Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/08/2009, a pag. 2, la cronaca di Andrea Nicastro dal titolo " Kabul sotto il fuoco talebano. Razzi sul palazzo di Karzai ". Dal GIORNALE, a pag. 15, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " Le due donne che sfidano Karzai e la tradizione ". Dalla STAMPA, a pag. 4, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " L'ex mujaheddin che parla inglese e piace ai giovani ", l'articolo di Mimmo Candito dal titolo "Il 'sindaco di Kabul' diventato leader grazie ad un elicottero ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Così i “carri neri degli italiani” proteggeranno il voto afghano ". Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Andrea Nicastro : " Kabul sotto il fuoco talebano. Razzi sul palazzo di Karzai "
Razzi su Kabul
KABUL — «Al Hamdulillah — grazie a Dio — sono passato di lì proprio due minuti prima. Altrimenti...». Ieri Jawed, guardia armata di un ristorante, è entrato nella schiera degli afghani miracolati. Kabul ne è piena. Una volta erano le bombe del generale Rashid Dostum (oggi grande elettore del presidente Karzai) a cadere «proprio dietro l'angolo» oppure i razzi del comandante Massud (ispiratore di Abdullah, lo sfidante principale) a «sfiorare il tetto della mia casa ». Da qualche anno tocca alle auto-bomba dei talebani. Ieri Jawed ha sentito il botto dalla sua auto.
Si è fermato, è tornato indietro e ha visto il carnaio.
Almeno 10 le persone morte. Il kamikaze ha guidato in modo da accostarsi ad una vettura con l'insegna Onu appena uscita dalla sede della Commissione elettorale afghana e ha innescato l'esplosione. Due dei morti sono dipendenti locali delle Nazioni Unite, uno è un soldato britannico, gli altri sono civili, come la stragrande maggioranza dei 50 feriti. E' molto probabile che l'obbiettivo fosse proprio la Commissione elettorale, ma su via Jalalabad, la strada dei kamikaze, c'è solo l'imbarazzo della scelta. In 7 chilometri ci sono 5 basi militari straniere e una afghana. Con i seggi per scegliere il nuovo presidente che si aprono e chiudono giovedì, bombe e attacchi diventano politica. I portavoce talebani ribadiscono il «no» alle elezioni con minacce di ogni genere. L'ala militare rende l'ordine più convincente. In mattinata a Kabul, ancora prima dell'autobomba, erano piovuti razzi sul palazzo presidenziale e sul commissariato centrale di polizia. Per fortuna senza far danni, ma umiliando l'apparato di sicurezza. E Karzai ha dato il via libera a due decreti dei ministeri degli Esteri e dell'Interno, che nel giorno del voto vietano ai giornalisti di rendere conto di episodi di violenza o recarsi sul luogo di attentati. Bombardato ieri anche il quartiere amministrativo di Jalalabad e tre scuole che dovevano fungere da seggi elettorali a Logar, provincia pashutun come Kunar dove invece c'è stato un assedio di 15 minuti ad un'altra scuola e un' imboscata al convoglio che portava sedie e scatoloni per domani. Nella provincia di Farah, i soldati italiani sono stati attaccati con armi automatiche e razzi anticarro: nessuna vittima. L'offensiva integralista vuole dimostrare che nessuno è al sicuro.
E' di sabato l'autobomba davanti al quartier generale Nato, nel cuore di Kabul. La città è immersa nel traffico di sempre, ma la gente parla di paura. Sarà una giornata di sangue. Perché rischiare? E' ciò che vogliono i talebani. A campagna elettorale conclusa, i candidati continuano a lavorare. «Nella valle del Panshir, dove vive la mia famiglia — racconta il fruttivendolo Amon Jan — il maresciallo Fahim, candidato come vice di Karzai, promette agli anziani 50 dollari ogni voto a favore del presidente che verrà contato in quel distretto». La Bbc denuncia un mercato di schede elettorali più economico a Kabul: 1000 a 10 dollari l'uno. In teoria dovrebbe valere il principio «una persona, un certificato, un voto» tanto che per evitare i voti multipli si sporcherà di un inchiostro speciale l'indice di ogni elettore. Ma nelle campagne gli scrutinatori non fanno quasi mai rispettare la regola. E’ il capo famiglia che porta i certificati delle donne di casa e nessuno contesta il suo diritto a votare per loro. Manovrare pacchetti di voti è la via afghana al sistema di lobby. In cambio di un ponte, un pozzo, denaro, il capo clan concede l'appoggio del gruppo al candidato. Visto l'uso del pagamento posticipato, importante è scegliere il vincente. E Karzai, nonostante le critiche, sembra ancora essere il favorito.
Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Le due donne che sfidano Karzai e la tradizione "
Frozan Fana e Shahla Ata
Sono due temerarie, due fiori nel deserto, due sorrisi di speranza in una cupa e nera moltitudine di burqa. Ma non sono la punta di un iceberg. Sono solo due isolate eccezioni, due piccole insignificanti anomalie destinate a colpire la trasognata curiosità occidentale, ma a scomparire inosservate nella rassegnata normalità afghana. Si chiamano Frozan Fana e Shahla Ata sono le due uniche candidate donna di questa corsa alla presidenza e, non a caso, arrivano entrambe da famiglie di generali. I loro padri erano militari rispettati e temuti, al tempo dell’invasione sovietica, loro sono cresciute e hanno studiato in una Kabul lontana, fino all’avvento dei talebani, dalle tradizioni e dagli obblighi religiosi.
Ma nell’Afghanistan di oggi e ieri restano due corpi estranei, due candidati senza speranza. Per capirlo basta lasciarsi alle spalle la capitale visitare, come ha fatto chi scrive, i villaggi della Zamardan Valley a nord di Farah. Tra quelle trecento case di terra e paglia se chiedi al capo villaggio Haji Mohammed Hussein quante donne voteranno ti senti rispondere con una sola parola «nessuna». La successiva spiegazione è altrettanto semplice. «Qui nessuna donna riceve il certificato elettorale perché nessuna sente il bisogno di chiederlo e tantomeno di votare». Basta questa risposta per comprendere le reali possibilità delle due uniche candidate al di fuori della rarefatta atmosfera d’alcuni quartieri esclusivi della capitale. Dal punto di vista del messaggio e del coraggio l’esempio di Frozan Fana e Shahla Ata resta comunque esemplare.
La 40enne Fana, vedova del generale Abdul Rehman nominato ministro dell’Aviazione dopo la caduta dei talebani e misteriosamente assassinato nel 2002 sa bene di rischiare una fine simile a quella del marito, sa bene che un sicario potrebbe presto bussare alla sua porta. Soprattutto se continuerà, come ha in questi mesi, a invocare «un governo formato al 50 per cento da donne». In Afghanistan è già successo ad altre donne coraggiose colpevoli di presentare programmi musicali alla televisione, di servire nella polizia o di esser state elette in un consiglio provinciale. Ma Fana non si tira indietro. «La Costituzione prevede che tutti gli afghani possano candidarsi», risponde a chi le chiede il motivo della sua scelta. Nei comizi, invece, spiega ai pochi aficionados di volersi battersi per un Paese sovrano in cui regnino «pace, sicurezza e libertà di stampa».
La rivale Shahla Ata si spinge, se possibile anche più in là, supera tutti i limiti del rigido codice afghano. Allegra ed esuberante Shahla sfoggia un trucco scintillante, esibisce unghia laccate di un rosa shocking capaci di far inorridire i sostenitori della tradizione e infuriare i nostalgici dei talebani. Ma dietro quel trucco c’è lo stesso retaggio della rivale Fana, il privilegio di esser cresciuta in una famiglia benestante che le ha garantito una laurea in psicologia, un dorato esilio durante il medioevo talebano e lunghi anni di permanenza negli Stati Uniti. Esperienze che l’hanno segnata e ispirata. Esperienze che Shahla sogna di condividere con tutte le sue connazionali. Esperienze che nel suo messaggio elettorale si traducono in uno slogan semplice e inequivocabile. «In questo Paese per secoli il popolo ha messo alla prova i propri uomini, e per secoli non ha ottenuto nulla. Perché non provare a cambiare e vedere cosa sono in grado di fare le donne?».
