid - conferma che l’intenzione sia quella di tenere lontani gli elettori dai seggi, al fine di far apparire delegittimato chiunque uscirà vincitore dalla competizione».
L’altro timore di Washington porta il nome del generale Abdul Rashid Dostum, il signore della guerra uzbeko già leader dei mujaheddin dell’Alleanza del Nord tornato dalla Turchia per aiutare Karzai. «Abbiamo fatto presente al governo afghano i nostri timori per la prospettiva che Dostum abbia un qualsiasi ruolo nell’Afghanistan di oggi» ha fatto sapere il Dipartimento di Stato attraverso il portavoce Peter Crowley. Sono due i motivi per cui Washington non vede di buon occhio Dostum: il suo coinvolgimento nel massacro di centinaia di prigionieri afghani nel 2001 lo rende inviso alla maggioranza pashtun e il fatto che lo scenario di un ritorno d’influenza dei signori della guerra degli anni Ottanta potrebbe minare la ricostruzione a tappe accelerare che ha in mente il presidente Obama. Il ruolo di Dostum potrebbe diventare ancora più destabilizzante, secondo fonti a Washington, nel caso in cui si andasse al ballottaggio in ottobre, con la prospettiva del Paese in bilico fra due presidenti all’ombra delle milizie tagiko-uzbeke che non hanno mai smobilitato.
CORRIERE della SERA - Andrea Nicastro : " Più delusione che paura: gli scenari del dopo voto "
Antonio Giustozzi
KABUL — Che cosa accade fra due giorni in Afghanistan? Vincono i talebani obbligando la gente a non votare? Rivince (e convince) Karzai? E se invece qualcuno gridasse ai brogli? C’è la possibilità che Kabul si infiammi in un tutti contro tutti visto tante volte? E se, contro i pronostici, Karzai perdesse? Uno dei pochi ad avere la competenza per leggere nella sfera di cristallo dell'Afghanistan è Antonio Giustozzi, un «cervello» italiano fuggito all’estero. Ricercatore alla London School of Economics , 42 anni, Giustozzi è tra i più ascoltati esperti di cose afghane. I suoi saggi sono regolarmente saccheggiati dai think tank governativi per dare a politici e diplomatici le coordinate del mare afghano.
Vincono i talebani
«La leadership talebana — sostiene Giustozzi — non è direttamente entrata in gara. Le dichiarazioni, le minacce, gli attentati sono il minimo che potessero fare. Di fatto, però, hanno lasciato ampio spazio di manovra ai singoli comandanti. Questo senz’altro per un problema interno di frammentazione: ci sono i talebani vicini ad Al Qaeda ideologicamente contrari al voto e ce ne sono di più pragmatici.
Ma se il gruppo di comando centrale avesse voluto chiudere i seggi nelle vaste aree sotto il suo controllo avrebbe potuto farlo facilmente.
Invece ha permesso che alcuni leader trattassero con la famiglia Karzai una tregua ben remunerata per il giorno delle elezioni. Ad altri, è stato permesso di vendere pacchetti di voti. Ci sono addirittura comandanti talebani che fanno campagna per Ashraf Ghani — il candidato più filo-americano, ndr —. Per questo la bassa affluenza non dovrà essere letta come vittoria talebana. Se pochi andranno a votare sarà soprattutto per la delusione nei confronti del governo e della ricostruzione post-talebana. Non per le minacce».
Perde Karzai
«È lo scenario meno probabile. Possibile che sia costretto al ballottaggio con il tajiko Abdullah. Ma a quel punto il presidente vincerà di sicuro. Non tanto e non solo per una questione di consensi, ma perché ha in mano le leve necessarie a compiere brogli anche clamorosi.
Tutti i responsabili delle commissioni elettorali sono sotto il suo controllo. Ci sono sul mercato una grande quantità di certificati elettorali, vuol dire che c’è qualcuno che li compra. In un’elezione presidenziale non ha senso accaparrarsi un centinaio di voti, bisogna manovrarne centinaia di migliaia. E Karzai ha i mezzi necessari.
