Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 05/08/2009, a pag. 12, la cronaca di Gian Micalessin dal titolo " Io, all’attacco con gli italiani sotto il fuoco dei talebani ". Dalla STAMPA, a pag. 3, l'articolo di Juan Cole dal titolo " I taleban erano già l'incubo di Churchill " , a pag. 1-29, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " Siamo finiti dentro una guerra " e, a pag. 2, l'intervista di Glauco Maggi a Ralph Peters, freelance, scrittore e commentatore, dal titolo " Non vinceremo mai. Alla Nato mancano obiettivi e strategia " . Dalla REPUBBLICA, a pag. 1-12, l'articolo di Guido Rampoldi dal titolo " Le combattenti che sfidano i mullah ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 18, l'intervista di Lorenzo Cremonesi a Wakil Ahmed Muttawakil, ultimo ministro degli Esteri talebano,dal titolo " I talebani usano ogni mezzo per boicottare le elezioni ".
Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Io, all’attacco con gli italiani sotto il fuoco dei talebani "
Gian Micalessin
Farah (Afghanistan)Il vento è un alito di drago tra muretti d'argilla arsi dal sole tra le cupole dei tetti di creta allineati in un deserto di polvere e sassi. Lo chiamano Islamabad, un nome altisonante per uno sputo nel nulla. Dentro scorrazzano i veicoli dell'esercito afghano. Fuori vigilano i blindati del Primo reggimento Bersaglieri. Sono i Leoni della II compagnia, i reduci della battaglia del 25 luglio in cui è rimasto ferito il caporal maggiore Guarna.
Dall'alba battono i principali villaggi del distretto di Shiwan, 50 e passa chilometri a nord di Farah, al seguito di un reparto governativo. «Dobbiamo convincere i capi villaggio a collaborare nello svolgimento delle elezioni» - spiega il colonnello Samad, il capo dei servizi di sicurezza di Shiwan responsabile dell'operazione. Ora è tra le casupole di paglia e fango assieme ai suoi uomini. All'improvviso la radio del nostro Lince s'accende d'un gracchio impertinente «Truppe afghane in contatto, truppe afghane in contatto». Il maresciallo Luca Costanzo si precipita sul microfono, il primo caporale Nicola Giuffrida brandeggia la mitragliatrice, i primi caporali Gennaro e Domenico guadagnano volate e sedili. In un attimo lo schieramento è ai posti di combattimento, i cannoncini dei Dardo sono pronti a inquadrare la minaccia i Lince a muovere. Nessuno fa in tempo a spostarsi. L'intrico di cupole, creta e muretti sputa un nugolo di polvere, uno sciame di veicoli allineati in una corsa nel nulla. La radio si riaccende. «Le truppe afghane hanno individuato due talebani, c'è stata una sparatoria, uno e morto e uno è prigioniero... pronti a fornire appoggio». Il turbine di veicoli, pulviscolo e soldati guadagna una collinetta e si dispone a semicerchio. Un soldato dalla barba bianca mi tira giù dal Lince, mi trascina verso un pick up. «Taleban taleban» urla passandosi la mano sulla gola con gesto assai esplicito. Lo sgocciolìo d'una pozzanghera vermiglia sotto il cassone svela la verità ancor prima che dieci mani sollevino il sudario. Sotto ci sono due occhi sbarrati al cielo, una barba bianca intrisa di sangue, un rivolo mezzo raggrumato che cola dalla tempia. I soldati festeggiano la preda, qualcuno la scuote, qualcuno ride, i più giovani si scatenano con le foto ricordo. Aveva 40 anni, si chiamava Said Tahari ed è uno dei due presunti talebani caduto sotto i colpi dei governativi. Lo spettacolo non è finito. Lo sportellone d'un altro pick up si spalanca, un Sansone in calzoni e canottiera mi si precipita davanti. I bicipiti sono tesi, scolpiti, segnati dalla corda che gli blocca i polsi dietro la schiena. Sul petto le ferite di chi ha lottato per non farsi catturare, negli occhi un balenio di fierezza, odio, confusione. Mi fissa e mi parla come se fossi il suo inquisitore. «Mi chiamo Said Ahmad, ho 32 anni, non sono un talebano, questi soldati hanno sparato al mio amico solo perché aveva un fucile». Un ufficiale gli ride in faccia. «E allora perché siete scappati in moto?». Poi ritorna al pick up, tira fuori un kalashnikov e una giberna con due caricatori, glieli infila al collo. «Guardate cosa si portava dietro il caro Said, guardate anche voi». Said non parla più. La bocca si è chiusa dietro il barbone di pece, nel suo volto saetta solo il carbone delle pupille, rimbalza tra il volto dell'infedele curioso, dei bersaglieri silenziosi, dei militari afghani divertiti e irriverenti. Otto mani lo afferrano, lo schiaffano nel furgone, ci caricano sopra il rottame della sua moto, se lo portano via. Il colonnello Samad riemerge dal nulla, si fa largo tra i soldati. «Il mullah Wakil e il Mullah Ewaz, i capi dei talebani di Shiwan da settimane minacciano la popolazione per impedire il voto e questi due erano uomini loro, ma stavolta gli è andata male».
