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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
28.07.2009 Afghanistan: i talebani usano bambini come terroristi suicidi
Cronache e analisi di Gagia Cesare, Guido Olimpio, Chris Patten

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa
Autore: Gaia Cesare - Guido Olimpio - La redazione del Foglio - Chris Patten
Titolo: «Noi, baby-kamikaze contro i soldati italiani - Dialogo e intese locali Il fronte della trattativa con i 'piccoli talebani' - Sciami d’assalto - Gli abusi della storia»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 28/07/2009, a pag. 9, l'articolo di Gaia Cesare dal titolo " Noi, baby-kamikaze contro i soldati italiani ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 6, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Dialogo e intese locali. Il fronte della trattativa con i «piccoli talebani» ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Sciami d’assalto ". Dalla STAMPA, a pag. 1-29, l'articolo di Christ Patten, politico britannico, dal titolo " Gli abusi della storia  ". Ecco gli articoli:

Il GIORNALE - Gaia Cesare : " Noi, baby-kamikaze contro i soldati italiani "

Per sedici ore ogni giorno li hanno allenati fisicamente e indottrinati psicologicamente, in modo che potessero affrontare la morte propria e quella del nemico con il fanatismo che si richiede a un vero eroe dell’islam. Ora le truppe pachistane li hanno catturati. Ma di fronte non si sono trovati kamikaze qualunque. In quel campo sono stati «allevati» al martirio fra i 1.200 e i 1.500 bambini. Tutti di età compresa fra gli undici e i quindici anni. Hanno imparato che anche uccidere i genitori - «se sono dalla parte sbagliata» - può essere un atto di fede ad Allah. Gli hanno insegnato che combattere i nemici dell’islam è un dovere e che il martirio è la ricompensa migliore per un musulmano. Per sedici ore ogni giorno li hanno allenati fisicamente e indottrinati psicologicamente, in modo che potessero affrontare la morte propria e quella del nemico con il fanatismo che si richiede a un vero eroe dell’islam. Ora le truppe pachistane li hanno catturati. Ma di fronte non si sono trovati kamikaze qualunque. In quel campo di addestramento smantellato dalle forze di Islamabad nella valle dello Swat sono stati «allevati» al martirio fra i 1.200 e i 1.500 bambini. Tutti di età compresa fra gli undici e i quindici anni. Rapiti dai talebani e da loro addestrati per andare a morire in Afghanistan.
Niente scuola, addio agli amici e alla famiglia. I guerriglieri islamici li hanno sequestrati e portati a Mingora, la città nella valle dello Swat, al confine con l’Afghanistan, che in base a un accordo col governo pachistano è rimasta in mano agli integralisti, salvo poi subire l’offensiva militare delle forze di Islamabad quando i talebani hanno disatteso i patti. I piccoli protagonisti di una guerra più grande della loro stessa volontà - una volta catturati dai soldati di Islamabad - hanno raccontato a un giornalista del Times i loro giorni da incubo. Abdul Wahab è stato portato via dalla madrassa, la scuola islamica in cui studiava, e trasferito nel campo con la forza. Ha solo 15 anni: «Mi hanno detto che allenarmi per combattere i nemici dell’islam era dovere di ogni buon musulmano». Poi l’ammissione: «Ero terrorizzato quando mi hanno avvertito che sarei stato addestrato per gli attacchi suicidi». A Murad, 13 anni, hanno messo subito in mano una pistola: «Il mio istruttore mi ha detto che il martirio è la ricompensa migliore di Allah». A Kurshid Khan, 14 anni, hanno insegnato «a non esitare anche ad uccidere i genitori se stanno dalla parte sbagliata». Poi hanno istigato l’odio anche contro le forze pachistane, «diventate amiche dei cristiani e degli ebrei».
Il giorno dell’attacco, il baby-kamikaze viene portato in moschea e elogiato per essere stato prescelto da Dio. E le forze pachistane non hanno dubbi: i bimbi di circa dodici anni allenati alla morte per l’islam sono almeno 1.200. Un numero e una circostanza che si sommano alle notizie svelate da un rapporto delle Nazioni Unite, che ricorda come l’80 per cento degli attentati contro le forze americane e occidentali impegnate in Afghanistan coinvolga persone addestrate in campi militari allestiti in Pakistan.
Per alcuni di questi bambini però c’è una speranza. Dopo il blitz dei soldati pachistani, qualcuno è stato restituito alle proprie famiglie. Murad è tornato a Mingora. «Non avevamo idea di dove fosse finito - ha raccontato il padre. Mi ha fatto orrore sapere che mio figlio potesse diventare un kamikaze».
Qualcun altro però non ha trovato la via di ritorno a casa. Molti sono stati venduti ad altri militanti. Impossibile sapere quanti di loro siano ancora vivi.