La STAMPA - Maurizio Molinari : " L'ex mujaheddin che parla inglese e piace ai giovani "
Abdullah Abdullah
L’outsider delle elezioni afghane è Abdullah Abdullah, classe 1960, ministro degli Esteri di Kabul dopo la caduta dei taleban ed ex dottore personale del mitico comandante dei mujaheddin Masud, che fu assassinato dai kamikaze di Al Qaeda poco prima degli attacchi dell’11 settembre 2001.
Sceso in campo un anno fa contro Hamid Karzai, Abdullah scommette le sue possibilità su tre carte: l’identità etnica famigliare, il passato da combattente antisovietico e la proposta di condurre un dialogo «alla luce del sole» con i taleban pronti a voltare le spalle al mullah Omar. L’identità è quella ricevuta dai genitori: il padre pashtun originario di Kandahar, la città del Sud roccaforte dei taleban, e la madre tagika delle tribù del nord gli consentono di trovare ascolto nelle maggiori componenti etniche del Paese. Il passato da combattente contro l’occupazione sovietica è quello che esalta indossando il pakol, cappello tondo di lana emblema dei mujaheddin nei quali si arruolò a metà degli anni Ottanta nel campo profughi di Peshawar, in Pakistan, facendosi largo grazie ad fatto di essere un apprezzato dottore - specializzato in oftalmica all’ateneo di Kabul - fino a diventare il medico personale di Ahmad Shah Masud, il comandante dei mujaheddin dell’Alleanza del Nord che lo volle anche come consigliere politico, trasformandolo poi nel portavoce della resistenza contro l’Armata Rossa. A Masud piaceva il giovane pashtun-tagiko anche per il fatto di essere un poliglotta - è fluente in inglese e francese - e quando alla fine del 2001 l’Alleanza del Nord aiutò le forze armate americane a rovesciare il regime dei taleban del mullah Omar fu il nuovo presidente Hamid Karzai a volerlo come primo ministro degli Esteri.
Abdullah Abdullah in realtà afferma che le cose andarono un po’ diversamente, ovvero che fu lui alla conferenza internazionale di Bonn del dicembre 2001 a fare il nome di Karzai per guidare il dopo-taleban ma ciò che più conta è che i due leader hanno lavorato assieme, dividendosi il compito di dialogare con l’Occidente e rimettere in piedi la nazione. Fino alla rottura politica, avvenuta tre anni fa, quando Abdullah sollevò ripetute obiezioni nei confronti dell’eccesso di tolleranza di Karzai per la dilagante corruzione pubblica che oggi irrita l’amministrazione Obama. Nelle ultime settimane proprio questo è stato il suo cavallo di battaglia elettorale lamentando il fatto che «durante l’attuale presidenza i problemi non sono stati risolti ma si sono ingigantiti». Sostenuto dal Fronte Nazionale, il maggiore partito d’opposizione, Abdullah punta a raccogliere i voti dalle categorie più sofferenti della società afghana. In mente ha anche una riforma dell’amministrazione pubblica, proponendo di far svolgere elezioni locali nelle 34 province e nei 400 distretti in cui è suddiviso l’Afghanistan «al fine di aumentare il sostegno popolare per il governo centrale». Fino ad un mese fa l’amministrazione Usa non ne aveva preso troppo sul serio la candidatura ma poi sono arrivati due sondaggi indipendenti - realizzati da istituti americani - che accreditano la possibilità che riesca a strappare un numero sufficiente di voti a Karzai per obbligarlo ad affrontare il ballottaggio in ottobre, quando la partita potrebbe essere aperta. A rafforzare le speranze di Abdullah c’è soprattutto la folla di giovani e giovanissimi che lo segue ovunque vada.
