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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
17.08.2009 Afghanistan : i talebani minacciano: 'Colpiremo i seggi elettorali'
Cronache, analisi, interviste di Maurizio Molinari, Andrea Nicastro, Emma Bonino, Lorenzo Cremonesi, Richard Holbrooke

Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Andrea Nicastro - Emma Bonino - Lorenzo Cremonesi - Maurizio Molinari - Richard Holbrooke
Titolo: «Kabul, i talebani minacciano: 'Colpiremo i seggi elettorali' - I guerriglieri vogliono alzare la posta per sedersi più forti al tavolo del negoziato - Le alleanze pericolose con ' i signori della guerra' - Il soldato Jane al fronte combatte meglio dei mas»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 17/08/2009,a pag. 2, la cronaca di Andrea Nicastro dal titolo " Kabul, i talebani minacciano: «Colpiremo i seggi elettorali» " e la sua intervista al generale Marco Bertolini dal titolo " I guerriglieri vogliono alzare la posta per sedersi più forti al tavolo del negoziato ", a pag. 3, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " Le alleanze pericolose con ' i signori della guerra' ", a pag. 10, il commento di Emma Bonino dal titolo " L’impunità per i criminali di guerra mette a rischio il futuro dell’Afghanistan ". Dalla STAMPA, a pag. 2, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Il soldato Jane al fronte combatte meglio dei maschi ", a pag. 3, l'articolo di Richard Holbrooke dal titolo " Dalle urne uscirà un governo più forte ". Ecco gli articoli :

CORRIERE della SERA - Andrea Nicastro : " Kabul, i talebani minacciano: «Colpiremo i seggi elettorali» "

KABUL — Ci sono voluti 8 an­ni dalla caduta dell'Emirato taleba­no, ma anche in Afghanistan sono arrivati i confronti pre-elettorali. Ieri, sulla tv pubblica Rta , tre can­didati a cronometro: tre minuti per ogni argomento. L'evento è di quelli da guinness, dato che con il mullah Omar non solo le discussio­ni, ma proprio la televisione era bandita. Unica concessione alla sto­ria, la pausa per la preghiera del tramonto, poi sotto con altre do­mande. A confrontarsi c'erano il candi­dato più occidentalizzato, l'ex Wor­ld Bank Ashraf Ghani, il tagliente Ramazan Bashardust, accreditato di un possibile terzo posto, e il fa­vorito, il presidente in carica Ha­mid Karzai. Per l'imparziale mode­ratore solo «seb», signore. Due i grandi assenti: il dottor Abdullah, sfidante principale, erede del grup­po del comandante Massud, e il mullah Omar. L'ex oftalmologo di­ventato mujaheddin era troppo im­pegnato nei suoi bagni di folla, in cui dice già (pericolosamente) «ho già vinto». Sono molti a paventare un post-voto all'iraniana, ma con i kalashnikov al posto dei braccialet­ti verdi. Il capo dei talebani, inve­ce, si è fatto sentire anche senza bi­sogno di tv: a Ferragosto con una jeep-bomba sulla porta del quar­tier generale Isaf-Nato a Kabul (7 civili morti e un'ottantina di feriti) e ieri pomeriggio con lettere e tele­fonate ai media dei suoi portavo­ce. «Afghani, non andate ai seggi — ha fatto sapere l'ex emiro —, po­treste rimanere vittima dei nostri attacchi. Nessuno deve partecipa­re a questo procedimento, il voto è cosa da kafir — infedeli — e con­trario ai precetti islamici. Chi vota verrà punito».
Nel confronto televisivo di ieri, l’argomento principale non poteva che essere quello della sicurezza e della crescen­te minaccia talebana. Karzai si è mostrato impacciato. Gli av­versari l'hanno attaccato sulla corruzione e l'inefficienza del suo governo, criticando anche il suo team elettorale, infarcito di «signori della guerra». «Ter­minologia sbagliata» si è dife­so goffamente il presidente. E i talebani? «Sono 4 anni — ha detto Karzai — che lavoriamo
ad una grande jirga — assem­blea — di riconciliazione. Ora i tempi sono finalmente maturi, ora anche Paesi come l'Arabia Saudita, il Pakistan e gli Stati Uniti sono disponibili a questa soluzione». Primo a ribattere è stato l'«americano» Ghani: «Molti afghani si uniscono ai talebani perché scontenti di questo governo e con loro si può negoziare. Ma con chi combatte per ragioni ideologi­che, non c'è dialogo che tenga, bisogna sconfiggerli con le ar­mi. Prima però dovranno chiu­dere le prigioni americane in Afghanistan, dovrà cambiare lo Stato maggiore dell’esercito e i nostri soldati e poliziotti do­vranno avere migliori equipag­giamenti e stipendi». Ancora più sferzante l'indipendente Bashardust: «Tutti dicono di voler trattare con i talebani, ma nessuno ha chiesto la loro opinione. Credete davvero che il mullah Omar voglia diventa­re ministro di un prossimo go­verno Karzai o Ghani o Bashar­dust? Il mullah Omar ci vuole morti, non presidenti»