La STAMPA - Juan Cole : " I taleban erano già l'incubo di Churchill "
Winston Churchill
Nonostante siano tra le genti più povere del mondo, gli abitanti dello scosceso Nord-Ovest dell’attuale Pakistan hanno trovato il modo di terrorizzare le lontane capitali occidentali per più di un secolo. Un fatto degno di menzione nei libri dei record.
E non è finita. Non certo scommettendo sul cavallo sfavorito. Non coi titoli dei giornali americani sulle razzie dei taleban pachistani, non coi droni della Cia che colpiscono qualunque cosa si muova tra il Waziristan e il confine afghano. Questa primavera, per esempio, un esperto di antiterrorismo ha avvertito in modo stridente (e senza alcuna plausibilità) che «da uno a sei mesi potremmo assistere al collasso dello Stato pachistano» per mano dei famelici taleban, mentre il segretario di Stato Hillary Clinton definiva la situazione in Pakistan «un pericolo mortale» per la sicurezza globale.
Alla maggior parte degli osservatori sfugge che tale retorica apocalittica su questa regione in cima al mondo non è affatto nuova. E’ vecchia di almeno cent’anni. Durante le campagne alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX, i funzionari britannici, i giornalisti e gli editorialisti dicevano le stesse cose che risuonano oggi sulla bocca di strateghi, analisti e studiosi americani. Fecero dei Pashtun tribali, che abitavano le montagne del Waziristan, i nuovi Normanni. Per Londra era un pericolo mortale che minacciava di rovesciare l’impero britannico.
Nel 1898, il giovane Winston Churchill scrisse persino un libro, «The Story of Malakand Field Force», sulla campagna britannica della fine del XIX secolo in territorio Pashtun. In quel tempo Londra governava l’India britannica che comprendeva l’India, il Pakistan e il Bangladesh odierni, ma il controllo inglese sulla regione montagnosa del Nord Ovest accanto all’Afghanistan e all’Himalaya era debole. Cercando di capire, come i moderni analisti, perché i predecessori dei taleban pachistani costituissero una così grande sfida all’impero, Churchill enucleò due ragioni per spiegare il valore militare dei pashtun. La prima era l’Islam. «Questa religione – scriveva – che più di ogni altra è stata diffusa con la spada – le cui credenze e i principi sono imbevuti di una pulsione ad uccidere che in tre continenti ha prodotto generazioni di combattenti – stimola un selvaggio e crudele fanatismo».
Churchill rivela qui i suoi pregiudizi. Infatti, in generale, l’Islam si diffuse pacificamente nell’attuale Pakistan attraverso la predicazione e la poesia dei mistici sufi, e la maggior parte dei musulmani non sono stati più guerrafondai degli anglosassoni ad esempio.
Come seconda ragione Churchill pose l’ambiente in cui si supponeva che quelle tribù prosperassero. «Gli abitanti di quelle valli selvagge ma ricche – spiegava – passano continuamente da una faida all’altra». Inoltre, insisteva, la loro tecnologia militare era puntigliosamente aggiornata, le loro armi non erano così primitive come quelle di altre «razze» che l’autore definiva «al loro livello di sviluppo». «Alla ferocia degli zulu, aggiungevano l’abilità dei pellerossa e la mira dei boeri», avvertiva.
