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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Il Foglio Rassegna Stampa
13.08.2009 Afghanistan: gli anziani della Shura andranno a votare nonostante la minaccia dei talebani
Cronaca di Gian Micalessin, analisi della redazione del Foglio

Testata:Il Giornale - Il Foglio
Autore: Gian Micalessin - La redazione del Foglio
Titolo: «Tra gli anziani della Shura minacciati dai talebani: 'È un rischio ma voteremo'»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 13/08/2009, a pag. 14, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " Tra gli anziani della Shura minacciati dai talebani: 'È un rischio ma voteremo' " e dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo "  In Afghanistan senza complessi ". Ecco gli articoli:

Il GIORNALE - Gian Micalessin : "Tra gli anziani della Shura minacciati dai talebani: 'È un rischio ma voteremo' "

 Talebani

Bala BalukArrivano. Barbe bianche e turbanti candidi, sciame d’ovatta e anziana saggezza nella polvere antica di Bala Baluk. Entrano tra guardie afghane, sentinelle italiane, sguardi americani. Sono gli anziani, i capi villaggio, le autorità tribali. Da loro dipende l’ultima parola, la disponibilità dei civili, il voto di un distretto che non è proprio un bel posticino. I 140 metri per 40 della base italiana di Bala Baluk con gli annessi e connessi d’esercito afghano e polizia addestrata dagli americani sono uno dei pochi luoghi a prova di talebani. Dentro questo ex aeroporto sovietico appoggiato alla ring road, la sterminata distesa d’asfalto anello di congiunzione tra i principali centri del Paese, il capitano Gianluca Simonelli, comandante della 6ª compagnia Grifi del 187° Reggimento della Folgore, attende gli anziani. Da questa shura, da questa assemblea alla presenza di capi di polizia, esercito e comandanti italiani e americani dipende la riuscita delle presidenziali del 20 agosto in questo rovente distretto della caldissima provincia di Farah.
«Qui tra minacce talebane e disagi da affrontare per arrivare alle urne c’è il rischio che nessuno voti. Quaggiù - riconosce il capitano Simonelli - si prevedevano 30 sezioni, ma al massimo possiamo difenderne tre, una l’apriremo nella base, le altre due nelle guarnigioni di polizia della valle di Zamardan e lungo il fiume Farah Rud». Per votare, insomma, oltre a sfidare i talebani bisognerà anche sobbarcarsi svariati chilometri di viaggio. «Oggi tutto dipende dal nostro amico colonnello Hamkhar – ammette il capitano -: se convince gli anziani si vota, se no salta tutto». Dentro la sala il colonnello Mohammad Zaher Hamkhar, un ex mujaheddin antisovietico al comando del 2° Kandak, un battaglione addestrato dalla Folgore, ce la mette tutta. «Il futuro dipende solo da voi, siate coraggiosi, ignorate le minacce, convincete la gente a votare e avrete elettricità, acqua, scuole. Oggi le donne non possono esser curate perché mancano i medici femmina, se voterete avremo le dottoresse per curare le vostre figlie e le vostre mogli». Le parole rimbombano nella sala, 44 mani si lisciano i menti lanuginosi, sgranano i rosari, annodano i turbanti, gonfiano di tabacco guance e narici. I 44 occhi squadrano il colonnello, il capitano dei rangers americano Chris Potter e il capitano Simonelli. Mezz’ora dopo, quando l’ultimo, ottimo argomento del colonnello si consuma in raucedine le 22 barbe d’ovatta restano immobili come candide stalattiti, pensierosi come un oracolo alla sentenza.
Il capitano Romanelli fa gli scongiuri. «Qui la sponda sud del fiume Farah Rud, la zona più verde e fertile è coltivata ad oppio e corrisponde con le zone talebane, lì ci sono Dizak, Shanjang, Sheik Ik Lala, Kal Qala, Qary Ye Sirak, Siah Jangal, i villaggi dell’area rossa di Shiwan dove la mia compagnia ha combattuto più di una battaglia e dove la polizia afghana neanche entra». Haji Maluk lo fa subito capire. «Per noi votare è un rischio, quelli sono arrivati nel villaggio dicendoci di non votare, voi ci fate sempre le stesse promesse, ma fin qui abbiamo visto assai poco, per arrivare ai seggi c’è tanta strada da fare, chi accompagnerà vecchi e donne, chi ci garantirà la sicurezza nei giorni a venire? Chi garantisce che non ci lascerete soli?». Un’altra barba grigia chiede «scuole, acqua, elettricità, sicurezza». Un baritono urla «almeno mandateci i pullman». Uno strillare rauco impreca «non abbiamo neppure le schede».Già, le schede. Il capitano Simonelli allarga le braccia. «Quello è proprio un rebus, qui non c’è stato un censimento, nessuno sa dove il governo le ha distribuite». Mentre la rissa d’opinioni si stempera nel silenzio, il 68enne Haji Allahluddin Khan s’aggiusta il turbante e scodella la sentenza. Quella di grande anziano e suprema autorità. «Per noi è difficile, rischioso e faticoso. Noi speriamo che i seggi siano molti più di tre, ma anche se ne farete uno solo voteremo comunque. Questo governo ha asfaltato la ring road, ci ha dato la strada, per arrivare a Kabul ci volevano due giorni oggi bastano sei ore, quindi stiamo meglio di prima. Verremo a votare anche se ci sarà un solo seggio».
In quella chiusa c’è tutta l’inattesa fiducia per il presidente Hamid Karzai, l’uomo più odiato dai talebani, il più discusso dagli occidentali dopo cinque anni di corruzione, ruberie e malgoverno. Qui poco conta. Qui la voce finale ha già scelto l’ordine costituito e la shura s’adegua. Persino Ghulam Shah, grande capo di Warria, un villaggio del rinato ordine talebano dove i soldati del capitano Simonelli non sono mai riusciti a metter piede, canta le lodi del presidente, garantisce il voto delle proprie genti. Simonelli tira il fiato, Mohammed Daud comandante locale dell’Nds, i servizi segreti afghani, non sembra altrettanto fiducioso. «In questa provincia i talebani hanno un governatore ombra che si chiama Said Ayub. A Sheiwan, a 25 chilometri da qui, ieri sono arrivati con i megafoni e hanno promesso di farla pagare a chiunque andrà a votare. Lì sono in almeno 300, a comandarli c’è un ex di Guantanamo, gli americani lo hanno liberato e lui è tornato a far guai. Lì dopo il voto chi girerà con il dito sporco d’inchiostro rischia di non tornare a casa vivo».

