Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Che cosa ci fanno 18,5 miliardi dell’Iran in un container ad Ankara? Cronaca e analisi della Rezione del Foglio, Pierluigi Battista, Isabella Bossi Fedrigotti
Testata:Il Foglio - Corriere della Sera Autore: La redazione del Foglio - Pierluigi Battista - Isabella Bossi Fedrigotti Titolo: «L'impunità dei regimi - Quelle solitarie eroine dei diritti umani che hanno imparato a non arrendersi»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 12/08/2009, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Che ci fanno 18,5 miliardi dell’Iran in un container ad Ankara? ". Dal CORRIERE della SERA, in prima pagina, l'editoriale di Pierluigi Battista dal titolo " L'impunità dei regimi " e, a pag. 12, l'articolo di Isabella Bossi Fedrigotti dal titolo " Quelle solitarie eroine dei diritti umani che hanno imparato a non arrendersi ". Ecco gli articoli:
Il FOGLIO - " Che ci fanno 18,5 miliardi dell’Iran in un container ad Ankara?"
Roma. In quest’estate iraniana c’è una storia che parte come un thriller hollywoodiano e nessuno ancora sa come finisce. Il 7 ottobre 2008 un businessman iraniano chiamato Esmael Safarian Nasab manda in Turchia un carico con 20 tonnellate d’oro e dollari in contanti suddivisi in banconote da 100, per un valore complessivo di 18,5 miliardi di dollari. Secondo alcune fonti il container fa prima tappa in Germania, secondo altre arriva direttamente ad Ankara. Quale che sia stato il tragitto, una volta arrivato in Turchia il tesoro di Nasab non viene denunciato alle autorità. Secondo Senol Oseb, l’avvocato turco di Nasab, il suo cliente ha evitato di fornire dettagli sul contenuto della spedizione “per evitare lungaggini e rogne”. Due partner di Nasab o semplicemente due corrieri avrebbero dovuto ritirare il container all’arrivo, ma fiutata aria di pericolo sono fuggiti al primo finanziere sospettoso. Scoperto durante un controllo di routine il carico sarebbe stato fermato dalle autorità turche. Il condizionale è d’obbligo perché da qui in poi si infittiscono le voci. Il primo a tentare di dissipare la nebbia è stato il giornalista turco Ibrahim Yazici che per il suo scoop ha puntato insinuando che Recep Tayyip Erdogan non soltanto era a conoscenza della preziosa spedizione, ma l’aveva anche avallata e caldeggiata. Yazici ha alluso alla circostanza che Erdogan, parlando degli investimenti stranieri in Turchia durante la recessione, ha citato come cifra proprio 18,5 miliardi di dollari. Un po’ poco come pistola fumante. Il ministro Hayati Yazici ha smentito le accuse, addirittura negando che la fortuna di Nasab sia mai arrivata in terra turca. A stretto giro di posta, il ministero dell’Intelligence iraniano, (Vevak) ha chiesto all’ambasciata iraniana ad Ankara di accertare i fatti. Il “chiarimento” è arrivato in tempi record.“Non esiste alcun container” e la stampa è stata subito messa in guardia dalla pubblicazione di notizie false e tendenziose. “Nasab è un businessman stimato che ha trasferito i suoi soldi in Turchia legalmente” spiega Oseb. Voleva beneficiare della nuova legislazione turca sugli investimenti stranieri” una legge entrata in vigore a novembre un mese dopo la spedizione. Insomma spiega l’avvocato “il container esiste eccome”. Non solo, il suo assistito è pronto a partire per la Turchia per rivendicarne la proprietà. Fonti iraniane del Foglio sostengono invece che il carico non doveva fermarsi ad Ankara. Oseb però non ha altro da aggiungere e si schermisce modesto “sono inconsapevole della dimensione internazionale della vicenda” . Tra i tanti interrogativi irrisolti restano senza risposta i quesiti più importanti. Chi è davvero Esmael Saffarian Nasab? Chi copre, per chi lavora? Quale era la destinazione finale di quei 18,5 miliardi di dollari e di chi sono? In Iran montano le ipotesi più fantasiose: il capitale di Nasab è la prima pietra di un’alleanza turco-persiana, la prova di un tentativo dei mullah di comprare Obama, o più prosaicamente un fondo per le emergenze della dirigenza iraniana o il risultato di una maxi ruberia di qualche mullah- tycoon o di un’agenzia dei pasdaran. La guerra al ministero dell’Intelligence Ma c’è un’altra spy story che tiene banco in questa densa estate iraniana mentre i turbanti si mangiano tra loro e i capitali fuggono in cerca di porti più sicuri. E’ la guerra per il regno delle spie, la lotta per il controllo del ministero dell’Intelligence. Casus belli l’allontanamento del capo del dicastero, Gholam Hossein Ejei. Secondo i giornali conservatori sul siluramento di Ejei hanno pesato vecchie ruggini: l’arrendevolezza nei confronti di Hossein Mousavian, ex negoziatore nucleare che Ahmadinejad avrebbe voluto inquisire per spionaggio o l’eccessiva morbidezza palesata dal ministro nei confronti delle iraniane di cittadinanza