L’immagine churchilliana di primitivi fanatici e brutali, armati fino ai denti con armi ultimo modello, che individua i pashtun come uno straordinario pericolo per l’Occidente, sopravvisse all’era vittoriana e si riproduce oggi nei titoli dei nostri giornali. Bruce Riedel, un ex analista della Cia, è stato incaricato dall’amministrazione Obama di valutare le minacce alla sicurezza in Afghanistan e Pakistan. Il 17 luglio, Arnauld de Borchgrave sul Washington Times raccontava col fiato sospeso le conclusioni di Riedel: «Una vittoria jihadista in Pakistan significherebbe la conquista del Paese da parte di un movimento sunnita guidato dai taleban... potrebbe creare la più grande minaccia che gli Stati Uniti abbiano mai dovuto affrontare nella guerra al terrore... è questa una possibilità concreta nel prevedibile futuro». L’articolo, in pieno stile churchilliano, s’intitolava «Suona il campanello d’allarme di Armageddon».
Di fatto, poche previsioni di intelligence potevano avere meno possibilità di essere vere. Nelle elezioni parlamentari del 2008, i pachistani hanno votato i partiti centristi, alcuni dei quali laici, ignorando per lo più i partiti islamici fondamentalisti. Oggi in Pakistan ci sono circa 24 milioni di pashtun, un gruppo etnico che parla il pashto. Altri 13 milioni vivono lungo la «Linea Durand» tracciata dai britannici, il confine – che generalmente i Pashtun non riconoscono – tra il Pakistan e l’Afghanistan meridionale. La maggior parte dei taleban proviene da questo gruppo ma la grande maggioranza dei pashtun non sono taleban e non amano particolarmente gli islamisti radicali.
Le forze taleban, facilmente sconfitte questa primavera in una rapida campagna nella valle dello Swat dall’esercito pachistano, non superavano i 4 mila uomini. L’esercito di Islamabad conta 550 mila militari e altrettanti riservisti. Possiede carri armati, artiglieria e caccia. I taleban possono far leva soltanto sul gruppo etnico dei pashtun, il 14 per cento della popolazione, e per quel che se ne sa sono in minoranza anche al suo interno. I taleban possono compiere azioni terroristiche e destabilizzare il paese, ma non sono in grado di rovesciare il governo.
Nel 1921, vaghe minacce all’Impero britannico provenienti dal piccolo e debole principato dell’Afghanistan e dalla nascente (ma ancora reclinata su se stessa) Unione Sovietica puntellarono una visione paranoica dei pashtun. Oggi il supposto legame con Al Qaeda – o anche con l’Iran o la Russia - di questi pashtun chiamati «taleban» dai funzionari Usa e Nato, ha focalizzato un’altra volta gli sforzi militari e di intelligence di Washington e Bruxelles su questi montanari.
Pochi pashtun, anche tra i ribelli, sono in senso stretto taleban, cioè militanti provenienti dai seminari islamici. Alcuni cosiddetti taleban sono collegati con ciò che resta di Al Qaeda nella regione ma non hanno ovviamente l’appoggio della Russia o dell’Iran. Ci potranno essere dei motivi plausibili per cui gli Usa e la Nato hanno deciso di pagare un conto di sangue e denaro nel tentativo di influenzare con la forza la politica di 38 milioni di pashtun da entrambi i lati della Linea Durand. Di certo tra quei motivi non c’è il fatto che i pashtun costituiscano una spaventosa minaccia per la sicurezza del mondo nordatlantico.
La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " Siamo finiti dentro una guerra "
Afghanistan
Era tutto fuorché un segreto, il fatto che solo l’estrema ampiezza dello spettro dei singoli caveat nazionali, e l’elasticità nell’interpretazione dello spirito e dello stesso obiettivo della missione, fosse condizione tutt’altro che accessoria tra quelle che avevano permesso di arruolare, e mantenere, nell’Isaf un numero relativamente elevato di nazioni. Finora, ognuno dei Paesi che compongono l’Isaf ha sostanzialmente impostato la propria partecipazione secondo le proprie attitudini e convenienze, talvolta modificate in seguito al cambiamento della maggioranza di governo.
Di fronte all’offensiva scatenata dai talebani per cercare di impedire la celebrazione delle prossime elezioni presidenziali, questa elasticità è divenuta un’ambiguità insostenibile. La Gran Bretagna, che ha contato una media di un morto al giorno nel solo mese di luglio, ha sollevato platealmente il problema di una coalizione in cui alcuni combattono e altri stanno a guardare, magari nel frattempo discutendo di «soluzioni politiche», profilando «exit strategy», inseguendo la chimera dei «talebani moderati».