CORRIERE della SERA - Emma Bonino : " L’impunità per i criminali di guerra mette a rischio il futuro dell’Afghanistan "

 Emma Bonino

Caro direttore, quando il 20 agosto andranno alle urne per le seconde elezioni presidenziali dalla caduta dei talebani, gli afgani valuteranno con attenzione i candidati e soppeseranno i vantaggi di un futuro regime democratico. Alla vigilia di questa delicata scadenza, in Italia si è acceso un dibattito centrato principalmente sulla presenza militare, intervallato da parole d’ordine populiste. Il problema del ruolo e delle regole d’ingaggio delle forze Nato è sì un aspetto importante, che richiederebbe un dibattito serio, ma non è il solo. Anche se i contingenti militari presenti riusciranno a neutralizzare i tentativi dei talebani di impedire il regolare svolgimento del voto, la comunità internazionale non avrà aiutato l’Afghanistan nel processo di costruzione dello Stato di diritto se non affronterà la questione dei criminali di guerra, che dopo le elezioni potrebbero acquisire posizioni chiave in seno alla nuova amministrazione.
Dalla fine del regime dei mullah, nel 2001, le istituzioni statali sono state troppo spesso influenzate dalla presenza di personaggi dal passato più che discutibile, molti dei quali signori della guerra che hanno commesso atrocità nei confronti del loro popolo. In un Paese dilaniato da anni di guerra, sarebbe da ingenui pensare di escludere dal processo politico chiunque abbia avuto o mantenga legami con gli ex combattenti.
Se nessun leader talebano venisse coinvolto l’instabilità del Paese crescerebbe, alimentata dal denaro proveniente dal traffico illecito di droga.
La vera questione sta quindi nel processo di selezione degli interlocutori, perché coinvolgere i responsabili delle violenze del passato sarebbe come dire al popolo afgano che nulla è destinato a cambiare e che l’impunità sarà sempre il principale parametro di giustizia. La comunità internazionale dovrebbe impegnarsi concretamente nella ricostruzione del Paese, per offrire la possibilità di formare una classe dirigente adeguata a confrontarsi col mondo di oggi.
Sul fronte della giustizia penale le basi per lo sviluppo di un ordinamento conforme agli standard internazionali sono state facilitate dal lavoro congiunto della Commissione indipendente afgana
sui diritti umani, organo previsto dalla Costituzione del Paese ma indipendente, e di «Non c’è Pace Senza Giustizia», che hanno realizzato un progetto di mappatura del conflitto. Attraverso le testimonianze di oltre 7.000 persone, intervistate in tutte le 34 province afgane, è stato possibile ricostruire i crimini commessi dal 1978 ad oggi, gli spostamenti delle bande di guerriglieri, gli schemi di conflitto delle fazioni in lotta. Questo materiale sarà utile a chi studierà la storia dell’Afghanistan e delle violazioni dei diritti umani commesse in quel Paese, ma soprattutto rappresenta il presupposto per l’identificazione dei criminali di guerra.
Se davvero l’Europa e gli altri Stati che dicono di voler lavorare per la stabilità della regione intendono attuare misure utili a far uscire l’Afghanistan dalla spirale di violenza, devono smettere di favorire l’impunità, evitando per quanto possibile che i colpevoli assumano posizioni di potere e promuovendo la riconciliazione, anche attraverso la ricostruzione e lo sviluppo economico del Paese.
Il rapporto della Commissione indipendente offrirà gli strumenti per avviare il processo di costruzione di un ordinamento giuridico equo, ma se l’immobilismo dell’Unione Europea e degli altri Paesi coinvolti si protrarrà all’indomani del voto, qualsiasi speranza in un futuro democratico per gli afgani verrebbe meno e lo scenario regionale si complicherebbe ulteriormente.