Già nelle presidenziali del 2004 gli osservatori neutrali avevano segnalato che in aree dove era stata registrata una partecipazione femminile del 40%, ai seggi non si era vista neppure l’ombra di una donna. Questa volta i voti femminili spostati dal capo tribù o dall’anziano di turno in cambio di denaro o favori saranno ancora più numerosi. Nelle campagne c’è stata una vera caccia alla registrazione di donne e giovani per poter disporre dei loro certificati elettorali. Non dovesse bastare tutto ciò, ci penseranno comunque i responsabili della macchina governativa truccando i numeri fino a garantire la rielezione del presidente».
Vince Karzai
«Il voto si sta polarizzando su base etnica in modo ancora più determinante che nel 2004. Per i pashtun, che sono etnia maggioritaria, Karzai è comunque il meno peggio. Per i tajiki invece questo voto è l’ultima spiaggia e si sono schierati compatti dietro al candidato Abdullah per tentare di mantenere un certo potere. Hanno ormai sperimentato la 'strategia del salame' di Karzai che taglia a fette il loro schieramento comprando o eliminando una fetta dopo l’altra. Ora è toccato al maresciallo Fahim. Poi toccherà ad altri e alle prossime elezioni non esisteranno più come gruppo.
Per questo davanti a brogli evidenti o a una vittoria risicata di Karzai potrebbero reagire. Il presidente a quel punto potrebbe rinviare di un anno o due il rimescolamento dei quadri al ministero della Difesa o dell’Interno dove i tajiki sono dominanti. Rinviare, non rinunciare. Perché anche Karzai sa che la presenza internazionale è diventata una questione di anni, non è più eterna e ha bisogno di un esercito che sia obbediente a lui e non ai tajiki eredi del comandante Massud».
Il GIORNALE - Livio Caputo : " Un test per la politica della Casa Bianca "
Casa Bianca
Come ci si aspettava, i talebani stanno compiendo un ultimo sforzo per impedire la riuscita delle elezioni presidenziali in programma domani: dopo avere minacciato di tagliare dita, orecchie e naso a chi si recherà alle urne e avere distribuito in molte province volantini per spiegare che la procedura è contro il Corano, ieri hanno compiuto una serie di attentati quasi senza precedenti per indurre la gente a restarsene a casa. La loro offensiva ha già fatto sì che circa 500 delle 7.000 sezioni allestite per i 15 milioni di elettori non apriranno neppure, che un altro migliaio sia considerato «ad alto rischio» e che le stesse autorità ammettano che la possibilità di brogli è molto elevata. Tuttavia, sia il governo, sia il comando Nato, sia il rappresentante dell'Onu si dimostrano fiduciosi che l'affluenza, anche se inferiore al 70% registrato nel 2004, sarà sufficiente a conferire la necessaria legittimità al vincitore. Il problema è che, stando agli ultimi sondaggi il presidente Karzai, pur restando il favorito con il 45% delle preferenze, non sembra in grado di ottenere la vittoria al primo turno; e andare al ballottaggio, già fissato per il 1° ottobre, significa dare ai talebani altre sei settimane per portare avanti la loro offensiva, con la prospettiva di altre centinaia di morti e - di conseguenza - di una più forte astensione.
Nel corso della campagna elettorale, sia Karzai sia i suoi due principali avversari, l'ex ministro degli Esteri Abdullah e l'ex ministro delle Finanze Ghani, si sono impegnati a lavorare per la pace, ma ci sono forti differenze sulla strategia da adottare: il presidente punta su un accordo a livello nazionale, attraverso la convocazione di una grande assemblea tribale cui verrebbero invitati anche alcuni leader islamisti, come il famigerato Hekhmatyar; Abdullah e Ghani privilegiano invece le trattative a livello locale, con l'obiettivo di indurre il maggior numero possibile di ribelli a rientrare nei ranghi. Su ogni tentativo di pacificazione, pesa comunque il veto Usa a qualsiasi intesa con gli elementi della rivolta legati ad Al Qaida, principali responsabili della moltiplicazione di attacchi suicidi.
