Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Khamenei consacra Ahmadinejad Cronache, analisi e interviste di Viviana Mazza, Paolo Lepri, Marta Allevato, Antonella Rampino, Redazione del Foglio
Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - Il Giornale - La Stampa Autore: Viviana Mazza - Paolo Lepri - La redazione del Foglio - Marta Allevato - Antonella Rampino Titolo: «Khamenei consacra Ahmadinejad ma non si fa baciare la mano - Il raffreddore di Ahmadinejad nella partita aperta di Teheran - L’atomica iraniana 'è pronta', la controbomba americana quasi - Il regime di Ahmadinejad ritira fuori il Gran Torturatore - L'in»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 04/08/2009, a pag. 14, la cronaca di Viviana Mazza dal titolo " Khamenei consacra Ahmadinejad ma non si fa baciare la mano" e, a pag. 8, il commento di Paolo Lepri dal titolo " Il raffreddore di Ahmadinejad nella partita aperta di Teheran ". Dal FOGLIO, a pag. 3, gli articoli titolati " L’atomica iraniana “è pronta”, la controbomba americana quasi " e " Il regime di Ahmadinejad ritira fuori il Gran Torturatore ". Dal GIORNALE, a pag. 12, l'intervista di Marta Allevato a Mostafa Naderi, prigioniero politico nelle carceri iraniane per dodici anni, dal titolo " L'intervista, l'esule ". Dalla STAMPA, a pag. 8, l'intervista di Antonella Rampino a Giandomenico Picco, che si è occupato di Persia in trent’anni di studi, trattative e viaggi, sin dai tempi della pace Iran-Iraq, dal titolo " Obama deve capire con chi negoziare ". Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " Khamenei consacra Ahmadinejad ma non si fa baciare la mano "
Che cos’è un bacio? Nel caso del presidente Mahmoud Ahmadinejad e della Guida Suprema ayatollah Ali Khamenei, massima autorità politica e religiosa in Iran, nel momento in cui il primo riceve l’investitura ufficiale dal secondo, un bacio è segno di fedeltà e di rispetto. Lo è se dato sulla mano o ricevuto sulle guance, come quando Ahmadinejad divenne presidente nel 2005. Ma un bacio sulla tunica all’altezza della spalla che cos’è? Un po’ strano, certo meno intimo. Ieri la Guida suprema ha dato l’ endorsement al suo favorito, come previsto dalla Costituzione prima dell’insediamento, tessendone gli elogi: «Appoggio quest’uomo coraggioso, lavoratore, intelligente come presidente della Repubblica Islamica». Ha difeso il voto del 12 giugno, contestato dall’opposizione e dalla piazza: «pagina d’oro» nella storia dell’Iran. Ma poi, sollevando il braccio sinistro, ha fermato il presidente che con un sorriso a 34 denti gli si era avvicinato, pare per baciarlo sulla mano. Ahmadinejad cambia espressione, si dicono qualcosa, poi bacia la spalla sinistra dell’ayatollah. Nessun abbraccio. Spiegano i media di Stato: Ahmadinejad è raffreddato. Ma la differenza dal 2005 è evidente. Il baciamano di Ahmadinejad a Khamenei apparve su tv e giornali (ieri niente diretta per l’evento). Poi Khamenei gli prese la testa tra le mani e lo baciò sulle guance, dandogli tenere pacche sulla schiena. L’investitura è stata boicottata da due ex presidenti e dalla famiglia di Khomeini, a riprova della profonda frattura nell’elite in seguito alle elezioni. Nel 2005, a baciare Ahmadinejad dopo Khamenei fu l’ex presidente riformista Mohammad Khatami, assente ieri come Akbar Hashemi Rafsanjani, e come i leader dell’opposizione Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi: hanno testimoniato così l’«illegalità» del voto. Centinaia di iraniani hanno cercato di protestare a Teheran, ma la polizia li ha dispersi. I blog riportano notizie non verificabili di scontri e civili feriti. Dal 12 giugno Khamenei ha difeso più volte Ahmadinejad (che avrebbe dovuto baciargli i piedi, scrive un reporter di Teheran suFacebook ). Ma forse non vuole esibire un’intimità eccessiva di questi tempi. Ahmadinejad è stato criticato anche nel campo ultraconservatore, in particolare dopo la sua nomina come vice del consuocero Esfandiar Rahim Mashaie, giudicato troppo pro-Israele. Khamenei è intervenuto mettendo il veto. Ahmadinejad ha temporeggiato e poi ha nominato Mashaie capo dello staff. Ha licenziato il ministro dell’intelligence che lo aveva criticato, si è dimesso quello della Cultura. Il presidente ha assicurato che il rapporto con Khamenei è solido: «Siamo come padre e figlio». Lo attendono altre sfide: domani giurerà in Parlamento, e l’opposizione ha promesso proteste; poi ha due settimane per formare un governo approvato dal Parlamento ultraconservatore. Sia Khamenei che Ahmadinejad hanno rinnovato gli attacchi ai Paesi occidentali. La Cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto sapere che non gli farà gli auguri. Gli Usa intanto chiedono chiarimenti sui tre americani arrestati in Iran al confine con l’Iraq. Secondo la tv iranianaal- Alam potrebbero essere accusati d’essere spie della Cia.
