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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
18.08.2009 Barack Obama : ' La missione in Afghanistan non sarà facile '
Cronache e analisi di Maurizio Molinari, redazione del Foglio, Mattia Bagnoli, Lorenzo Cremonesi

Testata:Il Foglio - La Stampa - Corriere della Sera
Autore: La redazione del Foglio - Maurizio Molinari - Mattia Bernardo Bagnoli - Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Così il mullah Omar spinge l’Afghanistan verso la guerra civile - La missione non sarà facile - I mariti non mandano mogli e figli a votare -Nella regione di Herat molti seggi saranno chiusi»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 18/08/2009, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Così il mullah Omar spinge l’Afghanistan verso la guerra civile ". Dalla STAMPA, a  pag. 5, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " La missione non sarà facile " e, a pag. 4, l'articolo di Mattia Bernardo Bagnoli dal titolo " I mariti non mandano mogli e figli a votare ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 16, l'intervista di Lorenzo Cremonesi al generale Rosario Castellano dal titolo " Nella regione di Herat molti seggi saranno chiusi ". Ecco gli articoli:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " La missione non sarà facile "

In Afghanistan la missione non sarà veloce né facile». Barack Obama sceglie la platea dell’Associazione dei veterani di guerra, riuniti a Phoenix in Arizona, per far sapere all’America che le elezioni in programma dopodomani a Kabul sono solo un piccolo passo verso la ricostruzione del Paese e la sconfitta dei taleban alleati di Al Qaeda. «Quella in Afghanistan non è una guerra che abbiamo scelto, siamo stati obbligati a combatterla perché è da lì che Al Qaeda lanciò gli attacchi contro l’America l’11 settembre 2001 e se i taleban dovessero tornare al potere ci minaccerebbero ancora, perché c’è chi continua a complottare contro di noi» ha detto il presidente, plaudendo all’opera delle forze armate che «nelle ultime settimane stanno applicando una nuova strategia, portando i combattimenti contro i taleban in città e villaggi dove la popolazione civile è stata terrorizzata per anni». Ma si tratta di un conflitto lungo, la cui conclusione non è in vista, anche perché «i leader di Al Qaeda sono in remote regioni del Pakistan». «I taleban non sono nati nello spazio di una notte e non saranno sconfitti nello spazio di una notte» e dunque l’America «deve prepararsi ad affrontare nuove difficoltà» guardando oltre l’appuntamento degli afghani con le urne «quando potranno scegliere liberamente il governo che vogliono».
Dietro le parole di Obama ci sono i contatti in corso con il Pentagono sulle scelte che incombono: subito dopo le elezioni il generale Stenley McChrystal, comandante delle truppe in Afghanistan, farà avere al ministro Robert Gates le proprie «raccomandazioni» ed è opinione comune che chiederà l’invio di ulteriori truppe, da aggiungere ai 30 mila soldati di rinforzo già disposti dal presidente Obama all’inizio dell’anno. Non è un caso che Obama nel discorso ai veterani abbia sottolineato la necessità di impiegare i militari in nuovi compiti «da sindaci ad amministratori a diplomatici», al fine di stabilizzare le aree di crisi. Ci è riuscito il generale David Petraeus in Iraq nel 2007 e McChrystal punta a ripeterlo in Afghanistan, ma però gli serviranno risorse ingenti, umane ed economiche. Obama spera di riuscire a convincere gli americani a moltiplicare gli sforzi in Afghanistan, anche se gli ultimi sondaggi indicano un indebolimento del sostegno popolare: secondo un rilevamento della tv Cnn, i contrari sono oramai il 54 per cento a fronte del 41 per cento di favorevoli. Una brusca inversione di tendenza rispetto agli ultimi anni. Per tentare di superare il momento di incertezza, Obama chiede agli americani di fare quadrato, adoperando un linguaggio che ricorda quello del predecessore George W. Bush: «La nostra strategia ha una missione chiara e un obiettivo definito: distruggere, smantellare e sconfiggere Al Qaeda e i suoi alleati estremisti»

