mercoledi` 14 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






Corriere della Sera - Il Giornale - La Repubblica - La Stampa Rassegna Stampa
07.08.2009 Al Qaeda mira alle atomiche pakistane
Afghanistan: Talebani contro i civili per ostacolare il voto

Testata:Corriere della Sera - Il Giornale - La Repubblica - La Stampa
Autore: Pierluigi Battista - Gian Micalessin - Guido Rampoldi - Francesco Semprini
Titolo: «Quei morti che non fanno piangere - Bomba dei talebani Strage di civili diretti al matrimonio - L'atomica di Al Qaeda - Taleban contro i civili per ostacolare il voto - E gli anziani siglano la tregua»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/08/2009, a oag. 10, l'articolo di Pierluigi Battista dal titolo " Quei morti che non fanno piangere " . Dalla REPUBBLICA, a pag. 43, l'articolo di Guido Rampoldi dal titolo "  L'atomica di Al Qaeda  ". Dalla STAMPA, a pag. 14, l'articolo di Francesco Semprini dal titolo " Taleban contro i civili per ostacolare il voto ". Dal GIORNALE, a pag. 13, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " E gli anziani siglano la tregua  ". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista : " Quei morti che non fanno piangere"

Mentre nel Punjab si consumava la strage di cristiani in cui sono state bruciate vive nove persone (tra cui due bambini), il tribunale di Kandhamal ha assol­to in massa i presunti responsabi­li del massacro che ha contato 120 vittime nella comunità cristiana dell’Orissa. L’assassinio sistemati­co dei cristiani non è solo, come ha giustamente denunciato il mi­nistro Frattini, un attentato alla li­bertà religiosa, ma è la manifesta­zione più cruenta di uno spirito di pogrom che il fanatismo fonda­mentalista sta attizzando da tem­po ai danni di chi crede nel Dio della croce.
Nello Stato indiano di Orissa gli autori della carneficina sono in­tegralisti indù, nel Punjab fanatici islamisti. L’odio per i «crociati», del resto indicati da Al Qaeda co­me i bersagli da sterminare assie­me agli ebrei nel fuoco della jihad, non conosce distinzione: i cristiani sono gli «impuri» da an­nichilire, identificati come gli agenti di una potenza aliena inten­ta a deturpare la purezza della ve­ra fede.
Si spiega così l’estensione, la durata, la fissazione ossessiva del­le persecuzioni che, principalmen­te nel mondo musulmano, colpi­scono la comunità cristiana. Si è infiammata la guerra santa anticri­stiana nell’Iraq pur dilaniato dal sanguinoso conflitto intestino tra sciiti e sunniti. L’Indonesia è tea­tro di un martirio cristiano che non conosce sosta. Dall’Algeria al­lo Yemen, i (pochi) cristiani super­stiti sono costretti a nascondersi.
In Arabia Saudita il semplice pos­sesso di un crocefisso è considera­to un atto di «blasfemia» merite­vole della condanna a morte. Nel Sudan, in Somalia e in Nigeria la vita per i cristiani è diventata im­possibile. Persino nei Paesi arabi moderati (l’Egitto) o che ancora conservano un’impronta «laica» (la Siria) la vita pubblica dei cri­stiani è vincolata ad asfissianti li­mitazioni che rendono sempre più problematica la nozione stes­sa di «libertà di culto».
In Pakistan, dove si è acceso l’ultimo rogo, i cristiani sopravvi­vono come minoranza braccata e discriminata. Un sacerdote pachi­stano ha raccontato ad
Avvenire che i bambini cristiani subiscono infinite vessazioni nelle scuole e che nei ristoranti «dobbiamo pa­gare anche i piatti, perché vengo­no rotti dai musulmani» in quan­to «impuri». Senza ricordare che persino nell’Afghanistan dell’«al­leato » Karzai la conversione al cri­stianesimo, intollerabile «aposta­sia », è punita con la condanna a morte.
Il Vaticano, che pure per tutela­re le comunità cristiane sparpa­gliate nel mondo islamico ha scel­to di mantenere un profilo diplo­maticamente realistico, teme che si stia raggiungendo il punto di non ritorno e Benedetto XVI invo­ca la «fine delle violenze». Il go­verno italiano ha il merito di ri­chiamare l’attenzione dell’Unione Europea e delle (silenti) organizza­zioni internazionali per contrasta­re questo massacro senza fine.
L’esperienza, purtroppo, do­vrebbe indurre al più nero pessi­mismo. Gli assassini e i persecuto­ri hanno avuto sin qui mano libe­ra. Il pogrom contro i «crociati» sta dilagando pressoché indistur­bato. La maggior parte dei media di tutto il mondo presta un’atten­zione molto blanda e altalenante alle stragi in atto. Non è ancora troppo tardi per intervenire. Basta volerlo.