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " Le alleanze pericolose con ' i signori della guerra' "

KABUL — Incognita maggiore resta la violenza, il peso delle minacce talebane contro i seggi e chiunque si recherà a vo­tare. A primavera gli stessi ufficiali della Nato paventavano che forse addirittura nel 40% del Paese la guerriglia avrebbe imposto il suo diktat. Ora si limitano ad un più sobrio 8-10%, soprattutto nelle zo­ne desertiche delle province di Kan­dahar, Helmand, Kunar, Lowgar, Wardak e Ghazni.
Ma a condizionare i risultati delle pre­sidenziali del 20 agosto emergono molti altri fattori. «La sfiducia nell’apparato sta­tale; la corruzione imperante nell’ammi­nistrazione pubblica; la crescita della cri­minalità; il ritorno dei vecchi signori del­la guerra ora alleati con Hamid Karzai», li riassume Aharoun Mir, direttore del «Centro afghano per la ricerca e lo studio della politica» a Kabul. A detta di Saad Mohseni, giovane direttore di Tolo , la più popolare tv privata, conseguenza di tutto ciò è la ricaduta dell’Afghanistan nei tempi bui del passato. «Quando vie­ne a cadere l’autorità statale, la polizia è corrotta, gli ospedali non funzionano, mancano le strade, i tribunali non garan­tiscono la certezza della pena e l’econo­mia ristagna, inevitabilmente la popola­zione chiede protezione agli antichi siste­mi di organizzazione sociale, che qui so­no le appartenenze etniche, le tribù e la famiglia. I talebani prendono il posto dello Stato. È triste dirlo, ma que­ste presidenziali sono molto più condizionate dal fattore etnico-tribale che non quelle dell’ottobre 2004 o delle parlamentari nell’estate 2005», sostiene amaro.
Tra tante incertezze, ecco alcuni dati si­curi resi noti dalla Commissione Parla­mentare afghana. «È importante notarlo, tra i fatti positivi: nel passato furono l’Onu e le truppe della coalizione Usa-Na­to- Isaf a organizzare il voto. Questa volta sono gli afghani, con il nostro sostegno esterno per le questioni legate alla sicu­rezza », dice l’ambasciatore Fernando Gentilini, rappresentante civile della Na­to presso il governo afghano. Sono state
approntate circa 6.500 stazioni di voto per 16,7 milioni di elettori già registrati, 41% donne (su una popolazione di circa 28 milioni, composta per il 68% da cittadi­ni con meno di 30 anni). I candidati presi­denziali sono 36, tra cui 2 donne. «Ma queste non hanno alcuna possibilità di successo. Sono in lista solo perché piace agli occidentali», sostengono in tanti. Si voterà anche per il rinnovo dei 34 Consi­gli Provinciali: 3.324 candidati, di cui 342 donne. Nel 2005 erano stati 3.200, com­prese 286 donne.
L’opinione più diffusa è che Karzai venga rieletto, però in seconda battuta e con una molto minore affluenza alle ur­ne. L’altra volta lo scrutinio era stato a Ka­bul e nei centri provinciali, ora la prima conta dei voti avverrà ai seggi. L’annun­cio ufficiale dei risultati è previsto per il 7 settembre. Gli ultimi sondaggi danno Karzai vincente con il 45% delle preferen­ze, se dovesse registrarsi una partecipa­zione simile alla precedente, che fu di cir­ca il 74% degli iscritti. La legge elettorale prevede però la necessità della maggio­ranza del 50 più uno. L’ultima volta otten­ne il 54. Se la previsione è confermata, ora si dovrebbe dunque andare al ballot­taggio, previsto i primi di ottobre.
Un periodo elettorale molto lungo quindi, con la possibilità di gravi scontri interni. Le accuse di brogli, già nell’aria, rischiano di delegittimare l’intero proces­so democratico. Karzai ha trascorso alti e bassi da cardiopalma negli ultimi mesi. Dato vincente ai tempi dell’amministra­zione Bush, ha vissuto come un tradi­mento il primo periodo della presidenza Obama. Ed è allora che si è dimostrato un disincantato stratega, tessendo una lunga serie di alleanze con i più contro­versi «signori della guerra», che incarna­no gli anni sanguinosi dello scontro civi­le. Convinto che in Afghanistan trionfi l’antico detto per cui «solo un pashtun può governare con successo», Karzai ha dunque scelto come primo vice presiden­te Mohammad Qasim Fahim, il generale tagiko imputato della morte di migliaia di civili durante la guerra tra milizie mujaheddin negli anni ’90. Altra alleanza molto criticata, quella con il generale uz­beko Abdul Rashid Dostum, responsabi­le tra l’altro dell’eccidio a sangue freddo di centinaia di prigionieri talebani nella piana di Mazar El Sharif nel 2001.
Secondo stime ufficiose del 2004 e rite­nute credibili dalla Cia, il 42% degli afgha­ni sono di etnia pashtun, seguiti dal 27 di tagiki, 9 hazara, 9 uzbeki, 3 turcomanni e 2 baluchi. La base elettorale di Karzai è anche incentrata tra i pashtun di Kan­dahar, dove però ora dominano i taleba­ni. Il presidente uscente ha dunque biso­gno di rafforzare le alleanze con le altre etnie, a qualsiasi prezzo. Mossa che sem­bra pagare. Il diretto avversario, l’ex mini­stro degli Esteri dell’Alleanza del nord, il tagiko Abdullah Abdullah, è al 25% delle preferenze. L’altro sfidante, Ashraf Gha­ni, è fermo al 5. Nelle ultime ore i due contendenti principali hanno cercato di ingraziarselo. Ma Ghani incontrandoci nella sua abitazione chiarisce subito: «Correrò da solo. Nessun altro merita la mia alleanza».