Le elezioni rappresentano un test cruciale per Obama, che ha fatto della guerra in Afghanistan la priorità numero uno della sua politica estera e in sei mesi ha portato il numero dei soldati americani da 45 a 63mila, con l'obiettivo di restituire al controllo governativo una serie di province fin qui largamente controllate dai talebani. In un discorso ai veterani, il presidente ha ammesso che la campagna durerà a lungo e richiederà ulteriori sacrifici non solo da parte dell'America, ma anche dei suoi alleati. La Casa Bianca non è contraria ai negoziati, ma ritiene che essi possano avere successo solo se condotti da una posizione di forza, oggi ancora lontana. Perciò, in attesa di conoscere chi sarà il nuovo presidente (vista la difficoltà delle comunicazioni, i risultati sono attesi solo per il 3 settembre) continua a fare affluire truppe, con una doppia consegna: sradicare i talebani dai loro santuari e cercare di conquistare la fiducia delle popolazioni.
La STAMPA - Emanuele Novazio : " No alle exit - strategy "
Franco Frattini
Ministro Frattini, alla vigilia del voto Kabul è nel caos e Obama conferma che la guerra non sarà rapida. I nostri rinforzi resteranno anche dopo le elezioni?
«Dipenderà dall’assestamento post-elettorale. Per ora è previsto che restino per le elezioni, compreso un eventuale secondo turno. La cosa importante, oggi, è che le elezioni siano credibili: i nostri soldati hanno fatto un ottimo lavoro in questa fase critica».
Berlusconi avrebbe promesso a Obama di mantenerli come nostro contributo al «surge».
«Con Berlusconi e La Russa non si è parlato per ora di un prolungamento della loro presenza. Alla luce dei risultati elettorali si potranno fare nuove valutazioni. Di certo l’Afghanistan è la priorità numero uno della nostra politica estera. E siamo già il 4° contributore Nato: ieri ci è stata affidata la responsabilità per la formazione della polizia afghana nel quadro Nato, cosa che mi riempie di soddisfazione».
Non le sembra che sul terreno la Nato si trovi al punto in cui le truppe sovietiche erano 25 anni fa? I talebani non possono sconfiggerla ma non può vincere.
«La Nato è alla prova maggiore della sua credibilità dalla fine della guerra fredda: abbiamo preso un impegno e non possiamo lasciarlo incompiuto. Ma vi sono differenze notevoli rispetto a 25 anni fa: c’è un grande problema di sicurezza ma sono stati ottenuti grandi risultati, dall’adozione di una Costituzione al cambiamento di molte regole giuridiche all’avvio della riforma del sistema giudiziario: fatti che tolgono acqua all’estremismo talebano. E’ stato deciso inoltre di sostituire la policy della distruzione delle colture di droga con l’impianto di colture alternative. Fra i punti deboli, la difficoltà di distingere fra le organizzazioni talebane che rispondono a gruppi tribali e quelle legate ad Al Qaeda. Quando ci riusciremo potremo offrire ai gruppi tribali una strada per uscire dall’illegalità. Resta molto da fare: ecco perchè è sbagliato parlare di exit strategy domani. Sarebbe fare come i russi, che se ne andarono lasciando spazio ai talebani».
Non pensa che decisiva per il successo del voto sarà l’affluenza? Se sarà bassa i veri vincitori saranno i talebani.
«Il nostro obiettivo è l’omogeneità dell’affluenza: aree in cui fosse molto bassa indicherebbero che lì i talebani possono dettare legge. E oltre all’affluenza va considerata la conferma di molte sezioni in più rispetto al 2005».
Karzai è la scelta migliore?
«Non avevamo una leadership alternativa, dopo un investimento così forte su di lui la comunità internazionale non si è sentita di abbandonarlo. Ma non ha un assegno in bianco. Vogliamo che chiunque sia eletto fermi le preoccupanti espressioni di intolleranza, come la legge che prevede la sottomissione totale della donna, che stava per essere approvata ed è stata bloccata dopo l’intervento mio e di Hillary Clinton insieme al ministro norvegese. Non abbiamo sposato un candidato: vogliamo il presidente voluto dagli afghani.».
E il fattore brogli?
«Lo seguiamo da vicino. Abbiamo apprezzato la costituzione di una commissione elettorale indipendente, e oltre 1800 osservatori internazionali sono sul campo».
Resta coperta la carta iraniana.
