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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
02.08.2009 Iran: processo farsa ai dimostranti e arresto di tre turisti americani
Cronache e analisi di Viviana Mazza, Francesco Semprini, Abolhassan Bani-Sadr

Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Viviana Mazza - Francesco Semprini - Abolhassan Bani - Sadr
Titolo: «A Teheran il processo farsa ai dimostranti - Tre americani arrestati in Iran - Il popolo vince. Come con lo Scià -»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 02/08/2009, a pag. 17, l'articolo di Viviana Mazza dal titolo "A Teheran il processo farsa ai dimostranti  " e, a pag. 10, l'analisi di Abolhassan Bani-Sadr, primo presidente dell’Iran dopo la caduta dello Scià, dal 1981 in esilio a Parigi , dal titolo "  Il popolo vince. Come con lo Scià  ". Dalla STAMPA, a pag. 13, l'articolo di Francesco Semprini dal titolo " Tre americani arrestati in Iran  ". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " A Teheran il processo farsa ai dimostranti "

Uniformi grigie, qualcuno con il capo chino, la maggior parte con lo sguardo fisso avanti, un centinaio di iraniani sono apparsi in tribunale a Teheran. E’ iniziato ieri il primo processo per le proteste seguite alle elezioni del 12 giugno. E’ nota l’identità di una decina di loro: ex vicepresidenti, ex ministri, giornalisti. Le accuse: atti di vandalismo, legami con gruppi armati dell’opposizione, attentato alla sicurezza nazionale. Rischiano la pena di morte.
Dalle sedie color rosso porpora nell’aula affollata, gli imputati hanno ascoltato la lettura delle accuse da un documento di 15 pagine, secondo il quale i tre principali partiti riformisti avrebbero usato le elezioni per attuare una «rivoluzione di vel­luto » contro il regime (come quella del 1989 in Cecoslovac­chia) come previsto da un pia­no organizzato da oltre un an­no con fondi ricevuti da orga­nizzazioni non governative estere. Secondo l’agenzia di Sta­to Fars , alcuni imputati hanno confessato in aula che la vitto­ria di Ahmadinejad è stata rego­lare, smentendo accuse di bro­gli da loro stessi rivolte e ripetu­te da milioni di iraniani in piaz­za. La prima seduta (non è nota la durata del processo) si è svol­ta a porte chiuse, senza avvoca­ti difensori, in una Corte rivolu­zionaria retta da religiosi. Saleh Nikbakht, avvocato di diversi degli imputati, l’ha saputo dalla tv. E’ corso in tribunale, non l’hanno fatto entrare. Mai la Re­pubblica Islamica aveva proces­sato politici di così alto livello. Un tentativo di chiudere i conti con l’opposizione e di intimidi­re la società civile a pochi gior­ni dalla conferma del presiden­te Ahmadinejad, dicono gli esperti.
L’abiura esemplare è quella del 52enne Mohammad Ali Abtahi, religioso ed ex vicepre­sidente del riformista Khatami dal 1997 al 2005, ora braccio de­stro di Karroubi. Detenuto dal 16 giugno, secondo la moglie ha perso 18 chili. Sul capo man­cava il turbante nero che lo qua­lifica come seyyed, discendente di Maometto. «Ho sbagliato a partecipare alle proteste», ha detto. «Quella delle frodi è una menzogna usata per provocare disordini in modo che l’Iran di­venti come l’Afghanistan e l’Iraq». «Confessione» confer­mata dall’ex vicepresidente Mohsen Safai-Farahani, dagli ex ministri riformisti Mustafa Tajzadeh e Behzad Nabavi. «Gli
eventi post-elettorali erano sta­ti pianificati dagli americani da un anno», avrebbe ammesso il sociologo irano-americano Kian Tajbakhsh. Tra gli imputa­ti: i giornalisti Mohammed Atrianfar e Maziar Bahari e il leader del maggiore partito ri­formista Mohsen Mirdamadi.
Osservatori e attivisti consi­derano il processo una farsa. Il leader dell’opposizione Mousa­vi ha smentito i legami con gli stranieri. «Riformisti come Abtahi sono fedeli al cambia­mento nel profondo del loro es­sere », dice al
Corriere Azadeh Moaveni , che è stata inviata di
Time
in Iran e ha scritto Lipsti­ck Jihad e Viaggio di Nozze a Teheran (Newton Compton, in uscita il 6 agosto in Italia). Defi­nisce il processo «una messa in scena con confessioni in stile sovietico» e ricorda il coraggio sempre mostrato da Abtahi: opi­nionista e blogger oltre che poli­tico, rivelò per primo che la giornalista Zahra Kazemi era stata assassinata in prigione nel ’96 e che il regime ha protet­to fuggitivi di Al Qaeda. Quan­do nel 2001 Khatami ammise che gli ultraconservatori aveva­no reso impossibili le riforme sperate, la scrittrice ricorda gli occhi lucidi di Abtahi. Ieri ha ac­cusato Khatami di tradimento per aver appoggiato il cambia­mento. «Questa 'confessione' — dice Moaveni — è una scom­messa cosciente e calcolata per uscire dal carcere e tornare dal­la famiglia».

