Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 02/08/2009, a pag. 17, l'articolo di Viviana Mazza dal titolo "A Teheran il processo farsa ai dimostranti " e, a pag. 10, l'analisi di Abolhassan Bani-Sadr, primo presidente dell’Iran dopo la caduta dello Scià, dal 1981 in esilio a Parigi , dal titolo " Il popolo vince. Come con lo Scià ". Dalla STAMPA, a pag. 13, l'articolo di Francesco Semprini dal titolo " Tre americani arrestati in Iran ". Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " A Teheran il processo farsa ai dimostranti "
Uniformi grigie, qualcuno con il capo chino, la maggior parte con lo sguardo fisso avanti, un centinaio di iraniani sono apparsi in tribunale a Teheran. E’ iniziato ieri il primo processo per le proteste seguite alle elezioni del 12 giugno. E’ nota l’identità di una decina di loro: ex vicepresidenti, ex ministri, giornalisti. Le accuse: atti di vandalismo, legami con gruppi armati dell’opposizione, attentato alla sicurezza nazionale. Rischiano la pena di morte.
Dalle sedie color rosso porpora nell’aula affollata, gli imputati hanno ascoltato la lettura delle accuse da un documento di 15 pagine, secondo il quale i tre principali partiti riformisti avrebbero usato le elezioni per attuare una «rivoluzione di velluto » contro il regime (come quella del 1989 in Cecoslovacchia) come previsto da un piano organizzato da oltre un anno con fondi ricevuti da organizzazioni non governative estere. Secondo l’agenzia di Stato Fars , alcuni imputati hanno confessato in aula che la vittoria di Ahmadinejad è stata regolare, smentendo accuse di brogli da loro stessi rivolte e ripetute da milioni di iraniani in piazza. La prima seduta (non è nota la durata del processo) si è svolta a porte chiuse, senza avvocati difensori, in una Corte rivoluzionaria retta da religiosi. Saleh Nikbakht, avvocato di diversi degli imputati, l’ha saputo dalla tv. E’ corso in tribunale, non l’hanno fatto entrare. Mai la Repubblica Islamica aveva processato politici di così alto livello. Un tentativo di chiudere i conti con l’opposizione e di intimidire la società civile a pochi giorni dalla conferma del presidente Ahmadinejad, dicono gli esperti.
L’abiura esemplare è quella del 52enne Mohammad Ali Abtahi, religioso ed ex vicepresidente del riformista Khatami dal 1997 al 2005, ora braccio destro di Karroubi. Detenuto dal 16 giugno, secondo la moglie ha perso 18 chili. Sul capo mancava il turbante nero che lo qualifica come seyyed, discendente di Maometto. «Ho sbagliato a partecipare alle proteste», ha detto. «Quella delle frodi è una menzogna usata per provocare disordini in modo che l’Iran diventi come l’Afghanistan e l’Iraq». «Confessione» confermata dall’ex vicepresidente Mohsen Safai-Farahani, dagli ex ministri riformisti Mustafa Tajzadeh e Behzad Nabavi. «Gli eventi post-elettorali erano stati pianificati dagli americani da un anno», avrebbe ammesso il sociologo irano-americano Kian Tajbakhsh. Tra gli imputati: i giornalisti Mohammed Atrianfar e Maziar Bahari e il leader del maggiore partito riformista Mohsen Mirdamadi.
Osservatori e attivisti considerano il processo una farsa. Il leader dell’opposizione Mousavi ha smentito i legami con gli stranieri. «Riformisti come Abtahi sono fedeli al cambiamento nel profondo del loro essere », dice al Corriere Azadeh Moaveni , che è stata inviata di
Time in Iran e ha scritto Lipstick Jihad e Viaggio di Nozze a Teheran (Newton Compton, in uscita il 6 agosto in Italia). Definisce il processo «una messa in scena con confessioni in stile sovietico» e ricorda il coraggio sempre mostrato da Abtahi: opinionista e blogger oltre che politico, rivelò per primo che la giornalista Zahra Kazemi era stata assassinata in prigione nel ’96 e che il regime ha protetto fuggitivi di Al Qaeda. Quando nel 2001 Khatami ammise che gli ultraconservatori avevano reso impossibili le riforme sperate, la scrittrice ricorda gli occhi lucidi di Abtahi. Ieri ha accusato Khatami di tradimento per aver appoggiato il cambiamento. «Questa 'confessione' — dice Moaveni — è una scommessa cosciente e calcolata per uscire dal carcere e tornare dalla famiglia».