Intendiamoci molto bene. Gli stessi Usa che oggi chiedono, con scarso successo, più mezzi, più uomini e più determinazione ai recalcitranti alleati europei (giacché canadesi e australiani fanno la loro parte da tempo), sono tra i principali responsabili della situazione che si è venuta a creare in Afghanistan: pericolosa per il futuro di quel Paese, e rischiosa per il destino della Nato. Lo sono ovviamente per aver aperto il controverso fronte iracheno prima della chiusura di quello afghano nel 2003 (con la conseguente distrazione di truppe e attenzione e con la spaccatura causata all’interno dell’Alleanza Atlantica). Lo sono per avere lungamente escluso ogni responsabilità per la ricostruzione del Paese dopo la conclusione della campagna del 2002. Lo sono per essersi colpevolmente fidati del Pakistan doppiogiochista di Musharraf e dei suoi servizi segreti. Ma lo sono soprattutto per aver rifiutato quell’appoggio che, apertamente e non senza difficoltà, gli alleati avevano offerto agli Stati Uniti, in applicazione (per nulla scontata né automatica) dell’articolo 5 del Patto Atlantico. In quel momento, se gli Usa avessero accettato la profferta di aiuto europea, la coalizione che sarebbe sorta sarebbe stata priva di ambiguità, conscia del fatto che i Paesi membri stavano adempiendo al casus foederis che li chiamava a combattere una guerra contro un nemico comune. Sulla base di considerazioni militari opinabili e di valutazioni politiche che si sono rivelate fallaci, l’amministrazione Bush rifiutò tale aiuto e diede vita a un’operazione solitaria (Enduring Freedom), salvo poi chiedere il sostegno degli alleati per una missione dal carattere più ambiguo (Isaf), quando l’Iraq reclamava più truppe di quelle ipotizzate e la campagna afghana si rivelava tutt’altro che conclusa.
La Gran Bretagna di Tony Blair fu corresponsabile delle avventate scelte dell’amministrazione Bush, accettando di partecipare singolarmente alla campagna afghana (e poi a quella irachena), invece di aiutare Washington a comprendere che il rifiuto della collaborazione offerta dagli alleati era un clamoroso errore politico e militare, oltretutto foriero di nefaste conseguenze per la sopravvivenza stessa della Nato. In un certo senso, si potrebbe dire, Londra paga anch’essa i suoi errori. Ma riconoscere errori e responsabilità non basta. Occorre prendere atto della realtà e cercare le misure adeguate al mutato scenario afghano.
In Afghanistan, e non da oggi, la situazione è tale da richiedere non più peace-keeper, ma peace-warrior. Servono cioè truppe che combattano per riportare la pace nel Paese e non per mantenerne una ormai inesistente. E’ una sfida alla quale l’Alleanza non può sottrarsi. Non è per nulla accidentale che il contingente italiano sia sempre più attivamente coinvolto nei combattimenti. Questo, inevitabilmente, comporterà più perdite di quelle fin qui subite. Gli esperti ci dicono che l’opinione pubblica non è ancora preparata a una tale eventualità. Sarebbe opportuno che il governo si dedicasse a colmare questo gap, e, almeno in questo caso, non si limitasse a leggere i sondaggi, ma li sfidasse.
La REPUBBLICA - Guido Rampoldi : " Le combattenti che sfidano i mullah "
La legge sul diritto familiare sciita è : " piuttosto misogina "? Piuttosto? Il termine è fuori luogo e sbagliato. Si tratta di una legge che rende legale lo stupro della moglie. Per non parlare delle altre norme discriminatorie della donna tutt'ora in vigore. Ecco l'articolo:
Guido Rampoldi
Trecento soltanto nella capitale, altre centinaia nelle principali città, chiamano il loro gruppo «le Combattenti». Non è un termine enfatico. Difendere i diritti delle donne in un Paese poverissimo e da un trentennio in guerra non è la stessa cosa che partecipare ad un collettivo femminista in Europa.