Il FOGLIO - "  Così il mullah Omar spinge l’Afghanistan verso la guerra civile"

Roma. Nel gennaio 2005 al Qaida in Iraq guidò una campagna antielezioni vasta e aggressiva per tenere lontani i sunniti dal voto nazionale che avrebbe formato il Parlamento di Baghdad. Oggi la situazione si ripete in Afghanistan: al posto dei sunniti ci sono i pashtun, concentrati nel sud e nell’est del paese, e al posto degli sciiti ci sono le altre etnie coalizzate, i tagichi ma anche gli hazara e gli uzbechi, concentrate a nord. Il mullah Omar e il suo vice esecutivo, il mullah Baradar, vogliono replicare nelle province meridionali che sono maggiormente sotto il loro controllo quella strategia del superterrorista al Zarqawi nelle province sunnite: impedire il voto soprattutto agli amici, e non ai nemici. In Iraq i sunniti, con il loro scontento e il loro senso di dignità perduta, erano il serbatoio d’arruolamento naturale per al Qaida. In Afghanistan oggi i pashtun, con il loro sciovinismo tribale e il rancore mai spento contro l’Alleanza del nord, sono un uguale serbatoio d’arruolamento per i talebani. L’obiettivo non è il fallimento delle elezioni afghane di questo giovedì su scala nazionale – sanno di non averne le forze – ma il fallimento del voto pashtun. Tanto, pensa la leadership talebana, queste elezioni sono un fatto inevitabile. Ritorciamole contro l’occidente: teniamo lontana la nostra gente, lasciamo che vincano gli altri e che occupino tutti i posti, e che il potere politico dei pashtun a Kabul sia grandemente menomato. Se questo succederà, dopo le elezioni il risentimento pashtun contro i gruppi rivali crescerà ancora, e la guerriglia talebana sarà rafforzata: la violenza sembrerà la soluzione legittima per riprendersi il potere caduto in mano agli avversari. Omar e Baradar vogliono di nuovo il vecchio Afghanistan spaccato in due e quindi ingovernabile come ai tempi della guerra fratricida e interminabile che seguì il ritiro dei sovietici. “Taglieremo il dito imbrattato di inchiostro a chi va a votare, e anche il naso e le orecchie”, dicono i volantini lasciati dai guerriglieri nelle città popolose del sud, Kandahar in testa. Il dato diffuso dai giornali sul 10 per cento dei seggi afghani già dichiarati inagibili per motivi di sicurezza si riferisce tutto a queste zone. Gli ultimi giorni di campagna elettorale si giocano attorno al problema pashtun. Il presidente uscente, Hamid Karzai, dato per favorito, nel sud è deriso pur essendo pashtun. Appartiene ai “Panshiri-zai”, ironizzano i detrattori. Ovvero è della tribù (che in pashto si dice “zai”) dei Panshiri, i tagichi della valle del Panshir che sono gli avversari più diffidenti dei pashtun. In pratica, Karzai è un venduto. Il boicottaggio imposto dai guerriglieri di fatto danneggerebbe proprio lui. Capito di non avere più l’appoggio della sua etnia, che pure nel 2005 lo portò alla presidenza, ha chiamato a sé il generale uzbeco Dostum, massacratore di pashtun richiamato dal suo esilio turco (“per cure mediche”, dice il signore della guerra), una mossa che gli farà guadagnare qualche voto a nord, il dieci per cento addirittura secondo alcuni analisti, ma lo alienerà ancor più dai suoi. Il diretto rivale, il mezzo tagico Abdullah Abdullah, che forse riuscirà a trascinarlo al ballottaggio, non è messo meglio: ha provato a far valere il fatto di avere un padre pashtun, ha perfino azzardato qualche frase in un comizio a Kandahar. Con un disastroso effetto boomerang del tipo: vorrei sembrare uno dei vostri, ma sbaglio completamente l’accento. Ieri, nella capitale, è andata meglio: la calca era così entusiasta che ha fatto crollare una torre per le riprese tv. Ashraf Ghani, il terzo candidato, è un pashtun puro, ma ha lavorato alla Banca mondiale. E’ considerato irrimediabilmente americanizzato. .