La REPUBBLICA - Guido Rampoldi : " L'atomica di Al Qaeda "

La Peshawar road costeggia per due chilometri il Quartier Generale delle Forze armate, una sequenza di caserme circondate dagli unici prati verdi di Rawalpindi; sul lato opposto, palazzine impettite come ufficiali sull´attenti ospitano le sedi di quelle Fondazioni che proiettano anche nell´economia il potere straripante dei generali pachistani. Superate le caserme, il paesaggio urbano rimpicciolisce per altri due chilometri in una fila di botteghe sormontate da cartelloni pubblicitari: scuole di informatica, scuole di inglese, olio di soya, la clinica cinese, i cassoni di plastica per l´acqua. Il pomeriggio c´è sempre molto traffico, ma il viale è largo e le motociclette possono zigzagare tra le macchine.
Quel 3 luglio, quando un pullman privato si è fermato al semaforo del crocevia chiamato Choor Chawk, un motociclista lo ha affiancato e ha fatto esplodere il tritolo di cui era imbottito il serbatoio. Dell´attentatore è rimasto a sufficienza per intuire l´età: molto giovane, uno dei tanti ragazzini convinti da astuti mullah ad ascendere in paradiso dentro una nuvola di fuoco. I passeggeri del pullman, la gran parte dei 23 feriti, non erano "infedeli", come probabilmente gli era stato fatto credere, ma dipendenti del Kahuta Research Laboratories, forse il più importante centro di ricerche nucleari del Pakistan sin da quando lì fu concepita la Bomba.
Tutto quello che riguarda il Kahuta è protetto da un rigido segreto militare. Eppure i terroristi sapevano. Chi li ha informati sembra all´improvviso rivolgere le sue attenzioni alle 60-100 testate atomiche che sono l´orgoglio del Pakistan, l´incubo dell´India e il sogno di Al Qaeda. Con quale disegno? Risaliamo i tre chilometri più spiati del Pakistan per girare la domanda al portavoce del Quartier generale, un colonnello. La zona che traversiamo ha visto negli ultimi mesi tre attentati contro obiettivi o personalità militari, quattro calcolando anche l´attacco al pullman del Kahuta. In queste azioni, mi dice il colonnello, «i terroristi hanno dimostrato di possedere informazioni riservate cui non sono in grado di arrivare da soli: dunque deve averli informati uno spionaggio straniero». Oppure hanno complici nelle Forze armate, e forse anche nel programma nucleare, potremmo aggiungere. In un caso o nell´altro, l´attentato di Rawalpindi racconta la proliferazione atomica come proliferazione di intrighi e di rischi colossali. E forse dice che il Pakistan si sta avvicinando al bivio fatale. Di qua il disastro, se non l´apocalisse; di là la salvezza e la pace.
La Bomba ha reso al Pakistan non poco. Prestigio internazionale, la considerazione dei Paesi islamici, un deterrente per tenere a bada il poderoso vicino indiano, l´amicizia di due alleati tuttora strategici, la Cina e l´Arabia Saudita. Ma ha suscitato anche ostilità e cospirazioni. Zulfikar Bhutto, il premier che aveva sfidato gli americani promettendo «Mangeremo erba ma costruiremo la nostra atomica», morì sulla forca, impiccato da generali amici di Washington. Alcuni tra gli scienziati cui Bhutto aveva ordinato «implorate, prendete a prestito, rubate, ma procuratevi la Bomba», compiuta la missione continuarono a praticare metodi discutibili, suscitando sospetti sull´affidabilità del Pakistan. Abdul Qadeer Khan, già direttore del Kahuta Research Laboratories, divenne il facilitatore occulto di altri programmi nucleari (iraniano, nordcoreano, libico) che si avvalsero della sua consulenza, se non anche della tecnologia che Khan maneggiava. Arrestato nel 2003 su pressione americana, scarcerato di recente malgrado le apprensioni dell´amministrazione Obama, tra i suoi compatrioti Khan resta il popolarissimo «padre della Bomba». Non ha mai