CORRIERE della SERA - Paolo Lepri : " Il raffreddore di Ahmadinejad nella partita aperta di Teheran "
Non dimentichiamo l’Iran, non rassegniamoci a veder morire la rivoluzione verde. Come afferma l’appello dei premi Nobel riuniti dalla fondazione Wiesel bisogna soprattutto impedire che quegli uomini e quelle donne che hanno sfidato coraggiosamente il regime si sentano abbandonati ora che tutto sembra tornare al punto di partenza con la proclamazione ufficiale di Mahmoud Ahmadinejad. Risuonano ancora, come un tragico paradosso, le parole della Guida Suprema della Repubblica islamica Ali Khamenei, che ha definito la «vittoria» del leader ultraconservatore, il frutto di «una battaglia contro l’arroganza e per la giustizia». In quelle stesse ore rimbalzavano su Internet le accuse del «numero due» di Al Qaeda, Ayman Al Zawahiri, che prendeva in prestito il lessico del presidente iraniano affermando che «Israele è un crimine che dovrebbe essere rimosso». La cerimonia di Teheran non può e non deve essere il via libera ad una irreversibile normalizzazione di un Paese che ha invece dimostrato di non voler più sottostare al pugno di ferro degli ayatollah. Solo quattro anni fa il primo insediamento dell’ex sindaco di Teheran era stato celebrato da un potere granitico e lo stesso ex presidente riformista, Mohammad Khatami, ieri assente, si era congratulato con il suo successore. E il fatto che anche il presidente dell’Assemblea degli Esperti, Akbar Hashemi Rafsanjani, abbia scelto di non onorare l’invito è il segno di una leadership impegnata in una guerra interna dai tratti ancora oscuri. C’è chi dice che in Iran tutti sono uguali e che, quindi, l’unica cosa realmente diversa potrebbe essere stato il bacio sulla spalla, anziché sulle guance, di Ahmadinejad a Khamenei. Le fonti del regime hanno poi spiegato che il presidente «aveva il raffreddore ». Quella iraniana sarà una partita lunga e difficile da giocare. Ma qualcosa fa credere, o almeno sperare, che dietro a questa leggera malattia, inconsueta per il mese di agosto, ci possa essere l’ombra di un cambiamento possibile. Come fu per il raffreddore di Andropov.