La STAMPA - Mimmo Candito : " Il 'sindaco di Kabul' diventato leader grazie ad un elicottero "
Hamid Karzai
Hamid Karzai è quello che si dice un uomo fortunato. O, comunque, se è vero che ognuno nasce con il proprio destino già stampato addosso, ne ha avuto uno che meglio non ce n’è. Perché la morte lui l’ha sentita a un solo passo, un giorno di fine novembre del 2001, con i taleban che gli sparavano da ogni parte. E invece lui riuscì a cavarsela ugualmente.
La storia è interessante, perché lo ha portato poi a diventare presidente dell’Afghanistan. Il vero presidente sarebbe dovuto essere suo cugino, il comandante Abdul Haq, uno dei più coraggiosi mujaheddin della lotta contro l’Armata Rossa (gli dedicarono perfino un libro e un film). Ma il destino decise diversamente.
Haq e Karzai, in quel novembre 2001, mentre gli americani bombardavano i taleban con i B-52, ebbero assegnata una missione dal comando Usa: si chiamava «Operazione Ritorno del Re», e prevedeva la riconquista dell’Afghanistan dal basso (non dai cieli soltanto) con poi una monarchia transitoria e la nomina di un presidente. Il comandante Haq, appunto. Ebbero 5 milioni di dollari ciascuno, due jeepponi, 7 uomini, e un compito che non pareva nemmeno difficile con la gente delle montagne: comprarsi la fedeltà delle tribù pashtun, sganciandole dai taleban. Partirono di notte, senza luna, senza fari e senza un suono.
Contavano di lavorare in clandestinità, con le loro sacche di dollari da far diventare sempre meno pesanti. Ma fu un’illusione che durò nemmeno 48 ore, perché - nonostante la loro abilità militare, la forza convincente dei bigliettoni, e il prestigio che entrambi avevano presso la gente, pashtun come loro - qualcuno fece la spia. Haq montò il suo satellitare e parlò con il suo «contatto» di Peshawar. «Circondato. Mandate subito un aiuto, in nome di Allah». Però il destino volle che non ci fosse un solo elicottero in giro; il «contatto» riuscì a trovare solo un Ac-130, una cannoniera volante, che tirò sventagliate verso la vallata. Non poteva far altro. Il comandante, uomo di fegato come pochi, nella confusione montò a cavallo, mise di traverso sulla sella due borsoni di dollari, e tentò di sfondare l’accerchiamento.
Ma lo presero. E il mattino dopo lo impiccarono a un palo di Kabul. Ora sta sotto un piccolo tumulo di terra, non lontano dalla sua villa, alla periferia di Jalalabad. Un tumulo spoglio, non da chi doveva diventare presidente.
Anche Karzai, lo circondarono i taleban dopo che qualcuno l’aveva venduto. Ma il suo destino era fortunato. Montò il satellitare e lanciò l’Sos. La sorte volle che ci fossero pronti due Chinoook carichi di uomini e armi; mentre uno sventagliava di fuoco la montagna, l’altro calò due funi con un cappio, fece appendere alla vita Karzai e se lo portò via. Facendolo il nuovo presidente.
Karzai è stato un combattente coraggioso anch’egli, nella guerra contro l’Urss, e si dice che prese Kandahar senza sparare un colpo, convincendo i sovietici a uscire prima d’essere massacrati. Fu anche un uomo degli americani nella lunga fase di transizione; parla un ottimo inglese e viaggiò a lungo negli Usa. Ma come presidente non è riuscito a far granchè: ha ceduto alle pressioni dei signori della guerra indebolito da un regime di corruzione che ha coinvolto la sua stessa famiglia. E’ un uomo elegante, anche raffinato, ma si dice che sostanzialmente è stato «il sindaco di Kabul»; fuori, contava niente. Il generale Dostum disse: «Se osa venire a Mazar-i-Sherif, lo prendo a calci in culo».