svelato i suoi segreti. Un suo collega, Sultan Mahmood, responsabile del reattore nucleare di Khushab e notabile di un partito filo-Taliban, ha dovuto ammettere che Osama bin Laden gli chiese una consulenza per costruire un ordigno «sul genere di Hiroshima». E già da questi esempi si ricava che ai grandi fisici nucleari pachistani le offerte di lavoro non devono mancare, tanto più da quando le Forze armate hanno impresso al programma atomico un´accelerazione. La scoperta di un giacimento di plutonio nel Punjab ha permesso di avviare, in joint venture con i cinesi, un progetto per fabbricare testate nucleari più potenti e più piccole, dunque lanciabili non più soltanto da rampe fisse ma anche da aerei.
Oltre ad avere il programma atomico più rapido del mondo, il Pakistan ha un altro primato poco rassicurante: la più vaga tra le dottrine militari. Chi possiede l´arma atomica di regola si premura di indicare con la massima precisione - alle proprie Forze armate e allo stesso tempo a potenziali aggressori - in quali situazioni sarà premuto il bottone fatale. Il Pakistan sembra fare eccezione. La sua dottrina di difesa, denominata «Minima deterrenza accettabile», non è in un documento pubblico. E quel che si conosce per linee generali inquieta. Islamabad si riprometterebbe di usare le sue atomiche in un ventaglio di ipotesi. Innanzitutto qualora subisse «un´invasione massiccia», formula però vaga. Per esempio, è probabile che la Nato si sia chiesta se si esporrebbe ad una rappresaglia atomica lanciando una grande operazione in territorio pachistano per decapitare i Taliban. Non meno indefinite sono le due ipotesi successive: Islamabad ritiene motivo sufficiente per usare la Bomba sia un´interruzione delle sue maggiori linee di approvvigionamento (per esempio, se la flotta indiana bloccasse i suoi porti o Dehli riducesse la portata del fiume Indo) sia una minaccia all´unità territoriale e alla stabilità del Paese, quale potrebbe essere la sollevazione del Beluchistan, dove opera da anni un forte secessionismo armato. Tuttavia nelle tradizioni militari pachistane c´è una sana riluttanza ad annichilire popolazioni nemiche. Dopotutto, le tre guerre combattute tra India e Pakistan sono stati tutte molto brevi e poco cruente e mai uno dei contendenti ha bombardato città.
Paradossalmente, il problema è l´equilibrio del terrore. Ha evitato una quarta guerra, ma ha suggerito a India e Pakistan di combattersi per procura e secondo geometrie sghembe, come i due Blocchi durante la Guerra fredda. Il prodotto di queste ostilità è un conflitto asimmetrico oggi molto rischioso per l´intera regione. E´ successo questo. Da una parte il Pakistan ha inglobato nel suo sistema di difesa le milizie islamiche che avevano combattuto contro i sovietici, e le ha utilizzate in Kashmir e in Afghanistan. Finchè Musharraf le ha scaricate per assecondare gli americani. All´improvviso quei guerrieri fondamentalisti hanno perso prestigio, soldo, ruolo e traffici indotti, insomma tutto tranne i finanziatori arabi e forse alcuni amici nei servizi segreti del Pakistan. Cercando un conflitto in cui far valere il loro mestiere, si sono avvicinati ai Taliban pachistani e ad Al Qaeda, cui hanno portato in dote una rete terroristica diffusa sul territorio nazionale. Insieme, ora combattono un conflitto che ha per posta il Pakistan e le sue bombe atomiche. «Le prenderemo e le useremo contro gli americani», ha promesso ad una tv araba il capo di Al Qaeda per l´Afghanistan, Mustafa al Yazid, dieci giorni prima che a Rawalpindi i terroristi colpissero i dipendenti del Kahuta Research Laboratories.