«Sono convinto che la dovremo giocare in fretta. Avevo sostenuto con forza la necessità della collaborazione iraniana per la lotta al traffico di droga: oggi a Teheran opera un centro dell’Ufficio Onu contro la droga con la piena collaborazione iraniana. Teheran ha capito che è nel suo interesse lavorare sull’Afghanistan».
Gli Stati Uniti sembrano intenzionati a rivedere l’apertura all’Iran, in settembre. L’italia è pronta a sostenere nuove e più dure sanzioni e a chiedere alle nostre imprese di rallentare il loro impegno nel Paese?
«Sono sato io, in quanto presidente del G8 Esteri, a proporre che il 24 settembre si riunisca all’Onu un G8 dedicato all’Iran. Se la comunità internazionale volesse adottare una linea diversa e più rigorosa saremo leali. Sentiremo le proposte, senza immaginarcele ora che non ci sono ancora ».
L’inchiesta della Stampa ha mostrato riserve americane sulla nostra adesione al gasdotto South Stream. Le avevate previste?
«Non ci sono e non ci saranno malumori dell’amministrazione americana sulla politica energetica italiana: l’Italia ha una dipendenza energetica dalla Russia molto inferiore a quella di altri Paesi. Siamo al 30%, il resto arriva da Libia, Algeria e Paesi del Golfo: siamo fra i Paesi più diversificati d’Europa, molto più della Germania e della Polonia. E non siamo contrari al Nabucco: abbiamo partecipato a South Stream e al gasdotto che dalla Turchia arriva in Italia attraverso la Grecia perché hanno il gas o lo avranno nell’immediato futuro. Il Nabucco per essere alimentato deve avere il gas azero, che non c’è ancora, o il gas iraniano, al quale oggi è problematico pensare. Abbiamo aderito a due progetti nell’interesse dell’Italia e di molti altri Paesi europei. L’America sa che siamo e saremo un partner assolutamente leale, anche se negli anni governi di centro destra e centro sinistra hanno coltivato un’alleanza strategica con Mosca
Neanche gli inglesi hanno apprezzato.
«Londra critica, ma ha deciso di pompare gas dal North Stream, progetto russo tedesco criticato perché bypassa Polonia e Baltici, come il South Stream bypassa l’Ucraina».
CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " I vostri soldati hanno lavorato bene ma sarebbe servito più coordinamento "
Ahmed Yusuf Nuristani
HERAT — «Mancanza di coordinamento, peccato, un vero peccato. Con gli italiani c’è stata mancanza di coordinamento», sostiene aprendo le braccia il governatore di Herat, Ahmed Yusuf Nuristani. «Un paio di settimane fa ci eravamo accordati perché le truppe Isaf nella nostra regione si recassero a bonificare tutti i seggi contro la presenza della guerriglia talebana a partire da almeno 10 giorni dal voto. Ma questo non è avvenuto. Si sono mossi tardi. Solo negli ultimi tre o quattro giorni abbiamo visto una consistente attività militare nelle zone più difficili, non ultima quella di Ghozare, qui alla periferia meridionale di Herat, e poi nei settori caldi di Farah. Ma hanno fatto poco a Shindand, Kusikir Kiona e altre località controllate dai talebani. Non capisco come ciò sia potuto avvenire. Il fatto è che ne va di mezzo il processo elettorale». A sentire lui, ma ascoltando anche le repliche del generale Rosario Castellano, che comanda le truppe Nato-Isaf nell’intera regione occidentale, viene un poco il dubbio che cerchi di mettere le mani avanti, in vista di un possibile flop elettorale nella zona alle presidenziali di domani. «I nostri rapporti con il governatore e i maggiori responsabili militari e della polizia afghani sono ottimi. Ci sono incontri e contatti continui, quotidiani», fa sapere infatti Castellano tramite i suoi portavoce e ce lo aveva ribadito personalmente durante una lunga intervista due giorni fa. Eppure vale la pena di stare ad ascoltare Nuristani. Fedelissimo di Karzai, di cui fu portavoce dopo la guerra del 2001, è un politico navigato. Fu ministro delle Risorse idriche dopo le presidenziali del 2004 e poi vice ministro della Difesa, prima di diventare la massima autorità di Herat nel febbraio di quest’anno.