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Il soldato Jane al fronte combatte meglio dei maschi "

L’11 per cento dei soldati combattenti americani in Afghanistan e Iraq negli ultimi sette anni sono donne, nonostante la riluttanza del Congresso a impiegarle in prima linea e le limitazioni imposte dai regolamenti militari. Ad alzare il velo sulla loro presenza nelle unità combattenti è un’indagine del «New York Times» secondo la quale su due milioni di soldati al fronte, 220 mila erano donne: sono morte in 121, 66 con le armi in mano.
La presenza di donne in divisa in operazioni a rischio è stata una conseguenza della particolarità degli interventi militari in Afghanistan e Iraq, con le truppe impegnate in zone urbane, obbligate a costanti contatti con la popolazione civile e ad attività di antiguerriglia per identificare i terroristi. Le donne-soldato sono diventate una necessità perché sono le uniche a poter perquisire le donne sospette di collaborare con gruppi terroristi. L’esposizione al rischio di attacchi delle retrovie americane nelle aree urbane ha poi trasformato di fatto in combattenti anche soldatesse assegnate a reparti di comunicazioni, trasporti o intelligence. A ciò bisogna aggiungere la carenza di reclute che obbliga il Pentagono a mandare in prima linea chiunque sia pronto a farlo, donne comprese.
Le conseguenze sono state un costante aggiramento dei regolamenti militari, con espedienti come quelli di affidare a donne-ufficiali la guida di reparti in «zone di rischio» ma non in «operazioni di guerra» oppure assegnandole al comando di mitragliatrici sui blindati ma non alla loro guida, o al comando di pezzi d’artigliera a lunga gittata ma non di mortai per tiri ravvicinati. Senza contare gli artifici lessicali che hanno consentito di «aggregare» donne alle unità di combattimento senza «includerle» a pieno titolo. Il risultato è stato l’abbattimento del muro che fino al 2001 relegava le donne fuori dalle operazioni di contatto diretto con il nemico: sono così arrivate decorazioni come la Stella di Bronzo per il maggiore Kellie McCoy, che fra il 2003 e il 2004 guidò una compagnia di genieri in Iraq salvando 12 commilitoni dal fuoco nemico, due Stelle d’Argento ad altrettante eroine in Afghanistan e la promozione a generale a quattro stelle di Ann Dunwoody, la prima a salire così in alto nella gerarchia militare, dove oggi ci sono ben 57 donne con il grado di generale o ammiraglio.
La maggioranza delle donne soldato restano però impegnate nelle basi in patria, nelle retrovie o nelle unità di intelligence. E tra quelle mandate in prima linea c’è chi lamenta abusi sessuali o svela una gravidanza inattesa per poter tornare a casa. Ma la novità delle donne combattenti è ormai talmente visibile da obbligare il Congresso a rivedere una legislazione tanto restrittiva quanto superata dai fatti. «Dobbiamo prendere atto che le forze armate sono come qualsiasi altra corporation, chi ci lavora vuole assumersi dei rischi per poter arrivare a comandare» dice Loretta Sanchez, deputata democratica nella California nella commissione Forze Armate della Camera, mentre il repubblicano John McHugh, che il presidente Obama vuole come Segretario dell’Esercito, sostiene la necessità di «abolire le limitazioni alle donne in zona di guerra» riconoscendo il fatto che «sono diventate indispensabili alle nostre forze armate».