americana, l’accademica Haleh Esfandiari e la giornalista Roxana Saberi ( anche se, in quest’ultimo caso lo stesso Ahmadinejad si era pronunciato favorevole a un gesto di clemenza). Ma nella resa dei conti nel quartier generale dell’intelligence pesa soprattutto la rivalità tra Vevak e pasdaran. Prima delle elezioni il ministero degli Esteri ha sottolineato che un numero sospetto di persone stavano arrivando in Iran dalla Gran Bretagna, ma gli uomini di Ejei non hanno raccolto il suggerimento. Secondo i consiglieri del presidente la conseguenza è stata che gli agitatori della regina hanno così potuto agire indisturbati. Ovviamente anche la gestione della crisi post elettorale non ha ricevuto l’avallo di Ahmadinejad, convinto non senza qualche ragione che molti al ministero tifassero per Mir Hossein Moussavi, che del resto è stato tra i fondatori della Vevak. Ejei è stato definito “inefficace e negligente”, ma più ancora della sua supposta magnanimità, un ritratto assai inverosimile per chi ha seguito la sua carriera dal temuto seminario Haqqani all’inflessibile Corte speciale per il clero, sulla sua dipartita ha influito la devozione del ministro a Khamenei. Invece di correre a riferire al suo presidente nei giorni caldi delle manifestazioni, Ejei ha fatto la spola con l’ufficio di Khamenei criticando le iniziative non concordate dei Guardiani della rivoluzione. Nel frattempo dopo le elezioni un gruppo di funzionari della Vevak si è dimesso con un documento che accusa Ahmadinejad di aver ordinato di cancellare dal database del ministero tutti i dati sensibili relativi ai suoi collaboratori, amici e familiari. La tensione con Ejei è sfociata in uno scontro al vetriolo a proposito della nomina alla vicepresidenza di Esfandiar Rahim Mashai, il consuocero che Ahmadinejad descrive “pio, onesto e creativo” e che i conservatori e Khamenei osteggiano, giudicandolo “inappropriato” a causa di alcuni commenti “troppo amichevoli” nei confronti di Israele. Cacciato Ejei, occorreva limitarne anche qualsivoglia ascendente. Una dopo l’altra sono cadute le teste di quadri, dirigenti e decani come Habibollah, Khazai, Firuzabadi e Mansouri. Hassan Yunesi, il figlio del ministro dell’intelligence di Khatami ha parlato di licenziamenti “irrituali e preoccupanti, un grande danno per l’agenzia” . Per legge la guida del ministero va necessariamente a un turbante, ma Ahmadinejad dovrà scegliere il suo mullah con cura. Nell’attesa che emerga il nome che tutti attendono per speculare sulla linea del suo governo il presidente iraniano ha trovato due perfetti alleati da mettere alla guida di quello che in privato chiama “il covo di vipere”: Hassan Taeb e Ahmad Salek. Insider in quanto funzionari del ministero e allo stesso tempo outsider con storie vicine al mondo di Ahmadinejad – Taeb è un leader della milizia bassiji, Salek un rappresentante di Khamenei nell’unità di intelligence dei pasdaran – i due assommano esperienze e inclinazioni che fanno già tremare i dissidenti dentro e fuori dal ministero.
CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista : " L'impunità dei regimi "
Ahmadinejad e Khamenei
Le dittature che infestano il mondo mostrano con sfrontatezza il loro volto più feroce. Sembrano essersi liberate di ogni velo di pudore. La loro crudeltà, anziché essere nascosta e mimetizzata, viene esibita come segno di forza e di invulnerabilità. È una sfida, una spericolata scommessa che ha per posta la certezza dei crimini impuniti. Al termine di un processo- farsa, la giunta militare birmana condanna a un anno e mezzo di arresti domiciliari San Suu Kyi e, come inebriata dai propri eccessi tirannici, punisce con sette anni di lavori forzati l’americano che aveva osato incontrare il premio Nobel. Nella periferia di Grozny vengono ritrovati i cadaveri di due attivisti impegnati nella difesa dei diritti civili: le ultime vittime, dopo Anna Politkovskaya e Nataliya Estemirova, della catena di omicidi che ha colpito chiunque abbia denunciato gli orrori della repressione russa in Cecenia. A Teheran i guardiani di Ahmadinejad allestiscono via tv lo spettacolo raccapricciante di tribunali di regime in cui gli imputati, dopo essere stati torturati, sono costretti a confessare crimini mai commessi. Copia conforme dei processi staliniani degli anni Trenta, con il dettaglio dei pasdaran scatenati che incitano alla morte dei dissidenti e — secondo la denuncia degli oppositori — non esitano a reclamare lo stupro come arma per strappare delazioni alle vittime. È come se i dittatori volessero proclamare la loro imperturbabile indifferenza ai timidi balbettii di protesta delle cancellerie occidentali. Sanno di muoversi senza rischiare un’azione di contrasto o di contenimento. Sanno che le sanzioni saranno rituali, dominate dall’impotenza, velleitarie, magniloquenti ma