La STAMPA - Mattia Bernardo Bagnoli : " I mariti non mandano mogli e figli a votare "

A pochi giorni dalle elezioni è scattata in Afghanistan l’emergenza-scrutatrici: milioni di donne rischiano di ritrovarsi escluse dalle politiche di giovedì prossimo perché viene loro proibito di recarsi ai seggi dove gli scrutatori sono solo uomini. Il grande esercizio di democrazia della nazione afghana rischia d’incepparsi a partire dall’ingranaggio principale: il suffragio universale.
«Se metà della popolazione non può partecipare, le elezioni non potranno essere considerate valide», dice all’«Independent» Orzala Ashref, direttrice dell’Afghan Women’s Network. Il problema è serio. Gli attivisti delle associazioni a sostegno dei diritti femminili stimano che la Commissione elettorale (Iec) abbia bisogno di reclutare 13 mila donne entro tre giorni. La Commissione ha rifiutato di esprimere giudizi sulle cifre ma stando al quotidiano britannico - che sostiene di aver avuto accesso a documenti ufficiali - il «buco» sarebbe in realtà una voragine: mancherebbero all’appello oltre 42 mila unità.
«Ci vogliono più donne ai seggi - ha detto Wazhma Frogh, attivista di spicco delle associazioni per i diritti civili -, altrimenti gli uomini non lasceranno uscire mogli e figlie di casa». La Iec ha lanciato un appello tra le Ong per raggiungere il «quorum» necessario. Non solo. I funzionari hanno proposto di reclutare anziani e ragazzi per rimpolpare le file degli scrutatori e degli addetti ai controlli - cioè chi deve eseguire le perquisizioni all’ingresso dei seggi elettorali. Un’ipotesi giudicata deleteria dai più. «Siamo del tutto contrari - dice ancora Orzala Ashref -. Le donne britanniche si sentirebbero a loro agio ad essere perquisite dai maschi? Da noi è una questione ancora più delicata».
Il problema dei numeri che non tornano è ancora più grave nel distretto del Sud-Est, dove sui libri della Commissione sono registrate solo 2564 scrutatrici a fronte dell’obiettivo - fissato dalla stessa Iec - di 13.400 unità. Meno del 20 per cento. «Siamo molto preoccupati - ha confidato Niamtullah Khan, un contadino di 57 anni -. La maggior parte dei miei vicini è contraria a lasciar andare le donne in questi posti, dove può succedere di tutto. Io sono a favore del cambiamento ma non permetterei mai a mia moglie, a mia figlia o a mia sorella di entrare in un edificio dove ci sono solo uomini». Il rischio è che, se le donne non sono messe in condizione di recarsi alle urne, il pater familias si incarichi del voto di tutti.
Secondo l’«Independent» in cinque distretti la registrazione ai seggi delle donne ha sorpassato quella degli uomini - complice il fatto che le tessere elettorali femminili sono sprovviste di fotografia per rispettare la tradizione. «E la cosa ancora più grave - dice un diplomatico occidentale - è che, dove più si sono avute difficoltà a trovare scrutatrici, si registra un surplus d’iscrizioni al voto da parte delle donne».