A sua volta l´India ha aperto misteriosi uffici consolari in Afghanistan, lungo la frontiera con il Pakistan. Con quelli, e per il tramite di tribù afghane, riuscirebbe a far arrivare armi e denaro sia al secessionismo del Beluchistan sia ad un settore dei Taliban. Islamabad fa sapere di poterlo provare, così come lascia intendere anche il comunicato diffuso a conclusione di un incontro bilaterale, due settimane fa («Il primo ministro del Pakistan, Gilani, ha affermato di possedere alcune informazioni circa minacce in Beluchistan e altre aree»). Finora inascoltato, l´establishment pachistano sussurra da tempo la seguente accusa: l´India vuole mantenere il Pakistan in uno stato di instabilità controllata, affinchè la comunità internazionale si convinca che questo è uno Stato fallito, inaffidabile; e profittando della sua debolezza finanziaria, lo costringa a mettere le sue bombe atomiche sotto sorveglianza internazionale, o almeno a interrompere il suo tumultuoso programma nucleare. Dehli avrebbe un secondo obiettivo strategico: rendere insicura la strada che corre dalle pendici del Karakorum fino al porto di Gwadar, nel Baluchistan pachistano. Presto permetterà alle merci cinesi di raggiungere l´Oceano nominalmente ancora Indiano, e al petrolio arabo di raggiungere la Cina, risparmiando ben tre settimane e relativi costi di trasporto.
Nell´albergo di Islamabad preferito dagli stranieri ormai gli ospiti cinesi sono numerosi quanto gli occidentali. L´influenza di Pechino è discreta ma crescente. In primavera, quando i Taliban sono arrivati a cento chilometri dalla capitale, non solo gli Usa ma anche la Cina hanno incalzato il Pakistan a reagire. Il contrattacco delle Forze armate sarebbe stato blando come le altre volte, se i generali non si fossero convinti che alcune bande di Taliban sono funzionali ai progetti dello spionaggio indiano. Come folgorato da questa percezione nuova, in maggio l´Esercito ha attaccato i Taliban dello Swat e li ha combattuti con una determinazione mai mostrata in passato. Tre mesi dopo, quelle vallate sono ancora insicure; fuggita in montagna, la guerriglia continua a uccidere soldati e a terrorizzare civili. Ma questo è quasi secondario. Per quanto vada ancora verificata, la conversione di Islamabad ne migliora l´immagine internazionale e permette agli americani di aumentare la pressione su Dehli perché accetti un compromesso. Nelle speranze dell´amministrazione Obama, i due nemici rinunceranno a colpirsi per procura e avvieranno una cooperazione contro il terrorismo di cui si intravede qualche timido segnale. A quel punto non sarebbe impossibile negoziare un accordo sul Kashmir. E tutto questo sarebbe di beneficio anche alla situazione in Afghanistan.
In apparenza minuscoli ma in realtà rilevanti, alcuni gesti di disponibilità scambiati in luglio tra Dehli e Islamabad suggeriscono che un processo di pace non è impossibile. Però suscita un´opposizione occulta, mossa da interessi interni e internazionali, in India come in Pakistan. Il partito del conflitto permanente l´anno scorso si è servito del massacro di Mumbai per paralizzare il dialogo tra i due governi e da allora ha riconquistato terreno. In luglio l´India ha varato il suo primo sottomarino nucleare e il terrorismo ha messo gli occhi sulla Bomba pachistana. Il sottomarino ha un nome mitologico che sta per «Distruttore dei nemici». La Bomba pachistana viaggia su missili chiamati come i conquistatori musulmani dell´India. Ma questo è nella tradizione locale. Di nuovo c´è il fatto che la corsa ultratecnologica all´armamento nucleare ormai bordeggia il campo di battaglia della guerra asimmetrica. Prossimità ormai perfino fisica: uno dei siti nucleari pachistani si troverebbe appunto a ridosso di un territorio "talibanizzato". Non è difficile immaginare dove potrebbe condurre tutto questo se il contenzioso indo-pachistano fosse abbandonato alla sua deriva.