La STAMPA - Francesco Semprini : " Tre americani arrestati in Iran "

Nuove tensioni tra Washington e Teheran. Tre turisti americani sono stati arrestati ieri dalle autorità iraniane dopo aver attraversato il confine della repubblica islamica passando dai territori curdi del Nord Iraq. La notizia diffusa in un primo momento dai network statunitensi è stata poi confermata anche dalla televisione di Stato iraniana che però descrive i tre come militari. I tre ragazzi, secondo la versione americana due uomini e una donna, alloggiavano in una guesthouse nella città curda di Suleimaniye, a Nord-Est di Baghdad, e giovedì erano partiti per un trekking con l’intenzione di esplorare le montagne della regione. Si tratta di una zona impervia dell’Iraq dove, a differenza del resto del Paese, gli americani possono attraversare l’area ottenendo un visto con estrema facilità, poco dopo essere atterrati all’aeroporto.
I giovani, Joshua Steel, Shane Bower e Sara Short, si sono mossi da Suleimaniya a bordo di un taxi: l’obiettivo della spedizione era visitare una cascata nascosta tra le montagne e le colline circostanti. I tre americani viaggiavano nella regione di confine tra Kurdistan e Iran e sono finiti per sbaglio in territorio iraniano. Parte dei loro bagagli è stata ritrovata a circa cinquecento metri dalla frontiera, dove i ragazzi avevano trascorso la notte nelle tende. In base a quanto riferito dalle autorità curde, un loro amico e compagno di viaggio è rimasto in albergo a causa di un malessere per il quale ha preferito non seguire i compagni di viaggio nella spedizione. Al momento si trova in custodia all’ambasciata americana a Baghdad. Inizialmente l’escursione è sembrata svolgersi in condizioni di generale sicurezza, del resto l’itinerario non era del tutto nuovo a turisti in cerca di emozioni particolari.
Poi all’una di pomeriggio di venerdì è scattato l’allarme. Una voce in preda al panico è giunta sui centralini dei numeri di emergenza: «Siamo circondati dalla polizia iraniana». La frontiera in quelle zone non è indicata con chiarezza e i tre ragazzi, nonostante gli avvertimenti della polizia irachena, devono aver sconfinato in Iran. Nessun commento per ora da parte del governo iraniano, mentre l’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad ha fatto sapere di seguire la vicenda «molto seriamente». «Sembrerebbe che i tre siano stati catturati e presi in custodia: potrebbero essere stati portati in Iran», ha detto un funzionario americano. Secondo Teheran i tre giovani catturati sarebbero «militari», il che complica la faccenda.
Secondo il portavoce del dipartimento di Stato, Megan Mattson, Washington «sta usando tutti i mezzi disponibili per stabilire i fatti riguardanti questo caso». «La sicurezza e la salute dei cittadini americani sono la priorità principale per il governo degli Stati Uniti. Noi prendiamo in considerazione molto seriamente tutti i casi di detenzione». L’arresto dei cittadini americani potrebbe essere utilizzato ancora una volta come leva nei rapporti di forza tra Iran e comunità internazionale in un momento di grandi tensioni dovuto non solo ai programmi nucleari di Teheran, ma anche alle controverse elezioni presidenziali segnate da una scia di sangue e dalle proteste dell’opposizione riformista contro la contestata rielezione del presidente in carica, il conservatore Mahmoud Ahmadinejad.

CORRIERE della SERA - Abolhassan Bani - Sadr : " Il popolo vince. Come con lo Scià "