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " Nella regione di Herat molti seggi saranno chiusi "

 Rosario Castellano

HERAT — «Sui 1.014 seggi situati nella regione occidentale, posta sotto il comando militare italiano, almeno 90 dovrebbero restare chiusi e altri 150 sono a rischio per causa delle mi­nacce talebane». Parla molto schietto il generale della Brigata Paracadutisti «Folgore» Rosario Castellano, respon­sabile del Regional Command West, circa un quarto dell’intero territorio afghano. Arrivato a metà primavera, oggi comanda i circa 5.000 soldati del contingente Nato-Isaf (di cui 2.500 italiani) e sta mettendo a punto gli ultimi dettagli in vista delle elezio­ni presidenziali di dopodomani. Ieri ci ha ricevuto per quasi due ore nel quartier generale presso l’aeroporto di Herat.
Generale, i talebani alzano la te­sta anche nella zona di Herat, che è sempre stata una delle più calme del Paese. La popolazione chiede protezione. Che fate?
«Noi operiamo assieme alle nuove forze di sicurezza afghane. Da tre giorni è tra l’altro in corso una grossa offensiva nel distretto di Ghozare e in particolare contro il villaggio di Siashown, qui alla periferia meridio­nale di Herat. Il capo talebano locale, Ghulam Yahya, che minacciava i seg­gi e chi decidesse di votare, è stato at­taccato da una forza composta di 106 poliziotti e 144 militari afghani, soste­nuta da 300 uomini di Isaf tra italiani e spagnoli. Il figlio di Yahya, il 32en­ne Zacharia, è stato ucciso».
Come vi siete organizzati per cer­care di garantire il voto?
«Isaf lascia che siano i poliziotti a presidiare i seggi, sino a 8 in quelli più problematici. All’esterno stanno le truppe regolari afghane. Noi abbia­mo pronte forze di intervento veloce. Ma in cinque distretti — Bala Mur­ghab, Mokur, Ab Ikamari, Kadis e Ba­la Baluch — i nostri uomini sono di­spiegati direttamente con i militari af­ghani e saranno particolarmente so­stenuti dalla nostra aviazione».
E cosa fare con i poliziotti collusi con i talebani?
«Lo so. È un problema. Ci sono sta­ti casi in cui abbiamo scoperto che al­ti ufficiali afghani collaborano con gli insorti. Rischiamo le imboscate. Il rimedio è spesso rivelare loro solo al­l’ultimo minuto i nostri piani».
Quanti potrebbero decidere di non votare per paura?
«Sui circa 3,5 milioni di abitanti nella regione occidentale, gli aventi diritto al voto sono più di un milione e mezzo. E il 90 per cento si sono iscritti. Un successo, il tasso più alto del Paese. Ma gli astenuti potrebbero raggiungere il 30 per cento».
Tanto, significa almeno 450.000 astenuti.
«I talebani operano nelle zone più densamente popolate. E con loro ci sono numerosi stranieri legati ad Al Qaeda, circa 350 su qualche migliaio di insorti: ceceni, iraniani e turchi. Di­pendono dalla shura (il consiglio) di Quetta, in Pakistan, quella comanda­ta dal Mullah Omar. Prima stavano soprattutto nel Sud, nelle regioni di Helmand e Kandahar. Ma le recenti offensive lanciate da americani, ingle­si e canadesi li hanno spinti a salire verso Nord, nelle nostre zone lungo il confine iraniano e ora si allargano verso il comando tedesco di Mazar El Sharif. Da noi, nel Sud, specie nella zona di Farah, hanno affinato le tecni­che delle bombe, spesso telecoman­date con anche 60 chili di esplosivo. Nel Badghis, a Nord, preferiscono in­vece le imboscate. E qui sono i volon­tari stranieri a guidare i combatti­menti in modo anche molto profes­sionale. Noi non siamo da meno. Or­mai da tempo i nostri soldati non si limitano più a rispondere solo al fuo­co. Ma la situazione è difficile».
E che ruolo ha l’Iran?
«Il tema è molto delicato. Gli ira­niani sono interessati a un Afghani­stan stabile, temono il mercato della droga. Il loro consolato di Herat rice­ve 600 richieste di visto al giorno. Pu­re la nostra intelligence sta esaminan­do armi, razzi e proiettili di fabbrica­zione iraniana trovati tra gli insorti».

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