Si sfidano masnade di mullah pronti a scagliarti addosso un´accusa mortale, blasfemia. Si entra in urto con la casta guerriera - mujahddin, Taliban, milizie al soldo di questo o di quel khan. Si combatte, si muore.
Spesso. Delle cinque donne di alto profilo che nel 2005 un giornale britannico indicava come modelli di un Afghanistan possibile, tre sono state assassinate dai Taliban e le altre due costrette ad espatriare. Dozzine di maestre sono state uccise. Non v´è afgana che in questi anni si sia affacciata nella scena pubblica che non abbia subìto minacce o attentati. L´ultimo episodio in luglio, quando una bomba ferì sei agenti di scorta a Fawzia Koofi, 33 anni, vicepresidente del parlamento e co - fondatrice del gruppo delle «Combattenti». Ma nonostante tutto questo, le afgane che si candidano in queste elezioni provinciali (20 agosto, in contemporanea con le presidenziali) sono 342, il 20% in più del 2005. «Quanto più aumenta la violenza contro di noi, tanto più aumenta la resistenza», dice la Koofi, che di quella lotta partigiana, condotta in parlamento e soprattutto in tv, è uno dei leader. La frase ha il suono epico di un grido di battaglia. Ma una battaglia che non sta andando benissimo, riconosce la Koofi. «Da quando tutti dicono di voler negoziare con i Taliban, i diritti delle donne sono spariti dall´agenda della politica afgana». Come fossero un ostacolo alla trattativa. Non ne accennano i candidati alla presidenza della Repubblica, non compaiono nel programma di alcuno di loro. E´ diminuita perfino l´attenzione della comunità internazionale. «E per che cosa, poi? I Taliban non hanno né l´intenzione né la possibilità di arrivare ad un accordo, non fosse altro perché sono divisi. Karzai e i suoi sfidanti proclamano di voler trattare non perché credano che quella strada porti lontano, ma perché cercano di ingraziarsi l´elettorato ultra-fondamentalista».
Quando aveva tre anni Fawzia Koofi perse il padre, un deputato assassinato dai mujahiddin che cercava di convincere a negoziare con il governo filo-sovietico. Dopo averlo ucciso, i mujahiddin andarono a cercare l´imam perché li autorizzasse ad ammazzare anche la madre di Fawzia, e a dare in sposa ad un mullah la sorella, all´epoca dodicenne. Le Koofi riuscirono a scappare; inseguite, furono salvate dai soldati russi. Questa tragedia non è estranea al dubbio di Fawzia: saranno leali con le afgane, questi occidentali che trent´anni fa le consegnarono ai mujahiddin? O di nuovo le sacrificheranno al loro interesse, ad una `pace´ con i Taliban? Ovviamente Fawzia sa che la Nato non è venuta in Afghanistan per promuovere la liberazione delle donne. Ma in queste sette anni sono accadute cose piuttosto sorprendenti per gli standard afgani. Innanzitutto questo: sparite dal panorama al tempo dei Taliban, le donne (alcune, poche: ma abbastanza per dare l´esempio) sono tornate nello spazio pubblico. Ospiti fisse della radio e della tv, le `Combattenti´ discutono di argomenti che secondo i fondamentalisti una musulmana non dovrebbe neppure sfiorare, dagli stupri in famiglia al diritto delle ragazze di rifiutare il marito imposto dai genitori. Negli ultimi mesi sono riuscite ad affondare la legge sul diritto familiare sciita, piuttosto misogina, e soprattutto a portare in parlamento un corpo di norme rivoluzionarie che Karzai ha approvato e presto andranno in discussione. Sanzionano i delitti d´onore, garantiscono l´impunità alle mogli che scappano di casa, proibiscono il baad, figura del diritto tradizionale per la quale la famiglia dello stupratore può sanare una violenza sessuale offrendo femmine, in genere bambine, alla famiglia della violentata (sicché uno stupro dà origine ad altri stupri). Neanche la Koofi si illude: quando fossero approvate, quelle leggi resterebbero largamente inapplicate. Eppure anche nei tribunali tira un vento nuovo, come dimostra in città come Herat l´alto numero di divorzi richiesti della moglie, impensabile pochi anni fa.
