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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
12.08.2009 Che cosa ci fanno 18,5 miliardi dell’Iran in un container ad Ankara?
Cronaca e analisi della Rezione del Foglio, Pierluigi Battista, Isabella Bossi Fedrigotti

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: La redazione del Foglio - Pierluigi Battista - Isabella Bossi Fedrigotti
Titolo: «L'impunità dei regimi - Quelle solitarie eroine dei diritti umani che hanno imparato a non arrendersi»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 12/08/2009, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Che ci fanno 18,5 miliardi dell’Iran in un container ad Ankara? ". Dal CORRIERE della SERA, in prima pagina, l'editoriale di Pierluigi Battista dal titolo " L'impunità dei regimi " e, a pag. 12, l'articolo di Isabella Bossi Fedrigotti dal titolo " Quelle solitarie eroine dei diritti umani che hanno imparato a non arrendersi ".
Ecco gli articoli:

Il FOGLIO - "  Che ci fanno 18,5 miliardi dell’Iran in un container ad Ankara?"

Roma. In quest’estate iraniana c’è una storia che parte come un thriller hollywoodiano e nessuno ancora sa come finisce. Il 7 ottobre 2008 un businessman iraniano chiamato Esmael Safarian Nasab manda in Turchia un carico con 20 tonnellate d’oro e dollari in contanti suddivisi in banconote da 100, per un valore complessivo di 18,5 miliardi di dollari. Secondo alcune fonti il container fa prima tappa in Germania, secondo altre arriva direttamente ad Ankara. Quale che sia stato il tragitto, una volta arrivato in Turchia il tesoro di Nasab non viene denunciato alle autorità. Secondo Senol Oseb, l’avvocato turco di Nasab, il suo cliente ha evitato di fornire dettagli sul contenuto della spedizione “per evitare lungaggini e rogne”. Due partner di Nasab o semplicemente due corrieri avrebbero dovuto ritirare il container all’arrivo, ma fiutata aria di pericolo sono fuggiti al primo finanziere sospettoso. Scoperto durante un controllo di routine il carico sarebbe stato fermato dalle autorità turche. Il condizionale è d’obbligo perché da qui in poi si infittiscono le voci. Il primo a tentare di dissipare la nebbia è stato il giornalista turco Ibrahim Yazici che per il suo scoop ha puntato insinuando che Recep Tayyip Erdogan non soltanto era a conoscenza della preziosa spedizione, ma l’aveva anche avallata e caldeggiata. Yazici ha alluso alla circostanza che Erdogan, parlando degli investimenti stranieri in Turchia durante la recessione, ha citato come cifra proprio 18,5 miliardi di dollari. Un po’ poco come pistola fumante. Il ministro Hayati Yazici ha smentito le accuse, addirittura negando che la fortuna di Nasab sia mai arrivata in terra turca. A stretto giro di posta, il ministero dell’Intelligence iraniano, (Vevak) ha chiesto all’ambasciata iraniana ad Ankara di accertare i fatti. Il “chiarimento” è arrivato in tempi record.“Non esiste alcun container” e la stampa è stata subito messa in guardia dalla pubblicazione di notizie false e tendenziose. “Nasab è un businessman stimato che ha trasferito i suoi soldi in Turchia legalmente” spiega Oseb. Voleva beneficiare della nuova legislazione turca sugli investimenti stranieri” una legge entrata in vigore a novembre un mese dopo la spedizione. Insomma spiega l’avvocato “il container esiste eccome”. Non solo, il suo assistito è pronto a partire per la Turchia per rivendicarne la proprietà. Fonti iraniane del Foglio sostengono invece che il carico non doveva fermarsi ad Ankara. Oseb però non ha altro da aggiungere e si schermisce modesto “sono inconsapevole della dimensione internazionale della vicenda” . Tra i tanti interrogativi irrisolti restano senza risposta i quesiti più importanti. Chi è davvero Esmael Saffarian Nasab? Chi copre, per chi lavora? Quale era la destinazione finale di quei 18,5 miliardi di dollari e di chi sono? In Iran montano le ipotesi più fantasiose: il capitale di Nasab è la prima pietra