inutili. Sanno che l’economia fa premio sul principio della difesa intransigente dei diritti violati nel mondo. Sanno che un tribunale internazionale che spicca un mandato di cattura per il presidente sudanese Omar Hassan el Bashir, per poi vedere beffardamente disattese le sue indicazioni, diventa un monumento di ipocrisia, e un lasciapassare per tutti i dittatori che vogliono esibire i loro lugubri trofei contando su una certa impunità. La spettacolarizzazione della crudeltà di regime offre un esempio contagioso per chiunque aspiri a un posto in vista nel frequentatissimo club delle dittature. In questo clima il venezuelano Chávez può minacciare l’introduzione del «reato mediatico » nel suo ordinamento. La Cina può incrementare il ritmo delle sue esecuzioni capitali a dispetto dell’attenzione del mondo. E, come accade in questi giorni, lo Yemen può emulare l’esempio degli amici iraniani, soffocando nel sangue di decine di vittime le ultime proteste. La comunità internazionale, dopo aver criticato per anni l’unilateralismo americano e la sua retorica dell’ «esportazione della democrazia », si scopre impotente e priva di un’alternativa credibile. Ed è questa impotenza che aizza i dittatori e li induce a ostentare la crudeltà come simbolo di forza. L’impotenza delle democrazie intensifica la prepotenza delle dittature: è un circolo vizioso quasi impossibile da spezzare. Ma è l’appuntamento che il presidente Obama e le democrazie europee non possono più mancare.
CORRIERE della SERA - Isabella Bossi Fedrigotti : " Quelle solitarie eroine dei diritti umani che hanno imparato a non arrendersi "
Neda
Tre, quattro, cinque, sei donne non fanno primavera e tantomeno storia. Ed è anche possibile che le loro vicende abbiano maggiore risonanza e maggiore effetto mediatico per il semplice fatto di essere appunto donne, giovani donne per lo più, dunque forse più commoventi, forse anche più fotogeniche. Resta però il fatto che al momento sembrano solitarie e audaci eroine dei diritti umani. Eroine perché alcune tra loro sono già morte, mentre altre hanno rischiato o ancora rischiano. Solitarie perché tali in effetti appaiono, avanguardie femminili senza molti compagni di strada. Sono Aung San Suu Kyi, la fragile signora birmana in lotta senza armi contro il regime dei generali, che da più di vent’anni passa dal carcere agli arresti domiciliari e viceversa, ora di nuovo condannata a diciotto mesi di prigione per essere stata, qualche mese fa, raggiunta a nuoto nel suo domicilio coatto da un non invitato pacifista americano. Poi Anna Politkovskaya, forse la più tragica in quanto aveva previsto la sua morte e la temeva senza tuttavia per questo smettere di denunciare soprusi e violenze in Cecenia; e come lei, attivista dei diritti umani, Nataliya Estemirova, rapita e uccisa un mese fa in Cecenia, a lungo minacciata, poi massacrata e abbandonata sul ciglio di una strada. E così è stata trovata ieri mattina Zarema Sadulayeva, direttrice di un’organizzazione non governativa che si occupa di giovani, rapita e uccisa con il marito. A loro si aggiungono le eroine della resistenza iraniana, eroine per caso, forse, nel senso che potrebbero essersi ritrovate in un gioco più grande di loro, ma non certo coraggiose per caso. Hanno — queste numerose audaci senza nome - il bel volto indimenticabile di Neda, scesa in strada a manifestare contro i brogli elettorali e ammazzata da un proiettile delle forze di sicurezza, nonché quello altrettanto bello, ma incredulo e spaurito di Clotilde Reiss, la giovane ricercatrice universitaria francese accusata, a causa di una email, di aver tramato contro il regime e costretta in tribunale a «confessare» le sue colpe per le quali rischia l’impiccagione. Perché tante donne? Prima di tutto, è probabilmente questa una conseguenza della battaglia per la parità femminile. Speciale parità, forse nemmeno contemplata come un obiettivo consapevole, che si rivela tuttavia spinta inevitabile e che, evidentemente, non riguarda soltanto l’evoluto Occidente ma anche — sia pure in forma molto meno visibile e compiuta, a volte, anzi, del tutto segreta — l’emisfero delle femmine sottomesse per abitudine, per religione e per costume atavico. La parità — mescolata al fatto che la pasionara infuocata, la suffragetta, è sempre stata donna, al punto che i corrispettivi termini maschili nemmeno esistono — fa nascere queste nuove eroine disposte a sacrificare la vita in difesa della giustizia, in nome di un principio o, soprattutto, per tutelare i più deboli. E poi bisogna forse aggiungere — per comprendere il loro sprezzo del pericolo — la percezione di sé che per lungo tempo è stata concessa alle donne: piuttosto di innocua figura di secondo piano che non di nemico da temere, da combattere e abbattere.
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