Ora però gli occidentali vorrebbero attrarre quegli alleati dei Taliban, innanzitutto l´organizzazione Hizb-islami, che per un malinteso sono chiamati `Taliban moderati´. In realtà non sono né Taliban né moderati, e anzi i guerrieri di Hizb-islami sono noti per sfregiare con il vetriolo le ragazzine che vanno a scuola. Per un buon ingaggio probabilmente ammorbidirebbero la loro misoginia, perfino fare atto formale di sottomissione ad una Costituzione che fa proprie le convenzioni internazionali sui diritti umani: non è probabile ma non lo si può escludere. In ogni caso, la tacita pre - condizione al compromesso in cui confidano innanzitutto gli afgani è che si metta metta la sordina alla `questione femminile´. E questo è un po´ quanto sta accadendo, se è esatto il titolo di un recente rapporto di Unama, la missione Onu in Afghanistan: "Il silenzio è violenza". Scritto con l´intenzione dichiarata di "riportare in agenda la fruizione dei diritti umani da parte delle afgane, una questione sempre più ignorata", il dossier dà un´idea esatta di quanto rischia una donna che assuma un ruolo pubblico e, implicitamente, di quel che accadrebbe a migliaia di afgane se la Nato si ritirasse. A Kandahar il consigliere provinciale Sitara Achakzai è stata «uccisa dai Taliban in aprile perché incoraggiava le donne a lavorare e a lottare per i loro diritti». Per punire Zarghuna Kakar, anche lei consigliere provinciale, i Taliban prima l´hanno dichiarata «infedele» e poi le hanno assassinato il marito.
Minacciare vendette sui familiari è diventata una prassi. Una parlamentare non manda più i figli a scuola per timore che li uccidano. Però non si dimette: «Questa è la nostra battaglia, e dobbiamo vincerla». Ma sono decine, riferisce il rapporto, le deputate che non si ricandideranno nelle elezioni del 2010. Tra le donne costrette a lasciare la politica molte sono state bollate come «comuniste» e «infedeli» dai Taliban o dagli imam nella preghiera del venerdì. A Herat un mullah ha incitato i fedeli a saccheggiare la sede di una Ong che si batte per i diritti delle donne, in quanto «centro di attività blasfeme»: e quella pia masnada subito l´ha esaudito.
Gli attacchi non vengono solto dai Taliban e dai loro alleati. In parlamento e nei consigli provinciale, ogni qualvolta è in discussione un argomento correlato con l´islam le deputate vengono zittite dalle urla dei colleghi fondamentalisti. Racconta Shahla Ata, ora candidata alla presidenza: «Non ci permettono di interloquire. Invocano l´autorità delle Scritture: il Corano dice questo, e l´argomento è chiuso». E Fawzia Koofi: «Parliamo di poveri, di donne, di bambini, dei loro diritti, e quelli ci gridano: questo vostro discorso non è islamico. Finché la religione non sarà de-politicizzata, continueranno a usarla come pretesto». Ma almeno i deputati fondamentalisti accettano che le bambine vadano a scuola e le donne possano lavorare come infermiere e come maestre. I Taliban neppure quello. Nei primi sei mesi del 2009 gli attacchi contro scuole hanno prodotto 13 morti e 14 feriti, oltre alle quindici alunne sfregiate a Kandahar con l´acido. Colpite dalla guerriglia, 700 scuole restano chiuse; 200mila ragazzine sono private del diritto di istruirsi. Oltre alle maestre, bersaglio privilegiato dei Taliban, sono afgane che lavorano per organizzazioni umanitarie straniere, nelle radio o in televisione. L´attrice Parwin Mushtakhel, la prima donna ad apparire in tv dopo la caduta dei Taliban, è stata costretta a espatriare, così come la cantante che aveva partecipato ad un concorso canoro trasmesso da una radio di Kandahar. Zakia Zaki, conduttrice di Radio Pace, è stata assassinata. Nilofar Habibi, 22 anni, conduttrice di una tv di Herat, è stata pugnalata sulla porta di casa, l´anno scorso (sopravvissuta, vive all´estero). Contro la casa di Khadija Ahadi, vicedirettrice di Radio Faryad, è stata lanciata una granata.