La STAMPA - Richard Holbrooke : " Dalle urne uscirà un governo più forte "

 Richard Holbrooke

Quando il presidente Barack Obama aveva annunciato la sua nuova politica afghano-pachistana, l’obiettivo dichiarato era colpire, sconfiggere e smantellare Al Qaeda in Afghanistan e in Pakistan, e impedire il suo ritorno in futuro in qualunque altro Paese. Ma se il nostro obiettivo è sconfiggere, distruggere e smantellare Al Qaeda, presente soprattutto nel Pakistan, perché siamo così concentrati sull’Afghanistan? Il legame è semplice: Al Qaeda e i taleban sono legati. L’Afghanistan è un fertile territorio di reclutamento per i taleban, e offre ad Al Qaeda terreno dal quale operare. A meno che i taleban afghani non rinuncino esplicitamente ad Al Qaeda, combattono di fatto gli uni per gli altri. Sono alleati. Il segretario di Stato degli Stati Uniti Hillary Clinton ha detto che appoggeremo l’integrazione nella società afghana di chiunque se, dopo aver combattuto con i taleban, rinuncerà a seguire Al Qaeda e accetterà di deporre le armi. Ma oggi abbandonare la lotta in Afghanistan significa abbandonare anche la lotta contro Al Qaeda.
Si dice spesso che il problema dell’Afghanistan non sia tanto la forza dei taleban quanto la debolezza del governo di Kabul. Non sapremo il nome del vincitore delle presidenziali la sera del 20 agosto. Ci vorrà un po’ per raccogliere le schede e portarle a Kabul. Sicuramente ci saranno dispute sul voto, come in tutte le democrazie. Nessuno si aspetta da queste elezioni un livello di perfezione che spesso nemmeno noi americani riusciamo a ottenere. Ma alla fine del processo postelettorale la comunità internazionale chiederà al governo di Kabul di rinvigorire - o avviare, se il vecchio governo cederà il mandato - programmi che vanno dallo sviluppo agricolo per rimpiazzare le coltivazioni di papaveri, all’amnistia, dalla lotta alla corruzione ai problemi delle donne e della sicurezza.
Il problema singolo maggiore è rinforzare la polizia. In ogni guerriglia o insorgenza terroristica non si riesce ad ottenere progressi fino a che la polizia non assume un ruolo chiave nel mantenimento della sicurezza, dopo che i militari hanno fatto piazza pulita degli insorti.
In generale però, ci stiamo muovendo nella direzione che volevamo. Dopo diversi rinvii, si stanno per tenere le elezioni. Man mano che i militari avanzano e colpiscono i taleban, si indeboliranno anche i legami tra questi e Al Qaeda. E se ci aggiungiamo importantissimi eventi in Pakistan - come l’assassinio, almeno in apparenza, del comandante Baitullah Mehsud nel Sud Waziristan e la lotta interna scoppiata tra diverse fazioni dei suoi seguaci dopo la sua scomparsa - vediamo che la situazione è ad una svolta.
Si dice anche che non si potrà vincere in Afghanistan fino a che i taleban e Al Qaeda non godranno di rifugi nelle zone tribali del Pakistan. Sono d’accordo con questa premessa, anche se preferisco la parola «successo» alla parola «vittoria». Questa guerra non si concluderà a bordo della Missouri o attorno al tavolo di una qualche conferenza a Ginevra. I rifugi in Pakistan sono cruciali, ed è per questo che il presidente Obama e il segretario Clinton hanno unificato la politica verso questi due Paesi nelle mani di un solo inviato della diplomazia americana. Ma le cose stanno cambiando. La fine di Baitullah Mehsud è molto importante. Non sappiamo ancora come andrà a finire. Abbbiamo sentito di contrasti tra i suoi seguaci. Al Qaeda deve decidere il da farsi, perché Baitullah Mehsud era di fatto un suo sussidiario indipendente. E quindi la sua morte è una buona notizia. Ma altrettanto importante è la notizia che i pachistani, almeno la loro maggioranza, si stanno consolidando nel rifiuto dei taleban e di al-Qaeda.