La STAMPA - Francesco Semprini : " Taleban contro i civili per ostacolare il voto "

 La provincia di Helmand, una delle più instabili e pericolose dell' Afghanistan

Ordigni fatti esplodere dai ribelli ai margini delle strade e bombardamenti da parte delle forze alleate. L’Afghanistan non conosce tregua nell’estate più difficile dall’inizio del conflitto specie con l’avvicinarsi del delicato appuntamento elettorale per le presidenziali del 20 agosto prossimo. L’ennesima giornata di violenza ha visto esplodere sopra una bomba rudimentale un’intera famiglia che si stava dirigendo a un banchetto di matrimonio nella provincia di Helmand, una delle più instabili e pericolose del Paese.
Stavano viaggiando nei pressi del distretto di Garmser a bordo di un trattore con rimorchio, uno dei mezzi più utilizzati per gli spostamenti nelle aree rurali. E’ giallo sul bilancio delle vittime: inizialmente il portavoce del ministero degli Interni, Zemarai Bashary, aveva parlato di 21 persone, per la maggior parte donne e bambini, mentre poco dopo è arrivata un altro rapporto secondo cui i morti sarebbero cinque, il capofamiglia alla guida del trattore, la moglie, due bambine e un’altra donna che viaggiava sul rimorchio. Altre cinque persone sono rimaste ferite nell’esplosione. «Alcuni corpi erano talmente sfigurati da non essere identificabili», spiega il capo della polizia di Helmand, Assadullah Sherzad secondo cui ci sono pochi dubbi invece sulla matrice dell’attentato sebbene non sia stato ancora rivendicato. Il ministero degli Interni di Kabul lo attribuisce a «terroristi», o meglio a formazioni ribelli vicine alle milizie talebane.
Quello di Garmser è uno dei distretti più a rischio di tutto il Paese e per questo il comando Nato ha deciso a inizio luglio di dispiegare circa 4 mila marines Usa per tentare di bonificare l’area, in vista delle elezioni presidenziali e provinciali in programma tra due settimane esatte. Sempre ad Helmand la deflagrazione di un altro ordigno ha causato la morte di cinque poliziotti e il ferimento di altri tre impegnati in operazioni di pattugliamento dell’area ad alta concentrazione di taleban.
Un’altra strage di civili sarebbe stata causate anche dai bombardamenti alleati nel corso di un’operazione condotta nella provincia di Kandahar. Un elicottero Apache ha aperto il fuoco su un gruppo di persone che apparentemente stavano caricando armi ed esplosivo in un veicolo. In realtà sembra si trattasse di cinque contadini che stavano mettendo alcune casse di cetrioli in un taxi, per trasportarli dalla zona rurale di Zhari a Kandahar: per loro non c’è stato scampo. «I nostri militari hanno visto che stavano caricando armi in un furgoncino per circa un’ora prima che intervenissero», spiega il portavoce dell’Esercito Usa, Christine Sidenstricker. «Avevamo avuto informazioni precise al riguardo», ha proseguito il tenente spiegando che ad insospettire i militari americani è stato il fatto che queste persone agissero nel cuore della notte. In realtà è frequente che contadini effettuino trasporti in quelle ore proprio per evitare le elevate temperature del giorno. Il tenente Sidenstricker ha inoltre annunciato che sarà consegnato alle autorità afghane un video con le immagini dell’attacco per chiarire ogni responsabilità.
Ma a perdere la vita nel caos afghano ieri sono stati anche militari americani. Un soldato è morto a causa di una mina esplosa sul ciglio di una strada in una zona nella parte occidentale del Paese, seguito a poche ore di distanza da altri quattro commilitoni saltati anche loro su un ordigno posizionato dalle forze ribelli nella stessa area. Sale così a quindici il bilancio delle vittime dall’inizio di agosto, tra i militari occidentali impegnati nella missione Nato. Un risultato che rischia trasformare il mese in corso nel più sanguinoso dall’inizio del conflitto, ancor più di luglio segnato dal triste record di 44 militari americani morti assieme a 31 appartenenti ai contingenti di altri Paesi della forza Isaf. Sulla situazione in Afghanistan si è pronunciato l’ambasciatore britannico a Kabul, Mark Sedwill, secondo cui almeno due terzi dei ribelli che combattono al fianco dei talebani possono essere convinti a «cambiare parte». Il diplomatico è apparso piuttosto ottimista sull’esito del voto spiegando che a suo giudizio circa il 70% degli elettori «potrà recarsi alle urne», anche nella provincia di Helmand, la più violenta del Paese. Ma ad un prezzo che in termini di vite umane si rivela ogni giorno che rimane al 20 agosto sempre più pesante.