Il FOGLIO - "  In Afghanistan senza complessi "

 Soldati in Afghanistan

Arrivano le elezioni in Afghanistan fra una settimana ed è arrivato anche il momento di abbandonare i sensi di colpa. Ci raccontano che nel paese siamo un corpo estraneo, che è meglio lasciare la soluzione ai paesi vicini, che lo scenario è troppo intricato per immischiarci. C’è un settanta per cento di frottole. Un sano contingente di militari occidentali – che non parlano nemmeno le lingue del posto, sperabilmente – è quanto di più igienico il paese può sperare di avere a breve termine. I soldati fulminano i cattivi, proteggono la popolazione, sorvegliano strade ed edifici vulnerabili. Tutte ottime cose rispetto a quel che stanno facendo i paesi dell’area. I segni delle interferenze untuose dei vicini sono dappertutto, a guastare la vita degli afghani. Il Pakistan, protettore dei pashtun del sud, da sempre agisce a Kabul sotto il livello minimo di decenza. Il problema talebani ha sopra una gigantesca etichetta con scritto “Made in Islamabad”: se i pachistani non avessero giocato con il fuoco negli anni Novanta, oggi l’Afghanistan potrebbe essere una meta turistica come negli anni Sessanta. Almeno dovrebbero smettere adesso, considerato che Rawalpindi (la capitale militare) ancora oggi con una mano riceve gli aiuti occidentali e con l’altra aiuta i guerriglieri del Mullah Omar (esule in Pakistan, naturalmente). Criptocandidato del Pakistan alle elezioni: il presidente del Parlamento Mirwais Yazini. L’India, simpatizzante dell’Alleanza del nord, sapendo che ogni suo intervento in Afghanistan fa impazzire di gelosia il Pakistan ci si è gettata a capofitto: ha concesso un miliardo e mezzo di dollari di aiuti, ha steso un’autostrada che rende inutile quella che porta verso il Pakistan, ha persino costruito il Parlamento afghano. Criptocandidato indiano: Abdullah Abdullah, il diretto sfidante del presidente Karzai, appoggiato anche dall’Iran. Se fosse per i vicini, l’Afghanistan si lacererebbe tra nord prevalentemente tagiko e sud pashtun, come già prima. Il soldato occidentale – e italiano – non è un intruso, è il garante della (poca) stabilità afghana.

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