Il FOGLIO - " Così i “carri neri degli italiani” proteggeranno il voto afghano"

Campagne militari attorno alle urne L’operazione Eastern Resolve condotta da 500 militari americani e afghani nel distretto di Naw Zad, a Helmand, ha completato il ciclo delle offensive tese a strappare ai talebani il controllo di porzioni di territorio per consentirvi l’istituzione dei seggi elettorali. Successi militari che, specie nelle aree rurali di Helmand, non garantiscono che la popolazione pashtun si recherà al voto sfidando le rappresaglie talebane. Nel settore ovest a guida italiana i parà della Folgore hanno consolidato i successi conseguiti a Bala Murghab, nella provincia di Badghis, dove tra maggio e luglio sono stati uccisi centinaia di talebani e circa 350 – tra loro decine di “arabi” di al Qaida – si sono ritirati verso nord. L’imminenza del voto ha indotto le truppe italo-afghane a sospendere l’offensiva sia per lasciare spazio a un’intesa con i capi tribù locali sia per la necessità di schierare le forze a protezione dei seggi. Nel corso di una vivace “shura” tenutasi il 10 agosto nella sede del governatore distrettuale di Bala Murghab, le autorità governative di Kabul hanno garantito aiuti economici in cambio della fine delle ostilità. Una sorta di tregua, nata dalle batoste subite dai talebani contro i parà del 183° reggimento Nembo guidato dal colonnello Marco Tuzzolino, che gli anziani pashtun garantiscono soltanto fino agli immediati dintorni della cittadina. Le strade di Farah Se a Badghis gli scontri sembrano rimandati a dopo le elezioni, nella provincia di Farah i paracadutisti del 187° reggimento e i bersaglieri del 1° devono combattere quasi ogni giorno per migliorare la sicurezza nei centri abitati lungo tre rotabili (Ring road e strade 517 e 515) sulle quali sono frequenti le imboscate e gli attentati degli insorti arroccati soprattutto nell’area di Shewan. L’ultima operazione è di ieri quando le truppe italiane e afghane impegnate a “bonificare” l’area di Pusht Rod, 30 chilometri a nordest di Farah City, sono state attaccate da forze talebane respinte con forti perdite dai corazzati Dardo dei bersaglieri (i “carri neri degli italiani” come li hanno ribattezzati i talebani) e da una coppia di elicotteri da attacco Mangusta. In quest’area i 420 militari del colonnello Gabriele Toscani De Col sono schierati sulle basi di Farah City, Bala Baluk e Shauz dalle quali le pattuglie mantengono i collegamenti con i check-point della polizia e dell’esercito afghano. Sfida elettorale Per contrastare il jihad proclamato contro le elezioni, gli 800 rinforzi italiani e spagnoli e i due battaglioni di parà già presenti schierano un ampio cordone di sicurezza che ha raggiunto anche Shindand, a sud di Herat, dove da novembre sarà presente un intero battaglione italiano. Operazioni sono in corso anche nel villaggio di Siashown, roccaforte del capo talebano Ghulam Yahya a pochi chilometri da Herat, da dove nei giorni scorsi sono stati sparati una ventina di razzi contro la base alleata di Camp Arena e l’aeroporto. A protezione dei seggi nell’ovest sono mobilitati oltre 4.000 militari alleati e 13.000 soldati e poliziotti afghani ai quali si aggiungono 800 ausiliari reclutati presso le tribù e pagati dal ministero dell’Interno. Non potendo coprire tutta la regione, grande come il nord Italia, il generale Rosario Castellano punta sulle aree più popolate. I dati restano fluidi ma secondo le ultime valutazioni su 1.014 seggi elettorali nelle quattro province occidentali 90 non sono operativi per ragioni di sicurezza e circa 150 sono in forse. I seggi saranno presidiati dai poliziotti, le truppe afghane affiancate dai consiglieri italiani e americani garantiranno la “difesa areale” e le forze alleate metteranno a disposizione forze di reazione rapida. I dieci distretti protetti dalle compagnie della Folgore sono quelli più caldi situati sulla Ring road lungo 600 chilometri tra Bala Murghab e Farah, sorvegliati dal cielo dagli occhi elettronici di 4 velivoli teleguidati Predator.
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