di un’alleanza turco-persiana, la prova di un tentativo dei mullah di comprare Obama, o più prosaicamente un fondo per le emergenze della dirigenza iraniana o il risultato di una maxi ruberia di qualche mullah- tycoon o di un’agenzia dei pasdaran. La guerra al ministero dell’Intelligence Ma c’è un’altra spy story che tiene banco in questa densa estate iraniana mentre i turbanti si mangiano tra loro e i capitali fuggono in cerca di porti più sicuri. E’ la guerra per il regno delle spie, la lotta per il controllo del ministero dell’Intelligence. Casus belli l’allontanamento del capo del dicastero, Gholam Hossein Ejei. Secondo i giornali conservatori sul siluramento di Ejei hanno pesato vecchie ruggini: l’arrendevolezza nei confronti di Hossein Mousavian, ex negoziatore nucleare che Ahmadinejad avrebbe voluto inquisire per spionaggio o l’eccessiva morbidezza palesata dal ministro nei confronti delle iraniane di cittadinanza americana, l’accademica Haleh Esfandiari e la giornalista Roxana Saberi ( anche se, in quest’ultimo caso lo stesso Ahmadinejad si era pronunciato favorevole a un gesto di clemenza). Ma nella resa dei conti nel quartier generale dell’intelligence pesa soprattutto la rivalità tra Vevak e pasdaran. Prima delle elezioni il ministero degli Esteri ha sottolineato che un numero sospetto di persone stavano arrivando in Iran dalla Gran Bretagna, ma gli uomini di Ejei non hanno raccolto il suggerimento. Secondo i consiglieri del presidente la conseguenza è stata che gli agitatori della regina hanno così potuto agire indisturbati. Ovviamente anche la gestione della crisi post elettorale non ha ricevuto l’avallo di Ahmadinejad, convinto non senza qualche ragione che molti al ministero tifassero per Mir Hossein Moussavi, che del resto è stato tra i fondatori della Vevak. Ejei è stato definito “inefficace e negligente”, ma più ancora della sua supposta magnanimità, un ritratto assai inverosimile per chi ha seguito la sua carriera dal temuto seminario Haqqani all’inflessibile Corte speciale per il clero, sulla sua dipartita ha influito la devozione del ministro a Khamenei. Invece di correre a riferire al suo presidente nei giorni caldi delle manifestazioni, Ejei ha fatto la spola con l’ufficio di Khamenei criticando le iniziative non concordate dei Guardiani della rivoluzione. Nel frattempo dopo le elezioni un gruppo di funzionari della Vevak si è dimesso con un documento che accusa Ahmadinejad di aver ordinato di cancellare dal database del ministero tutti i dati sensibili relativi ai suoi collaboratori, amici e familiari. La tensione con Ejei è sfociata in uno scontro al vetriolo a proposito della nomina alla vicepresidenza di Esfandiar Rahim Mashai, il consuocero che Ahmadinejad descrive “pio, onesto e creativo” e che i conservatori e Khamenei osteggiano, giudicandolo “inappropriato” a causa di alcuni commenti “troppo amichevoli” nei confronti di Israele. Cacciato Ejei, occorreva limitarne anche qualsivoglia ascendente. Una dopo l’altra sono cadute le teste di quadri, dirigenti e decani come Habibollah, Khazai, Firuzabadi e Mansouri. Hassan Yunesi, il figlio del ministro dell’intelligence di Khatami ha parlato di licenziamenti “irrituali e preoccupanti, un grande danno per l’agenzia” . Per legge la guida del ministero va necessariamente a un turbante, ma Ahmadinejad dovrà scegliere il suo mullah con cura. Nell’attesa che emerga il nome che tutti attendono per speculare sulla linea del suo governo il presidente iraniano ha trovato due perfetti alleati da mettere alla guida di quello che in privato chiama “il covo di vipere”: Hassan Taeb e Ahmad Salek. Insider in quanto funzionari del ministero e allo stesso tempo outsider con storie vicine al mondo di Ahmadinejad – Taeb è un leader della milizia bassiji, Salek un rappresentante di Khamenei nell’unità di intelligence dei pasdaran – i due assommano esperienze e inclinazioni che fanno già tremare i dissidenti dentro e fuori dal ministero.

CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista : " L'impunità dei regimi "

 Ahmadinejad e Khamenei

Le dittature che infe­stano il mondo mo­strano con sfronta­tezza il loro volto più feroce. Sembrano esser­si liberate di ogni velo di pu­dore. La loro crudeltà, anzi­ché essere nascosta e mime­­tizzata, viene esibita come segno di forza e di invulne­rabilità. È una sfida, una spe­ricolata scommessa che ha per posta la certezza dei cri­mini impuniti.
Al termine di un proces­so- farsa, la giunta militare birmana condanna a un an­no e mezzo di arresti domi­ciliari San Suu Kyi e, come inebriata dai propri eccessi tirannici, punisce con sette anni di lavori forzati l’ameri­cano che aveva osato incon­trare il premio Nobel. Nella periferia di Grozny vengono ritrovati i cadaveri di due at­tivisti impegnati nella dife­sa dei diritti civili: le ultime vittime, dopo Anna Politko­vskaya e Nataliya Estemiro­va, della catena di omicidi che ha colpito chiunque ab­bia denunciato gli orrori del­la repressione russa in Cece­nia. A Teheran i guardiani di Ahmadinejad allestisco­no via tv lo spettacolo racca­pricciante di tribunali di re­gime in cui gli imputati, do­po essere stati torturati, so­no costretti a confessare cri­mini mai commessi. Copia conforme dei processi stali­niani degli anni Trenta, con il dettaglio dei pasdaran sca­tenati che incitano alla mor­te dei dissidenti e — secon­do la denuncia degli opposi­tori — non esitano a recla­mare lo stupro come arma per strappare delazioni alle vittime.
È come se i dittatori voles­sero proclamare la loro im­perturbabile indifferenza ai timidi balbettii di protesta delle cancellerie occidenta­li. Sanno di muoversi senza rischiare un’azione di con­trasto o di contenimento. Sanno che le sanzioni saran­no rituali, dominate dall’im­potenza, velleitarie, magni­loquenti ma inutili. Sanno che l’economia fa premio sul principio della difesa in­transigente dei diritti violati nel mondo. Sanno che un tribunale internazionale che spicca un mandato di cattura per il presidente su­danese Omar Hassan el Bashir, per poi vedere bef­fardamente disattese le sue indicazioni, diventa un mo­numento di ipocrisia, e un lasciapassare per tutti i ditta­tori che vogliono esibire i lo­ro lugubri trofei contando su una certa impunità. La spettacolarizzazione della crudeltà di regime offre un esempio contagioso per chiunque aspiri a un posto in vista nel frequentatissi­mo club delle dittature. In questo clima il venezuelano Chávez può minacciare l’in­troduzione del «reato me­diatico » nel suo ordinamen­to. La Cina può incrementa­re il ritmo delle sue esecu­zioni capitali a dispetto del­l’attenzione del mondo. E, come accade in questi gior­ni, lo Yemen può emulare l’esempio degli amici irania­ni, soffocando nel sangue di decine di vittime le ulti­me proteste.
La comunità internaziona­le, dopo aver criticato per an­ni l’unilateralismo america­no e la sua retorica del­l’ «esportazione della demo­crazia », si scopre impotente e priva di un’alternativa cre­dibile. Ed è questa impoten­za che aizza i dittatori e li in­duce a ostentare la crudeltà come simbolo di forza. L’im­potenza delle democrazie in­tensifica la prepotenza delle dittature: è un circolo vizio­so quasi impossibile da spez­zare. Ma è l’appuntamento che il presidente Obama e le democrazie europee non possono più mancare.