Non è il solo a chiedere «maggior coordinamento con i rappresentanti civili e militari italiani ». Ci hanno espresso richieste simili anche due tra i 20 deputati eletti nella regione di Herat nel 2005: Ahmad Bezat e Omar Samim. In particolare quest’ultimo, medico, presidente della Commissione Sanità al Parlamento di Kabul, non ha risparmiato le critiche per la «cattiva costruzione e gestione» di alcune strutture finanziate dalla Cimic (l’organo militare per il sostegno ai civili) e dalla Cooperazione Italiana come l’ospedale pediatrico e le attività di ristrutturazione dell’Ospedale Provinciale.
Incontriamo Nuristani invece in quello che è tra i fiori all’occhiello dell’aiuto italiano nella zona: il carcere femminile. È la sua prima visita ufficiale dall’apertura della struttura pochi mesi or sono. E lui non fa che magnificarla. «Ottimo, stupendo, sembra quasi un albergo di lusso», esclama camminando sulla moquette rossa e visitando la sala computer, gli stanzoni puliti, areati, le aree dove le prigioniere possono tessere tappeti, studiare inglese. Delle 106 detenute, molte giovanissime, che hanno spesso con loro i figli (la struttura ospita 84 bambini di età compresa tra pochi mesi e 10 anni), il governatore si limita a dire che in parecchi casi si tratta di adultere o ragazze madri «salvate» nel carcere contro i «delitti d’onore» perpetrati dalle famiglie in questi casi. Ma la sua preoccupazione fissa restano la crescita della violenza talebana e il pericolo che infici le elezioni. «Quattro anni fa Herat era la regione più calma del Paese. Poi sono cresciuti terrorismo e criminalità. Negli ultimi mesi, grazie alle nostre forze di sicurezza e agli italiani, la situazione era sembrata tornare sotto controllo. Ma da metà luglio ha ripreso a deteriorarsi e il voto è a rischio, almeno nelle zone rurali».
La REPUBBLICA - Alix Van Buren: "Solo un voto democratico porterà la pace "
Bruce Riedel
«La guerra in Afghanistan non è ancora perduta. Le elezioni domani saranno decisive nel determinare il futuro: intanto, dimostreranno se i Taliban hanno davvero il sopravvento militare; poi, se svolte con un margine di correttezza, restituiranno legittimità alla missione Nato. Se no, si spalancherà una crisi profondissima». Bruce Riedel conosce a menadito la questione. Trent´anni da analista alla Cia, già consigliere di due presidenti, Barack Obama giusto cinque mesi fa gli ha affidato il riesame della politica della Casa Bianca in Afghanistan e Pakistan.
Signor Riedel, l´America ha mollato Karzai, il suo cavallo preferito?
«Piuttosto, punta su più cavalli: su una gara vera. Insomma, su un´elezione legittima: afgana, non americana».
Lei s´aspetta dalle urne una sconfitta dei Taliban?
«Questo è dir troppo. Basterebbe un risultato credibile nelle aree dove i Pashtun non sono la maggioranza, e cioè nel 60 per cento dell´Afghanistan. Infatti i Taliban si presentano come un movimento di insorgenza nazionale; se invece risulterà che i loro potere è limitato all´etnia pashtun, beh significherà che sono in minoranza».
E questo basterà a cantar vittoria?
«Certo, che no. Ovunque lei volga lo sguardo, i Taliban sono in vantaggio rispetto alle forze internazionali. Però il voto può innescare un processo inverso: permettere alla Nato di recuperare il tempo perduto negli scorsi otto anni; far spazio alla strategia del presidente Obama, con il raddoppio delle truppe, dei consiglieri civili, con gli aiuti economici. I risultati, però, arriveranno fra due anni».
Due anni, signor Riedel? Sono lunghi in tempi di guerra.
«Questo dipende dalla politica interna dei Paesi schierati in Afghanistan. In America, se Obama potrà mostrare che il suo piano funziona, avrà il consenso popolare. Resta da vedere se gli alleati s´impegneranno di più. Lui dice: "Questa è una guerra che l´America deve vincere". Io aggiungo: ‘È la Nato a dover vincere´, perché il futuro dell´Alleanza si gioca in Afghanistan».
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