Agli occhi dei Taliban la colpa più grave di queste donne era l´aver messo in discussione costumi che il fondamentalismo considera `islam´, per esempio le regole che permettono un dilagare delle violenze carnali. In molte zone rurali la vittima rischia di essere giustiziata come `fornicatrice´ insieme allo stupratore, se lo denuncia. Oppure può essere obbligata a sposarlo. Non meno spaventoso è il baad, la transazione organizzata dai consigli degli anziani con cui il colpevole sana il suo crimine dando in sposa una sorella o una cugina a familiari della parte offesa. Secondo il fondamentalismo neppure il parlamento può legiferare su questi temi, tantomeno su iniziativa di svergognate come le `Combattenti´. Però nel vertice supremo dei Taliban qualcuno si dichiara disponibile a riconoscere la Costituzione e a negoziare un armistizio dentro quella cornice legale. Per esempio un importante mullah in contatto con i tagichi dell´Alleanza del nord, coloro che più di tutti hanno sondato la strada della trattativa. Eppure quei tentativi finora sono falliti, riconosce Fazel Sancharaki, capo della campagna elettorale di Abdullah Abdullah, il candidato dell´Alleanza del nord in queste presidenziali. «Abbiamo avuto incontri con tre distinte delegazioni», mi racconta Sancharaki. «L´una inviata dal mullah Omar. L´altra da Dadullah (il capobanda che sequestrò il giornalista Mastrogiacomo). La terza rappresentava la `rete Haqqani´ (un gruppo che ha legami storici con i servizi segreti pakistani)». Nessuna delle tre si dimostrò in grado di prendere una decisione, perché le organizzazioni di riferimento erano divise oppure frenate da `suggeritori´ esterni. Nel caso del misterioso Dadullah, per esempio, la trattativa sembrava ben avviata. «Ma al dunque Dadullah si sottraeva di continuo ad una scelta. Finché capimmo che non poteva decidere senza l´accordo di altri. E quell´accordo non gli era stato concesso».
Fawzia Koofi è convinta che l´unico argomento che possa convincere i Taliban sia un bombardiere americano. Il giudizio potrà scandalizzare ma corrisponde esattamente alla dottrina Obama: rafforzare la presenza militare, aumentare la pressione sui Taliban e costringerne almeno una parte a negoziare alle condizioni degli occidentali. Nel caso non funzionasse, nei governi Nato crescerà la tentazione di un baratto al ribasso in cui inevitabilmente entreranno i diritti minimi delle ragazze afgane.
CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " I talebani usano ogni mezzo per boicottare le elezioni "
Wakil Ahmed Muttawakil
KABUL — «Ci attendono giorni difficili. La violenza crescerà con l’approssimarsi delle elezioni. E dopo potrebbe anche essere peggio. Sul campo è ben solida la cooperazione militare tra milizie talebane e Al Qaeda. Non vedo proprio come la coalizione alleata possa batterla». Promette tempesta Wakil Ahmed Muttawakil.
L’ex ministro degli Esteri del governo talebano prima della guerra del 2001, ci riceve nella sua abitazione alla periferia della capitale afgana. Dopo essere stato nelle carceri militari Usa, Muttawakil (assieme all’ex ambasciatore talebano in Pakistan, Abdul Salem Zaef) si è costruito il ruolo da uomo del dialogo. Nel 2005 si presentò persino con una sua lista pashtun alle elezioni parlamentari, ma non superò il quorum. Di recente è stato invitato in Arabia Saudita per incontrare i dirigenti del governo afgano. Più volte è stato ospite di Hamid Karzai. Ma, ci tiene a sottolineare, da tempo ho preso le distanze dai vertici talebani. Pure, non ancora 40enne resta uno dei maggiori conoscitori del Mullah Omar e dell’universo fondamentalista nella regione.
Sparano su Kabul, attaccano gli italiani ad Herat, la tensione cresce nel Paese: come fermarla?
«Non c’è modo. I talebani hanno detto chiaramente che intendono boicottare il voto e lo faranno con tutti i mezzi. Non dimentichiamo che si sentono sotto assedio. Gli americani hanno lanciato una pesante offensiva. E i talebani rispondono a modo loro. È in corso una guerra senza esclusione di colpi. E gli italiani ad Herat non si facciano illusioni, fanno parte di una coalizione che i talebani percepiscono come nemica. Herat è parte integrante dell’Afghanistan e come tale ne condivide la sorte ».
Come andrà il voto?
«Ci sarà un forte tasso di astensione, specie nelle regioni del sud-est. I pashtun saranno molto poco rappresentati. Ma soprattutto la popolazione è delusa. Aveva votato in massa nel 2004, ora per lo più resterà a casa».
Ancora due giorni fa il nuovo segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha fatto appello al dialogo con i talebani moderati. Chi sono, è possibile?
«Non ci sono. I cosiddetti talebani moderati sono una categoria inventata dagli occidentali. L’unico interlocutore valido è il Mullah Omar assieme al consiglio degli anziani che lo sostiene ».
Come avviare il dialogo?
«Karzai deve abbandonare la richiesta che accetti la costituzione. Gli americani devono smettere di dargli la caccia. E lui deve abbandonare la pregiudiziale che tutte le truppe straniere prima lascino il Paese».
È ancora vivo Osama Bin Laden?
«Direi di sì».
Che rapporto c’è tra talebani e Al Qaeda?
«Molto stretto quello militare. Ma politicamente sono divisi, non c’è l’unità che li caratterizzava nel 2001».
La STAMPA - Glauco Maggi : " Non vinceremo mai. Alla Nato mancano obiettivi e strategia "
Ralph Peters
Le forze della coalizione hanno alzato il tono degli attacchi contro i taleban, e i taleban stanno rispondendo. Ma non è con il numero dei soldati morti che si misura il successo o l’insuccesso di una guerra. E’ con la strategia, e a noi manca». La recrudescenza delle offensive dei militanti islamici contro le forze Usa e Nato in Afghanistan non sorprende Ralph Peters. Oggi freelance (New York Post), scrittore (24 libri) e commentatore (Fox News e Cnn), e ieri tenente colonnello, il grado con cui è andato in pensione nel 1998 dopo una lunga carriera militare.
Signor Peters, qual è il suo giudizio sulla gestione attuale del conflitto afghano da parte degli Usa e della Nato?
«Siamo ondivaghi negli obiettivi, e confondiamo la tecnica con la strategia. Da qualche mese, la nostra “strategia” era diventata la pacificazione dei villaggi, l’offrire sicurezza agli abitanti e il convincerli a credere nel loro governo centrale. Ora stiamo cambiando idea, secondo le voci che ho raccolto tra i soldati laggiù, e puntiamo a proteggere i centri urbani. Ma sono solo due variazioni di uno stesso approccio sbagliato».
Dov’è l’errore? David Petraeus, il supercomandante dal Medio all’Estremo Oriente, e Stan McChrystal, il generale appena promosso per le operazioni afghane, non stanno replicando ciò che ha funzionato in Iraq con la «surge», l’ondata di nuove truppe che ha sbaragliato gli insorti?
«In Iraq, Al Qaeda era una presenza straniera, mentre in Afghanistan i taleban sono la squadra di casa. Mentre in Iraq una certa identità nazionale si era fatta strada, l’Afghanistan è come l’Italia del medioevo, con una dominante maggioranza che vive nelle campagne e non sa leggere e scrivere. E in larghe aree ad est e sud-est una forte minoranza tifa per i taleban».
Sta proponendo di abbandonare Kabul al suo destino?
«Assolutamente no, non dovremmo evacuare il paese per intero ma chiarire la nostra missione. Cominciando a pensare come la pensano gli afghani, che guardano a Kabul come a un governo di corrotti, che si schiera anche con i taleban sui giornali locali per ottenere il voto da una popolazione ostile».
Ma se questa è l’analisi, che cosa starebbero a fare i militari Usa e Nato?
«Resta l’esigenza di avere una formazione ridotta ma altamente equipaggiata e micidiale nel dare la caccia e uccidere i militanti di Al Qaeda e gli altri terroristi loro alleati che vanno avanti e indietro sul confine con il Pakistan».
Altrimenti...
«Altrimenti gli echi di un Vietnam-istan si faranno sentire sempre più rumorosi. I taleban non ci possono battere sul piano militare, ma neppure noi possiamo vincere se ci poniamo degli obiettivi assurdi. E l’idea di costruire uno stato afghano moderno con un governo che rispetta lo stato di diritto è un sogno impossibile, che non vale la vita di un solo soldato. Fu giusto andare a spazzare il governo talebano da Kabul dopo l’11 settembre, ma dietro Al Qaeda c’era l’estremismo islamico in Medio Oriente. L’Afghanistan è un accidente geografico, non il centro focale del terrorismo».
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