 Abolhassan Bani - Sadr, in una foto giovanile

Nell’arco di sole sei settimane dalle ultime elezioni, il governo della Re­pubblica islamica è apparso clamo­rosamente diviso, delegittimato, contestato e indebolito. Questo ci consente di tratteggiare alcune analogie tra l’at­tuale regime e quello dello Scià, antecedente al 1979, come pure tra i motivi che hanno innesca­to la contestazione politica allora e oggi. Sotto il profilo storico, quattro sono i capisaldi dai quali il regime iraniano deriva la sua legittimità: la ca­pacità di governare il paese (che gli assicura il consenso popolare); l’autorità religiosa ufficiale; la difesa dell’indipendenza iraniana; e il soste­gno stabile alle fasce sociali più deboli. Allo sta­to attuale, tutti e quattro questi pilastri sono sta­ti irrimediabilmente scardinati.
Persino la sharia tradizionale, cui ricorre il go­verno per giustificare molte delle sue azioni, è stata svuotata del significato originale e ridotta a una teoria di violenza generalizzata. L’ayatollah Mohammad Mesbah Yazdi, da molti considerato l’ispiratore di Ahmadinejad, ha scritto un libro dal titolo «Guerra e Jihad nell’Islam», nel quale sostiene che la violenza è una componente in­trinseca e necessaria alla natura umana. Per estensione, Yazdi afferma che se la Guida Supre­ma è designata da Dio, ne consegue che l’uso del­la violenza è pienamente giustificato. Lungi dal rafforzare l’autorità religiosa del regime, tutta­via, la teoria di Yazdi sull’uso della violenza non ha fatto altro che scalzarla, perché va a scontrar­si con un’altra fonte importantissima di legittimi­tà, la costituzione, la quale sancisce che l’autori­tà deriva dalla volontà popolare espressa attra­verso il voto, e non da Dio. Il regime ha già perso altre due delle basi del potere che storicamente hanno reso possibile il totalitarismo in Iran: la monarchia, il ruolo economico dei bazar nelle città e dei grandi proprietari terrieri nelle campa­gne, e infine il clero. Di questi fattori oggi resta in piedi solo il clero, e il suo potere vacilla. Per puntellarlo, il governo ha fatto ricorso al quarto strumento del dispotismo iraniano: incolpare le potenze straniere, gli Stati Uniti in primis, di oscure congiure e pesanti intimidazioni.
Ovvio che la presidenza di George W. Bush ab­bia rappresentato un’occasione assai ghiotta per il regime iraniano, che ha sfruttato appieno la minaccia costante di intervento militare e di san­zioni economiche per rafforzare il suo controllo sul paese. Il nuovo approccio di Barack Obama verso l’Iran, che rifugge dallo scontro aperto a fa­vore della via diplomatica, ha messo in difficoltà il regime iraniano, che oggi non può più raffigu­rarsi come difensore della sovranità nazionale contro le ingerenze straniere. Infine, la principa­le base di sostegno del regime, il clero, è stata via via rimpiazzata da una mafia militar-finanzia­ria. La Guardia rivoluzionaria oggi manovra tutte le leve del potere e afferma che il compito del clero non è governare, bensì semplicemente con­ferire legittimità a coloro che governano.
Proprio come nel 1979, anche le proteste in corso sono caratterizzate da un atteggiamento non violento. L’attuale movimento, tuttavia, si di­scosta in maniera significativa dalle agitazioni politiche del 1979. Mentre le prime azioni di dis­senso nel 1979 provenivano dal di fuori del pae­se, l’attuale opposizione è nata in seno allo stes­so regime, quando è apparso evidente che le ele­zioni erano state manovrate a scapito di Mir Hos­sein Mousavi. Certo, ci sono segnali concreti che la contestazione oggi ha superato i confini del regime per trasformarsi in un movimento vera­mente popolare. Le occorre ancora del tempo, tuttavia, per diffondersi nell’intero paese, e solo allora si potrà dire che «i fiori sconfiggeranno le pallottole», come accadde durante i tumulti del 1979. La rivoluzione del 1979 è un evento ormai consegnato alla storia, mentre le agitazioni cui assistiamo oggi sono ancora in divenire. Dove porteranno?
I brogli elettorali hanno scavato un solco pro­fondo tra i due campi. Cambiare posizione nel­l’uno o nell’altro sarebbe un suicidio politico. Khamenei e Ahmadinejad non possono ammet­tere di aver fatto ricorso ai brogli, perché così fa­cendo rinuncerebbero agli ultimi brandelli di le­gittimità legale e politica. L’ex presidente Ali Ak­bar Rafsanjani è pesantemente bersagliato dai sostenitori di Khamenei e sia Mousavi che Meh­di Karoubi, l’altro candidato presidenziale, san­no che rischiano di perdere entrambi il favore popolare e di ritrovarsi alla mercé di un regime spietato, se accoglieranno le richieste di Khamenei.
Diversi sono i possibili sbocchi della crisi. Storica­mente, la tattica principale del regime per conservare il potere è stata quella di divide­re le élite sociali in due gruppi in competizione tra loro, per poi eliminarne uno. Oggi, pe­rò, questo processo è arrivato sin nel cuore del regime, con effetti letali. Se da una parte non pochi tra i massimi espo­nenti del regime si oppongo­no ad Ahmadinejad, dall’altra il peggioramento delle condizioni economiche sta rinfocolando il malcontento popolare. Si è aperto così uno spira­glio, che potrebbe consentire al popolo iraniano di decidere del proprio destino. Se il popolo ira­niano rinuncerà alla resistenza, le condizioni di vita si inaspriranno; se continuerà la sua batta­glia, le proteste si trasformeranno ben presto in una vera e propria rivoluzione. A questo punto la democrazia diventerebbe una reale possibilità in Iran. Tutti i segnali indicano che questa è la via che gli iraniani intendono seguire.

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