Il FOGLIO - " L’atomica iraniana “è pronta”, la controbomba americana quasi"
Roma. L’Iran ha la tecnologia per creare e fare esplodere una bomba atomica e attende soltanto l’ordine della Guida Suprema, Ali Khamenei, per produrre il suo primo esemplare. L’agenzia segreta interna Amad, “Il fornitore”, comandata da Mohsin Fakhri Zadeh, un fisico nucleare con le mostrine di comandante delle Guardie rivoluzionarie. Non è più una questione di fattibilità e di capacità tecnica, affidata alla competenza degli scienziati militari di Teheran, ma è soltanto una questione di convenienza politica, affidata al senso dell’opportunità strategica della teocrazia. Secondo il Times di Londra, che ha sentito “fonti dei servizi segreti occidentali”, se l’ordine sarà impartito, ci vorranno sei mesi per produrre l’uranio arricchito necessario nelle centrifughe dell’impianto atomico di Natanz e altri sei mesi per assemblare la testata bellica. Il vettore già scelto dagli iraniani per trasportare la bomba è il missile balistico intercontinentale Shahab 3. Il Times avverte: le fonti non sanno dire se quest’ordine deve essere ancora dato da Khamenei o è già stato impartito. Non si può dire a che punto è il conto alla rovescia. Nel 2007 la National Intelligence Estimate, la valutazione dei rischi globali affidata ai servizi segreti americani, concluse che il programma atomico iraniano non rappresentava un rischio attuale perché Teheran aveva deciso di sospenderlo fin dal 2003. In realtà, ora dicono le fonti, il programma è stato bloccato dalla Guida Suprema stessa nel 2003 perché l’Iran aveva risolto il suo problema tecnico più importante, trovare il modo di fare detonare l’uranio che non aveva ancora a disposizione in quantità sufficiente. I tecnici sono riusciti a iniziare la reazione avvolgendo l’uranio arricchito nell’esplosivo ad alto potenziale. Negli anni successivi, messa a riposo quella parte del programma, “Il fornitore” si è concentrato con successo sull’arricchimento dell’uranio (trenta chilogrammi per testata) e sulla moltiplicazione delle centrifughe necessarie a produrlo. Ora tutte le stime sulla produzione della prima bomba iraniana s’accorciano di un anno. Ieri, durante la cerimonia della sua proclamazione a presidente dell’Iran, Mahmoud Ahmadinejad, che giurerà ufficialmente domani, ha alluso al possesso dell’atomica: “Che vi piaccia o no, il sole della giustizia è sorto sul mondo e il governo della giustiza prevarrà”. La settimana scorsa, con una maratona diplomatica che ha visto impegnati a Gerusalemme l’inviato speciale George Mitchell, il segretario alla Difesa americano Bob Gates e il consigliere per la Sicurezza nazionale JimJones, l’Amministrazione Obama ha chiesto a Israele di attendere “otto settimane” prima di considerare qualsiasi opzione, per valutare la risposta di teheran alle offerte di negoziato americane e alle minacce di sanzioni. Nel confronto teso tra Stati Uniti, Israele e Iran, fatto di allusioni, avvertimenti e controavvertimenti, due giorni fa il Pentagono ha replicato alle rivelazioni di Times con un annuncio a freddo da parte del portavoce dell’Aviazione, Andy Bourland: “Stiamo accelerando la progettazione di una superbomba capace di distruggere bunker nascosti a grande profondità, irraggiungibili per le bombe normali”. Bourland parla del Massive Ordnance Penetrator, una bomba ormai alle fasi finali di studio: 13.600 chilogrammi di peso, soltanto un quinto dei quali di esplosivo – il resto è metallo pesante per penetrare anche 40 metri di roccia dura o sessanta di cemento. La carica, dicono i tecnici, è verosimilmente termobarica: prima di esplodere, inonda e satura l’ambiente, come fosse un gas, per evitare che condotti tortuosi o con molti angoli riducano la potenza dell’esplosione. “Sarà portata dai nostri bombardieri B-2 invisibili ai radar. Sarà pronta per il luglio del 2010”.