La STAMPA - Francesco Semprini : " Tre americani arrestati in Iran "

Nuove tensioni tra Washington e Teheran. Tre turisti americani sono stati arrestati ieri dalle autorità iraniane dopo aver attraversato il confine della repubblica islamica passando dai territori curdi del Nord Iraq. La notizia diffusa in un primo momento dai network statunitensi è stata poi confermata anche dalla televisione di Stato iraniana che però descrive i tre come militari. I tre ragazzi, secondo la versione americana due uomini e una donna, alloggiavano in una guesthouse nella città curda di Suleimaniye, a Nord-Est di Baghdad, e giovedì erano partiti per un trekking con l’intenzione di esplorare le montagne della regione. Si tratta di una zona impervia dell’Iraq dove, a differenza del resto del Paese, gli americani possono attraversare l’area ottenendo un visto con estrema facilità, poco dopo essere atterrati all’aeroporto.
I giovani, Joshua Steel, Shane Bower e Sara Short, si sono mossi da Suleimaniya a bordo di un taxi: l’obiettivo della spedizione era visitare una cascata nascosta tra le montagne e le colline circostanti. I tre americani viaggiavano nella regione di confine tra Kurdistan e Iran e sono finiti per sbaglio in territorio iraniano. Parte dei loro bagagli è stata ritrovata a circa cinquecento metri dalla frontiera, dove i ragazzi avevano trascorso la notte nelle tende. In base a quanto riferito dalle autorità curde, un loro amico e compagno di viaggio è rimasto in albergo a causa di un malessere per il quale ha preferito non seguire i compagni di viaggio nella spedizione. Al momento si trova in custodia all’ambasciata americana a Baghdad. Inizialmente l’escursione è sembrata svolgersi in condizioni di generale sicurezza, del resto l’itinerario non era del tutto nuovo a turisti in cerca di emozioni particolari.
Poi all’una di pomeriggio di venerdì è scattato l’allarme. Una voce in preda al panico è giunta sui centralini dei numeri di emergenza: «Siamo circondati dalla polizia iraniana». La frontiera in quelle zone non è indicata con chiarezza e i tre ragazzi, nonostante gli avvertimenti della polizia irachena, devono aver sconfinato in Iran. Nessun commento per ora da parte del governo iraniano, mentre l’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad ha fatto sapere di seguire la vicenda «molto seriamente». «Sembrerebbe che i tre siano stati catturati e presi in custodia: potrebbero essere stati portati in Iran», ha detto un funzionario americano. Secondo Teheran i tre giovani catturati sarebbero «militari», il che complica la faccenda.
Secondo il portavoce del dipartimento di Stato, Megan Mattson, Washington «sta usando tutti i mezzi disponibili per stabilire i fatti riguardanti questo caso». «La sicurezza e la salute dei cittadini americani sono la priorità principale per il governo degli Stati Uniti. Noi prendiamo in considerazione molto seriamente tutti i casi di detenzione». L’arresto dei cittadini americani potrebbe essere utilizzato ancora una volta come leva nei rapporti di forza tra Iran e comunità internazionale in un momento di grandi tensioni dovuto non solo ai programmi nucleari di Teheran, ma anche alle controverse elezioni presidenziali segnate da una scia di sangue e dalle proteste dell’opposizione riformista contro la contestata rielezione del presidente in carica, il conservatore Mahmoud Ahmadinejad.
CORRIERE della SERA - Abolhassan Bani - Sadr : " Il popolo vince. Come con lo Scià "
Abolhassan Bani - Sadr, in una foto giovanile
Nell’arco di sole sei settimane dalle ultime elezioni, il governo della Repubblica islamica è apparso clamorosamente diviso, delegittimato, contestato e indebolito. Questo ci consente di tratteggiare alcune analogie tra l’attuale regime e quello dello Scià, antecedente al 1979, come pure tra i motivi che hanno innescato la contestazione politica allora e oggi. Sotto il profilo storico, quattro sono i capisaldi dai quali il regime iraniano deriva la sua legittimità: la capacità di governare il paese (che gli assicura il consenso popolare); l’autorità religiosa ufficiale; la difesa dell’indipendenza iraniana; e il sostegno stabile alle fasce sociali più deboli. Allo stato attuale, tutti e quattro questi pilastri sono stati irrimediabilmente scardinati.