CORRIERE della SERA - Andrea Nicastro : " I guerriglieri vogliono alzare la posta per sedersi più forti al tavolo del negoziato "

 Marco Bertolini

KABUL — Il generale Marco Bertolini è un uomo coraggioso, non si tira mai indietro, nep­pure quando gli farebbe comodo. È uno dei po­chi soldati italiani a cui si possono fare doman­de dirette e aspettarsi risposte altrettanto chia­re. Da gennaio è numero due dell’intera missio­ne Nato-Isaf, incontrarlo a Kabul è un’occasio­ne ghiotta. A Ferragosto il suo ufficio ha trema­to (letteralmente) per lo spostamento d’aria (l’«effetto dinamico» direbbe lui) dell’auto­bomba talebana esplosa a meno di 400 metri.
Generale, il suo capo, l’americano Stanley McCrystall, dice che i talebani sono più ag­gressivi e l’inviato speciale della Casa Bianca Richard Holbrooke rincara la dose sostenen­do che la minaccia fondamentalista si esten­de in zone dell’Afghanistan prima tranquille. Perché quasi 100mila soldati internazionali stanno perdendo?
«Vedo McCrystall tutti i giorni e so che non pensa affatto che stiamo perdendo. Quello che lui dice è che la minaccia è seria e richiede una presenza prolungata nel tempo».
Qualcuno ha parlato di trent’anni.
«Bah, sopra i cinque anni, la durata massi­ma di un mandato politico, può valere tutto».

Ma militarmente parlando?

«Ogni giorno che passa è un giorno in me­no, perché l’esercito e la polizia afghana cresco­no. Noi italiani stiamo per mandare altri 200
tra carabinieri e finanzieri proprio per accelera­re l’afghanizzazione del conflitto».
Lei crede ai manuali?
«Sì».

Allora secondo le teorie anti-insurreziona­li qui servirebbe mezzo milione di soldati. Centomila sono stranieri, 175 mila sono af­ghani tra soldati e poliziotti largamente im­preparati. Con questi numeri non se ne esce.
«Nei sogni di ogni comandante c’è quello di avere valanghe di uomini a disposizione. Ne servono 500mila? Perché non un milione o due? Il problema è avere successo con quello che si ha a disposizione e noi ci stiamo riuscen­do » .
Ma se McChrystall e Holbrooke...
«L’ho detto, ci vuole tanto tempo e tanta co­stanza. Sono solo tre anni che siamo nella par­te meridionale del Paese. Occhio non vede, cuo­re non duole. Se non ci fossimo andati oggi
non staremmo a raccontarci di un Paese fuori controllo » .
Però il peggioramento c’è stato. Lo scorso luglio 828 attentati esplosivi (Ied), più del doppio rispetto all’anno prima.
«L’estate è sempre stato un periodo difficile. A fine agosto, vedrà, sarà peggio. Ci saranno tanti seggi, tanto personale in movimento, grande esposizione».
Anche nel luglio 2008 era estate.
«Mi spiego. Se io fossi un talebano oggi avrei diecimila motivi in più per essere iperatti­vo. Il governo afghano parla di 'riconciliazio­ne', vuol dire che dopo il voto qualcuno verrà a chiedermi, a me talebano, di fare la pace. Più mi dimostro forte, più vantaggio avrò a seder­mi al tavolo. L’insieme di queste variabili tecni­che, stagionali e politiche creano questo mo­mento di seria minaccia».
Seria minaccia? Anche lei ha paura a pro­nunciare la parola «guerra»? Ieri Londra ha pianto il caduto numero 204 dall’inizio della missione.
«Gliela dirò nel modo più chiaro possibile, così mi lascia tornare al mio lavoro. Qui ci tro­viamo a combattere un’insurrezione che vuole abbattere il legittimo governo afghano. Non si tratta di criminalità, ma di gente motivata, ad­destrata, equipaggiata militarmente. Proprio mentre stiamo parlando si combatte e si muo­re ad Helmand, Khandahar, nell’Est del Paese. Noi italiani non stiamo operando a Scampia, ma a Farah e Bala Murghab, dove per esprime­re dissenso non si firmano mozioni parlamen­tari, ma si tirano cannonate».

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