Il FOGLIO - " Il regime di Ahmadinejad ritira fuori il Gran Torturatore "
Roma. Si fa chiamare di volta in volta Abbasi, Kanguri, Kangevari, Amoli e Azadeh. Di certo, forse, c’è soltanto il nome, Javad. Ma la sua flessibilità si ferma alla scelta delle generalità. Mano sicura e ideali granitici, Javad è un torturatore tutto d’un pezzo di quelli che non conoscono cedimenti né improvvide empatie. In questa burrascosa estate iraniana il suo nome viaggia come un presagio funereo sulle bocche dei prigionieri. Il metodo Javad non conosce fallimenti. Mohammed Khatami l’ha descritto come “un sistema di tortura medievale”. Lui preferisce ricordare il suo motto: “Prima o poi la verità emerge” e armato di questa convinzione ha trionfato dove i suoi predecessori hanno fallito. Tra le sue mani, “prima o poi” sono crollati 007, mullah e ribelli. Nessun temperamento, neanche il più coriaceo, sembra in grado di resistergli. Le confessioni si moltiplicano e la stella di Javad brilla nel Pantheon degli esempi di fedeltà rivoluzionaria. Questa è la sua seconda grande occasione e il torturatore modello non ha alcuna intenzione di giocare male le sue carte. Il suo primo grande exploit risale a dieci anni fa. Nel 1998 l’Iran fu scosso da una serie di omicidi seriali che colpirono artisti, giornalisti e intellettuali, “contro-rivoluzionari di velluto” agli occhi del regime. La brutalità degli assassinii costrinse il regime a una farsesca caccia ai colpevoli. Said Emami (anche noto come Eslami) fu il capro espiatorio. Ingegnere aerospaziale laureato all’università dell’Oklahoma, nei primi anni Ottanta diventò un agente della Repubblica islamica. Al ministero dell’Intelligence occupò la poltrona di direttore del dipartimento Usa-Europa, fu analista di controspionaggio e negli anni di Khatami consigliere per la Sicurezza nazionale. Per fargli ammettere di essere la mente dietro gli omicidi serviva un uomo capace di piegarlo, qualcuno che conoscesse i suoi tic e le sue paure, uno come lui, più forte di lui. Javad non ebbe dubbi a prestarsi all’impresa. Emami e quattro suoi colleghi ammisero tutti gli addebiti, i legami con i nemici esterni e le pratiche sessuali deviate. Khamenei ne fu molto soddisfatto. Con l’eliminazione delle mele marce il buon nome del ministero e del regime poteva essere recuperato. Nel frattempo Emami morì in carcere. Suicidio si disse. “Nonostante i nostri sforzi per garantire la sua sicurezza ha ingerito una bottiglia di disinfettante nel bagno” spiegò un inquirente. Lo 007 cattivo se ne era andato insieme ai suoi segreti. Ma piuttosto che contentarsi dei suoi successi, Javad fu sopraffatto dal furore giustizialista. Per avvalorare le sue indagini prelevò da casa la moglie di Emami, Fahimeh Dori Noghoorani e la sottopose al metodo Javad. I reni della signora collassarono e fu ricoverata all’ospedale di Baghiolah. Dal centro di detenzione del ministero dell’Intelligence fuoriuscì un video molto crudo che documentava le fasi principali dell’interrogatorio della moglie di Emami. Copie della cassetta furono inviate al Parlamento e alle altre agenzie di sicurezza iraniane. Il responsabile della diffusione del video si difese dall’accusa di avere manipolato le immagini: il filmato era cruento, ma le torture di Javad potevano essere ancora più spinte, nessuna eccezione per le indiziate di sesso femminile. Fu la pietra dello scandalo. Gli amici di Emami al ministero si mobilitarono, i riformisti lo condannarono, i conservatori lo abbandonarono. I nemici anche nell’establishment Nel bel mezzo della tempesta Javad pubblicò un documento lungo 80 pagine in cui descriveva le pratiche con cui aveva estorto le confessioni. Khatami insorse e persino l’Ayatollah Shahroudi certamente non un uomo dalla commozione facile, pretese la testa di Javad. Sembrava la fine di una carriera perfetta. Poi è arrivata l’era Ahmadinejad e il destino è tornato a sorridere al teorico della “tortura illimitata”. Uscito da un grigio purgatorio al ministero del Commercio, sotto l’ala protettiva di Ahmad Salek, rappresentante di Khamenei all’Ufficio per la sicurezza e le informazioni dei pasdaran (e membro del “comitato indipendente” scelto dal Consiglio dei guardiani per il riconteggio parziale dei voti), Javad è tornato a fare quel che gli riesce meglio. Mentre i suoi ex colleghi navigavano tra mezze verità e timidi farfugliamenti, Javad ha ottenuto dichiarazioni inequivocabili. E’ stato lui ad assicurare al regime le “rivelazioni” di Mostafa Tajzadeh, Behzad Nabavi, Feizollah Arabsorkhi, Mohsen Aminzadeh