Il GIORNALE - Gian Micalessin : " E gli anziani siglano la tregua "

 talebani

La tregua concordata da una commissione di 42 anziani dei villaggi della zona di Bala Mourghab e discussa con rappresentanti di governo e insorti è stata annunciata da Kabul alla fine di luglio. I grandi demiurghi dell'accordo sono Jelani Popali, un fedelissimo di Karzai, responsabile del coordinamento provinciale e Mullah Badar, un 52enne ex comandante della resistenza anti sovietica rispettato da talebani e governativi. Per l'amministrazione Karzai il cessate il fuoco è un modello da estendere ad altre province nel quadro della complessa trattativa per dividere le forze talebane “moderate” e quelle più legate ad Al Qaida.
Per Mullah Badar, incontrato da Il Giornale a Bala Mourghab, l'accordo resta sostanzialmente locale. «Qui non ci sono esponenti stranieri legati ad Al Qaida e gli oppositori sono sostanzialmente locali» spiega. «La commissione dei 42 anziani sotto la mia guida ha soltanto chiesto la costruzione di una strada asfaltata dal capoluogo provinciale a Bala Mourgab e il ritiro dell'esercito dalle case di alcuni villaggi. In cambio abbiamo fatto capire ai capi talebani che rischiavano di perdere l'appoggio della popolazione e li ha convinti a ritirarsi». I guerriglieri hanno accettato di ritirare i loro uomini ad almeno 5 chilometri da Bala Mourghab.
L'accordo non garantisce al governo il controllo dei principali seggi della zona. «Anche dopo la tregua solo 12 dei 33 distretti elettorali resteranno sotto il nostro controllo, negli altri la sicurezza spetterà ai capi villaggi e in alcuni saranno coinvolte persino le forze degli insorti» - spiega il generale afghano Ghulam Faruq. Domenica scorsa i 42 anziani della commissione si sono ritrovati nella base di Bala Mourgab per una assemblea tribale a cui ha presenziato il comandante italiano generale Rosario Castellano assieme al governatore della provincia di Badghis e al rappresentante del Dipartimento di Stato per la zona. E alla fine della shura il 42 maestro Neamatullah, uno degli esponenti della commissione più vicini agli insorti ha confermato il paradosso dei seggi controllati dagli insorti. «Dove non c'è l'esercito e dove gli anziani non hanno le armi la sicurezza sarà garantita da chi ha la fiducia della popolazione locale».

Per inviare la propria opinione al Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Giornale, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@corriere.it
segreteria@ilgiornale.it
rubrica.lettere@repubblica.it
direttore@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT