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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Giornale Rassegna Stampa
31.07.2009 L’inviato Holbrooke: ' Sì a un progressivo ritiro delle truppe dall'Afghanistan '
Korb: 'L’exit strategy non è disimpegno '. Cronache e intervista di Maurizio Molinari, Gian Micalessin

Testata:La Stampa - Il Giornale
Autore: Maurizio Molinari - Gian Micalessin
Titolo: «L’inviato Holbrooke: ' Sì a un progressivo ritiro delle truppe ' - Korb: 'L’exit strategy non è disimpegno ' - I talebani: guerra santa contro le elezioni»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 31/07/2009, a pag. 11, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " L’inviato Holbrooke: ' Sì a un progressivo ritiro delle truppe ' " e la sua intervista a Larry Korb, ex vicesegretario della difesa durante l’amministrazione Reagan, dal titolo "Korb: 'L’exit strategy non è disimpegno'". Dal GIORNALE, a pag. 12, la cronaca di Gian Micalessin dal titolo " I  talebani: guerra santa contro le elezioni ".
Ecco gli articoli:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " L’inviato Holbrooke: ' Sì a un progressivo ritiro delle truppe ' "

 Richard Holbrooke

Richard Holbrooke descrive l’«Exit Strategy» dall’Afghanistan e il Pentagono pensa all’invio di più truppe disegnando l’approccio dell’amministrazione Obama al conflitto.
L’inviato Usa per Afghanistan-Pakistan, appena tornato da una missione al quartier generale della Nato a Bruxelles, spiega che «è assolutamente essenziale che nel tempo il governo di Kabul si assuma la responsabilità della propria sicurezza consentendo il progressivo ritiro delle truppe combattenti» mentre «continuerà a lungo l’assistenza economica, l’addestramento delle truppe e il ruolo di consulenza» da parte degli alleati. Il messaggio di Holbrooke è diretto da un lato alla Nato, per far capire che l’impegno civile è destinato a crescere nel tempo, e dall’altro a chi vincerà le elezioni afghane di fine agosto perché «è evidente a tutti che gli attuali livelli di forze di polizia e soldati devono essere aumentati». Le parole di Holbrooke guardano già al dopo voto, al fine di preparare la comunità internazionale ad aiutare il nuovo presidente in maniera più energica di quanto fatto finora. E’ per questo che sottolinea «due esempi» positivi da tener presente: il primo è «il Giappone che nell’attuale fase si è assunto l’onere di pagare gli stipendi di tutti i dipendenti pubblici» e l’altro riguarda i «sei Paesi europei» che «nel quartier generale creato in Italia» stanno compiendo «uno sforzo straordinario» per accelerare l’addestramento della polizia afghana. Come aggiunge Susan Rice, ambasciatrice Usa all’Onu, «questa amministrazione crede nelle missioni di peacekeeping» e punta dunque nel lungo periodo a iniziarne una in grande stile in Afghanistan una volta terminato il conflitto con i taleban. La difficoltà sta nel fatto che i combattimenti continuano perché, nelle regioni del Sud come dell’Est, la guerriglia jihadista resta in grado di controllare ampie zone di territorio riuscendo anche a mettere in difficoltà le forze della coalizione internazionale. Sono questi i motivi che spingono Anthony Cordesman, esperto di strategia militare consulente del Pentagono di Robert Gates, ad affermare che «servono più risorse alle operazioni guidate dal generale Stan McChrystal». «Bisognerà aspettare di avere schierati sul territorio tutti i 68 mila uomini inviati da Obama - spiega Cordesman - per sapere quanti altri ancora ne serviranno ma dobbiamo tener presente che l’offensiva è appena iniziata». Sarà il primo rapporto di McChrystal a Obama, atteso per settembre, a contenere le prima valutazioni sull’entità del contingente anche se alla Casa Bianca vi sono opinioni divergenti. Il consigliere per la sicurezza nazionale, James Jones, infatti si è detto «contrario all’invio di nuovi soldati» nel timore che possano contribuire a irritare «la popolazione civile».
L’altro tassello della strategia americana riguarda il Pakistan, e anche qui Holbrooke esorta gli europei a «fare di più». «La maggioranza delle 41 nazioni europee partecipano agli sforzi internazionali in Afghanistan - dice l’inviato Usa - ma non prestano sufficiente attenzione al Pakistan, per questo nei miei incontri alla Nato ed alla Commissione Europea ho sottolineato l’importanza di rimediare a questa carenza, progettato aiuti a Islamabad su più fronti, dall’energia ai rifugiati all’antiterrorismo perché qualsiasi cosa avviene in quel Paese si ripercuote subito sulll’Afghanistan». L’intenzione è di spingere gli alleati ad agire in fretta perché «quest’area geografica dove si sommano Al Qaeda, i taleban pakistani, i taleban afghani e due milioni e mezzo di profughi è la più pericolosa del Pianeta».

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Korb: 'L’exit strategy non è disimpegno ' "

 Larry Korb

Quando l’amministrazione Obama parla di exit strategy non intende dire che vuole rititare le truppe». A spiegare l’approccio della Casa Bianca alla guerra afghana è Larry Korb, titolare del portafoglio della sicurezza nella roccaforte democratica del «Center for American Progress» di Washington ed ex vicesegretario alla Difesa durante l’amministrazione Reagan.
Perché l’inviato Usa Richard Holbrooke parla di «exit strategy» a Kabul quando il Pentagono chiede più truppe alla Nato per la missione in Afghanistan?
«Fra i due messaggi non c’è contraddizione. L’amministrazione Obama ha deciso di mandare più soldati in Afghanistan, portandoli da 42 mila a 68 mila, ma il Congresso le ha chiesto di elaborare una strategia d’uscita delle truppe dall’Afghanistan. Si tratta di due momenti diversi, bisogna prima stabilizzare l’Afghanistan e quindi si può programmare l’uscita».
Dunque la richiesta di più truppe agli alleati è confermata?
«Certo, più soldati sono assolutamente necessari, come ha recentemente fatto sapere agli alleati il ministro della Difesa Robert Gates. Servono più truppe perché abbiamo un nuovo comandante in Stan McChrystal, e potrebbe presto decidere che gli attuali contingenti non sono sufficienti per portare a fondo le nuove operazioni contro i taleban».
Insomma, «exit strategy» non significa ritirare le truppe...
«Assolutamente no. Parlare di "exit strategy" significa avere una strategia per porre fine al conflitto. La critica più consistente che venne fatta all’amministrazione Bush sull’Iraq fu proprio di aver iniziato una guerra senza aver pensato alla strategia per porvi fine. Per scongiurare lo stesso errore l’amministrazione Obama si muove in una duplice direzione: aumenta la pressione militare sui taleban ora, pensando già di ritirare le truppe combattenti quando sarà possibile».
Quali sono dunque gli elementi della "exit strategy" di Obama?
«E’ una strategia in via di elaborazione ma da quanto Gates, McChrystal, Holbrooke e anche il generale David Petraeus stanno dicendo passa attraverso il consolidamento delle insfrastrutture civili in Afghanistan, a cominciare dall’agricoltura che è la fonte di maggiore sostantamento della popolazione. E’ per questo che Washington chiede agli alleati anche di aumentare l’impegno economico sugli aspetti civili. Bisogna ricostruire il tessuto civile del Paese per impedire ai taleban di tornare al potere».
E sul fronte della sicurezza?
«Non c’è dubbio che l’Afghanistan ha bisogno di più forze di polizia e più militari. Gli attuali contingenti per la sicurezza sono insufficienti. Non potrebbero garantire alcunché senza il sostegno della Nato. E questa situazione spiega l’altra richiesta-chiave che Holbrooke ha portato a Bruxelles: servono più istruttori di polizia civile».
Cosa pensa dell’appoccio titubante che molti alleati della Nato hanno al conflitto?
«I dubbi che esprimono si riflettono molto anche nel dibattito che abbiamo qui in America. E’ bene discutere dei dubbi che si hanno, soprattutto fra alleati. Ma non c’è alcun dubbio che non possiamo andare via ora. Prima dobbiamo assicurarci che Al Qaeda sia sconfitta e i taleban non possano più minacciare i governi democraticamente eletti a Kabul. Servirà del tempo. Ma se la Nato riuscira a darsi una chiara "exit strategy" sarà anche più facile per i nostri governi spiegare alle rispettive opinioni pubbliche il fine della missione».

Il GIORNALE - Gian Micalessin : " I  talebani: guerra santa contro le elezioni "

 Talebani

Bala Mourghab (Afghanistan)In questa base di ruderi, tende e polvere il comandante colonnello Marco Tuzzolino incrocia le dita e s'ostina a definirla «pausa operativa». A Kabul già parlano di prima tregua. Nel resto del paese non sanno neppure cosa sia. L'apparente cessate il fuoco fra talebani e governativi proclamato in quest'angolo della provincia di Badghis, all'estremità nord occidentale del settore italiano, sembra destinata a restare un esperimento isolato. Così almeno fanno capire i comandi talebani in un comunicato che definisce le elezioni un sotterfugio americano e invita gli afghani a boicottarle per partecipare alla guerra santa.
La decisione di scendere in campo per impedire lo svolgimento delle elezioni presidenziali è stata presa dal consiglio dei comandanti talebani e viene annunciata da alemareh1.net, un sito considerato la voce ufficiale dei fondamentalisti. «Tutti i comandanti devono concentrarsi per garantire il fallimento di questo processo, colpire le basi nemiche e impedire alla popolazione di partecipare al voto», spiega il sito citando un comunicato che sembra la prima presa di posizione esplicita riguardo alla questione elettorale. «Il popolo non può che sentirsi estraneo a questo processo pianificato e finanziato dagli americani. Tutti gli afghani in virtù della fede islamica e del sentimento nazionale devono «boicottare queste seduzioni statunitensi e scendere nelle trincee della guerra santa». Chi non se la sente di partecipare direttamente alla guerra contro le forze straniere può comunque - spiega il sito integralista - collaborare con i talebani contribuendo a bloccare e a rendere inaccessibili ai veicoli governativi le principali arterie del paese». Il piano punta a bloccare la cosiddetta «ring road», l'anello d'asfalto che congiunge tutte le principali città.
Il comunicato dei comandanti fondamentalisti sembra in contrasto con quanto avviene intorno a questa base, nel nord ovest della provincia di Badghis. Qui a Bala Mourghab dalla fine di maggio ad oggi il 183º reggimento Nembo e gli altri parà della Folgore hanno sostenuto una serie di durissime battaglie. Le ingenti perdite inflitte ai talebani durante quegli scontri e il recente arrivo di una colonna di cento mezzi guidati dai nostri parà avrebbe indotto i capi talebani ad accettare la tregua. L'intesa sarebbe stata siglata tra sabato e domenica scorsi da un emissario del governo di Kabul mandato in questa turbolenta zona a maggioranza pashtun per discutere con gli anziani e trattare con gli estremisti. Dopo l'arrivo dei cento mezzi scortati da numerosi elicotteri un gruppo di circa 300 sospetti talebani è stato visto abbandonare le posizioni per raggiungere le montagne. In cambio l'esercito afghano e i nostri militari hanno lasciato alla polizia il controllo dei posti di blocco per ritirarsi nella base. Il comandante Tuzzolino continua, però, a tener la mano sulla pistola e gli occhi molto aperti. «Io tocco ferro e continuo a chiamarla pausa operativa... se dura tanto di guadagnato per noi e per i civili della zona che hanno bisogno del nostro aiuto».

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