e Abdollah Ramezan. Parole su parole che appesantiscono i faldoni dell’accusa documentano “la natura esterna della macchinazione responsabile dei disordini post elettorali”. Un trionfo che lo ripaga dalla lunga pausa nelle retrovie e lo rilancia tra i più affidabili difensori dell’ortodossia rivoluzionaria. Del resto quando, a sua volta inquisito gli fu chiesto di giustificare la sua metodologia, lui rispose: “Quando il leader dice che questi assassinii sono certamente opera di agenti stranieri, è evidente che il mio dovere religioso è dimostrare la verità già svelata dal rahbar, persuadere i colpevoli ad ammettere i loro crimini con qualsiasi mezzo”. E ammise candidamente: “ Sì picchiammo duro quando servì, non ci saremmo fermati prima di ottenere un’ammissione, non avremmo mai potuto ottenere una confessione contraria all’intuizione della Guida Suprema”. Tanta devozione inorgoglisce Khamenei, ma preoccupa non pochi conservatori. Javad ha molti nemici dai giorni dell’interrogatorio a Said Emami. Al ministero, la seconda ascesa di Javad è vissuta con profondo fastidio se non addirittura con inquietudine. L’entusiasmo con cui ha determinato la fine del collega ha sconvolto molti falchi. C’è chi considera Emami un “martire”e medita vendetta contro il traditore. Alcuni insider dicono al Foglio che il fatto che la presenza di Javad nella stanza della tortura “squalifica le confessioni, apparirà tutto ridicolo e questo è un danno per il sistema ”. Ma i conservatori non sono mai stati più divisi. Finché Javad continuerà a interpretare i sogni di Khamenei il suo futuro sarà al sicuro.
Il GIORNALE - Marta Allevato : " L'intervista, l'esule "
Mostafà Naderi
Gli incubi dei suoi 12 anni da prigioniero politico nelle carceri iraniane sono popolati da una figura indelebile: quella del «dottor Mirzai», uno dei più feroci aguzzini di Evin. Anche se riuscisse a rimuoverlo dai suoi ricordi, Mostafa Naderi - 49 anni, di Teheran e ora rifugiato politico in Canada - se lo ritroverebbe davanti in continuazione; perché quell’uomo, che si nascondeva dietro falsa identità, oggi è il presidente della Repubblica islamica, Maohmoud Ahmadinejad. Naderi vive a Vancouver dove è riuscito a fuggire negli Anni ’90. Qui lavora come saldatore e continua a lottare nel movimento della Resistenza iraniana. Signor Naderi, quando e perché è stato arrestato? «Era il 1981, lungo via Shemiran a Teheran. Simpatizzavo per il movimento dei Mojahedin del popolo e questo è bastato per sbattermi in prigione». Quanto tempo è rimasto in carcere? «Dodici anni, di cui cinque in isolamento nel famigerato carcere di Evin, dove ho subito sevizie e torture». Può raccontarcele? «Appena arrestato per due mesi e mezzo mi hanno torturato tenendomi legato al soffitto; poi mi hanno portato nella sezione 4, dove mi frustavano utilizzando un cavo. I miei piedi divennero pieni di lividi e infezioni, ho avuto diverse emorragie». Chi erano i suoi torturatori? «Avevamo delle bende agli occhi quindi non li ho mai visti bene in viso. Nella sezione 4 c’erano cinque aguzzini e sei o sette inquisitori. Uno di questi era conosciuto come “dottor Mirzai”, ma noi carcerati sapevamo che si chiamava “Mahmoud”». Come ha fatto allora a riconoscere in lui Ahmadinejad? «Durante gli interrogatori spesso la benda si spostava e riuscivamo a intravedere chi ci torturava. Ma la cosa fondamentale era la voce: mi hanno interrogato sotto tortura tutti i giorni per sei mesi. Alla fine quella voce ti entra in testa e quando Ahmadinejad è diventato per la prima volta presidente e l’ho sentito alla tv per me non c’è stato più dubbio. Anche altri ex detenuti hanno confermato». Chi c’era tra i suoi compagni di cella? «Uno era Mehdi Vuzighian (impiccato nel 1997), compagno di università di Ahmadinejad, che mi ha raccontato la militanza dell’attuale presidente nell’associazione islamica universitaria. Negli Anni ’80 Ahmadinejad spiava gli studenti per consegnare i nomi dei “ribelli” al regime di Khomeini». Del passato di Ahmadinejad non si sa praticamente nulla. «È vero non ci sono informazioni ufficiali. Si sa però che era un comandante dei pasdaran; che dal 1981 al 1985 ha lavorato nell'ufficio del pubblico ministero Assadollah Lajvardi, allora anche direttore del carcere di Evin, dove appunto ha avuto l’incarico prima di aguzzino e poi di inquisitore». Ora che da quattro anni lo vede guidare il suo Paese cosa pensa? «Che sia lui, che Khamenei e gli altri leader del regime dovrebbero essere giudicati da un tribunale internazionale per crimini contro l’umanità.