CORRIERE della SERA - Isabella Bossi Fedrigotti : " Quelle solitarie eroine dei diritti umani che hanno imparato a non arrendersi "

Neda

Tre, quattro, cinque, sei donne non fanno primavera e tantome­no storia. Ed è anche possibile che le loro vicende abbiano maggiore risonanza e maggiore effetto mediatico per il semplice fatto di essere appunto donne, giovani donne per lo più, dunque forse più commoven­ti, forse anche più fotogeniche. Resta pe­rò il fatto che al momen­to sembrano solitarie e audaci eroine dei diritti umani.
Eroine perché alcune tra loro sono già morte, mentre altre hanno ri­schiato o ancora rischia­no. Solitarie perché tali in effetti appaiono, avan­guardie femminili senza molti compagni di stra­da.
Sono Aung San Suu Kyi, la fragile signora bir­mana in lotta senza armi contro il regime dei gene­rali, che da più di vent’an­ni passa dal carcere agli arresti domiciliari e vice­versa, ora di nuovo con­dannata a diciotto mesi di prigione per essere stata, qualche mese fa, raggiunta a nuoto nel suo domicilio co­atto da un non invitato pacifista america­no.
Poi Anna Politkovskaya, forse la più tra­gica in quanto aveva previsto la sua morte e la temeva senza tuttavia per questo smettere di denunciare soprusi e violenze in Cecenia; e come lei, attivista dei diritti umani, Nataliya Estemirova, rapita e ucci­sa
un mese fa in Cecenia, a lungo minac­ciata, poi massacrata e abbandonata sul ci­glio di una strada. E così è stata trovata ieri mattina Zarema Sadulayeva, direttri­ce di un’organizzazione non governativa che si occupa di giovani, rapita e uccisa con il marito.
A loro si aggiungono le eroine della re­sistenza iraniana, eroine per caso, forse,
nel senso che potrebbero essersi ritrovate in un gioco più grande di loro, ma non certo coraggiose per caso. Hanno — que­ste numerose audaci senza nome - il bel volto indimenticabile di Neda, scesa in strada a manifestare contro i brogli eletto­rali e ammazzata da un proiettile delle for­ze di sicurezza, nonché quello altrettanto bello, ma incredulo e spaurito di Clotilde Reiss, la giovane ricercatrice universitaria francese accusata, a causa di una email, di aver tramato contro il regime e costretta in tribunale a «confessare» le sue colpe per le quali rischia l’impiccagione.
Perché tante donne? Prima di tutto, è probabilmente questa una conseguenza della battaglia per la parità femminile. Speciale parità, forse nemmeno contem­plata come un obiettivo consapevole, che si rivela tuttavia spinta inevitabile e che, eviden­temente, non riguarda soltanto l’evoluto Occi­dente ma anche — sia pu­re in forma molto meno visibile e compiuta, a vol­te, anzi, del tutto segreta — l’emisfero delle fem­mine sottomesse per abi­tudine, per religione e per costume atavico.
La parità — mescolata al fatto che la pasionara infuocata, la suffragetta, è sempre stata donna, al punto che i corrispettivi termini maschili nemme­no esistono — fa nascere queste nuove eroine di­sposte a sacrificare la vi­ta in difesa della giusti­zia, in nome di un principio o, soprattut­to, per tutelare i più deboli.
E poi bisogna forse aggiungere — per comprendere il loro sprezzo del pericolo — la percezione di sé che per lungo tem­po è stata concessa alle donne: piuttosto di innocua figura di secondo piano che non di nemico da temere, da combattere e abbattere.

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