Persino la sharia tradizionale, cui ricorre il governo per giustificare molte delle sue azioni, è stata svuotata del significato originale e ridotta a una teoria di violenza generalizzata. L’ayatollah Mohammad Mesbah Yazdi, da molti considerato l’ispiratore di Ahmadinejad, ha scritto un libro dal titolo «Guerra e Jihad nell’Islam», nel quale sostiene che la violenza è una componente intrinseca e necessaria alla natura umana. Per estensione, Yazdi afferma che se la Guida Suprema è designata da Dio, ne consegue che l’uso della violenza è pienamente giustificato. Lungi dal rafforzare l’autorità religiosa del regime, tuttavia, la teoria di Yazdi sull’uso della violenza non ha fatto altro che scalzarla, perché va a scontrarsi con un’altra fonte importantissima di legittimità, la costituzione, la quale sancisce che l’autorità deriva dalla volontà popolare espressa attraverso il voto, e non da Dio. Il regime ha già perso altre due delle basi del potere che storicamente hanno reso possibile il totalitarismo in Iran: la monarchia, il ruolo economico dei bazar nelle città e dei grandi proprietari terrieri nelle campagne, e infine il clero. Di questi fattori oggi resta in piedi solo il clero, e il suo potere vacilla. Per puntellarlo, il governo ha fatto ricorso al quarto strumento del dispotismo iraniano: incolpare le potenze straniere, gli Stati Uniti in primis, di oscure congiure e pesanti intimidazioni.
Ovvio che la presidenza di George W. Bush abbia rappresentato un’occasione assai ghiotta per il regime iraniano, che ha sfruttato appieno la minaccia costante di intervento militare e di sanzioni economiche per rafforzare il suo controllo sul paese. Il nuovo approccio di Barack Obama verso l’Iran, che rifugge dallo scontro aperto a favore della via diplomatica, ha messo in difficoltà il regime iraniano, che oggi non può più raffigurarsi come difensore della sovranità nazionale contro le ingerenze straniere. Infine, la principale base di sostegno del regime, il clero, è stata via via rimpiazzata da una mafia militar-finanziaria. La Guardia rivoluzionaria oggi manovra tutte le leve del potere e afferma che il compito del clero non è governare, bensì semplicemente conferire legittimità a coloro che governano.
Proprio come nel 1979, anche le proteste in corso sono caratterizzate da un atteggiamento non violento. L’attuale movimento, tuttavia, si discosta in maniera significativa dalle agitazioni politiche del 1979. Mentre le prime azioni di dissenso nel 1979 provenivano dal di fuori del paese, l’attuale opposizione è nata in seno allo stesso regime, quando è apparso evidente che le elezioni erano state manovrate a scapito di Mir Hossein Mousavi. Certo, ci sono segnali concreti che la contestazione oggi ha superato i confini del regime per trasformarsi in un movimento veramente popolare. Le occorre ancora del tempo, tuttavia, per diffondersi nell’intero paese, e solo allora si potrà dire che «i fiori sconfiggeranno le pallottole», come accadde durante i tumulti del 1979. La rivoluzione del 1979 è un evento ormai consegnato alla storia, mentre le agitazioni cui assistiamo oggi sono ancora in divenire. Dove porteranno?
I brogli elettorali hanno scavato un solco profondo tra i due campi. Cambiare posizione nell’uno o nell’altro sarebbe un suicidio politico. Khamenei e Ahmadinejad non possono ammettere di aver fatto ricorso ai brogli, perché così facendo rinuncerebbero agli ultimi brandelli di legittimità legale e politica. L’ex presidente Ali Akbar Rafsanjani è pesantemente bersagliato dai sostenitori di Khamenei e sia Mousavi che Mehdi Karoubi, l’altro candidato presidenziale, sanno che rischiano di perdere entrambi il favore popolare e di ritrovarsi alla mercé di un regime spietato, se accoglieranno le richieste di Khamenei.
Diversi sono i possibili sbocchi della crisi. Storicamente, la tattica principale del regime per conservare il potere è stata quella di dividere le élite sociali in due gruppi in competizione tra loro, per poi eliminarne uno. Oggi, però, questo processo è arrivato sin nel cuore del regime, con effetti letali. Se da una parte non pochi tra i massimi esponenti del regime si oppongono ad Ahmadinejad, dall’altra il peggioramento delle condizioni economiche sta rinfocolando il malcontento popolare. Si è aperto così uno spiraglio, che potrebbe consentire al popolo iraniano di decidere del proprio destino. Se il popolo iraniano rinuncerà alla resistenza, le condizioni di vita si inaspriranno; se continuerà la sua battaglia, le proteste si trasformeranno ben presto in una vera e propria rivoluzione. A questo punto la democrazia diventerebbe una reale possibilità in Iran. Tutti i segnali indicano che questa è la via che gli iraniani intendono seguire.
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