La STAMPA - Antonella Rampino : " Obama deve capire con chi negoziare "
Giandomenico Picco
Il mio mantra è che nulla e nessuno rimane fermo. Questo è vero anche per l’Iran: non affrontare situazioni nuove con strumenti vecchi, altrimenti accade come in altre parti del mondo, dove vi sono conflitti che non si risolveranno mai». Giandomenico Picco, che fu all’Onu braccio destro di Pérez de Cuéllar, di Persia si è occupato in trent’anni di studi, trattative e viaggi, sin dai tempi della pace Iran-Iraq. Il mondo condanna le violenze, i processi sommari, le violazioni dei diritti umano avvenuti negli ultimi giorni, lei cosa ne pensa e come vede il futuro dell’Iran? «Io sono stato coinvolto professionalmente e umanamente in Iran dal 1993 ad oggi e certe sofferenze mi provocano una forte emozione. Ho molte domande e poche risposte, ma conto sul fatto che il domani possa essere diverso dall’oggi». L’Onu si occuperà dell’Iran solo in settembre, e si discuterà di sanzioni. Se si riuscirà a vararle, sono un deterrente adeguato? «Il governo americano ha fatto sapere che il dossier Iran verrà probabilmente affrontato dal gruppo dei Sei, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania, ai margini dell’Assemblea generale. La mia esperienza è che le sanzioni sono uno strumento, mai risolutivo, ma efficace solo a seconda di come vengono disposte, rispetto a una realtà data. E possono funzionare, in un mondo globalizzato, se sono globali. Il che naturalmente è un obiettivo un po’ più complesso». Quali strumenti ha l’Occidente, di fronte a violazioni dei diritti umani e al rischio del nucleare, che il Times di oggi dà per realizzato? «Ho letto bene quell’articolo, che cita una fonte anonima dicendo che l’Iran aspetta una decisione del leader supremo, e che occorerebbero sei mesi per l’arricchimento e altri sei mesi per l’assemblaggio dell’ordigno, dunque un anno in totale. E il governo iraniano, per converso, ha annunciato sul nucleare una prossima, nuova proposta negoziale. L’Occidente in passato ha negoziato con l’Iran su diversi fronti. Nel negoziare è importante tener conto di quello che qui in America chiamano “the narrative of the people”. E’ qualcosa di più di come un popolo immagina se stesso, è la narrativa di una nazione, sono i fatti e non le semplici analisi. L’altro aspetto che dobbiamo tener presente è che nulla nel mondo resta fermo e l’Iran, negli ultimi trent’anni, è cambiato molto. L’Occidente deve considerare che quello che può o non può fare si misura sulle reazioni che ogni azione può provocare». Lei, che tanti negoziati ha condotto, da dove comincerebbe? «Il punto è quando, e con chi: questi sono i problemi che Obama ha davanti. Una società investita 30 anni fa da una rivoluzione, ha subito molti mutamenti al proprio interno. Valutare con quali dei diversi centri di potere sia importante colloquiare, e su quale punto della “narrative” è più utile focalizzarsi. E’ indubbio che a Teheran vi sia uno scontro di poteri in atto, e occorre valutare bene quale ruolo abbiano. Solo un esempio: le Guardie rivoluzionarie in 30 anni sono passate da un ruolo di centurioni del regime a un ruolo militare preponderante, ad uno economico forte, e forse oggi ad uno anche politico».
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