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Dialogo e intese locali Il fronte della trattativa con i «piccoli talebani» "

 Talebani

Per i diplomatici è la soluzione del «divide et impera». Per gli ingle­si, pragmatici e accorti quando si parla di Afghanistan, è il «bastone e la carota». Per il presidente afgha­no Hamid Karzai è stabilire un prin­cipio di coesistenza.
Approcci diversi ma con un obiettivo unico: trattare con quei ta­lebani che sono disposti a troncare i legami con Al Qaeda e a rinuncia­re alla violenza.
La tattica per instaurare un dialo­go è quella delle intese locali. Si cer­ca il signore della guerra disposto a parlare, si valuta il prezzo di un’eventuale tregua — non pace, sia chiaro — e quindi si punta al­l’accordo in una vallata o in una provincia. E’ ciò che ha annunciato ieri il governo di Kabul che, in vista del voto del 20 agosto, avrebbe strappato un cessate il fuoco nella regione di Badghis, al confine con il Turkmenistan.
Un patto, però, ballerino, visto che i ribelli negano di averlo conclu­so. Una smentita che può essere di facciata — nessuno vuole essere ac­cusato di tradire la causa — o che indica difficoltà dell’ultima ora.
Ma, ostacoli a parte, questa è la strada che Karzai e gli alleati — americani compresi — vogliono imboccare nel medio termine. Il presidente afghano ha ribadito la cornice: parliamo con chi rinuncia al terrorismo e tronca i rapporti con i qaedisti. Non è però possibi­le, ha aggiunto, concedere agli in­sorti la richiesta capestro rappre­sentata dal calendario per il ritiro delle truppe straniere. Più duro il ministro degli Esteri britannico Da­vid
Miliband che offre incentivi — la carota — a chi volta le spalle alla violenza e minaccia attacchi pesan­ti — il bastone — contro chi persi­ste nella ribellione.
Sia Kabul sia la coalizione spera­no – o «sognano», come denuncia­no gli scettici — di trovare degli in­terlocutori partendo dal presuppo­sto che ogni cosa in Afghanistan ha un prezzo. Una ripetizione di quan­to fece la Cia, nel 2001, quando ro­vesciò i talebani comprandosi, let­teralmente,
la neutralità di molti ca­pi locali.
Da mesi, con l’aiuto dei servizi se­greti sauditi e di altri Paesi del Gol­fo, gli americani hanno tastato il terreno. Sono stati avviati contatti discreti che hanno raggiunto ini­zialmente «le frange moderate» e quelli che gli osservatori hanno ri­battezzato con vena sarcastica «i piccoli talebani».
Definizione coniata per sottoline­are la scarsa rilevanza dei personag­gi. In realtà i sondaggi hanno ri­guardato anche elementi di peso — come l’ex ambasciatore Zaeef— ed emissari che hanno legami sia con gli insorti afghani sia con quel­li che agiscono nell’area tribale pa­chistana. Una manovra per aprire un varco nel fronte radicale. I risul­tati sono stati però modesti e la ri­presa
estiva dei combattimenti ha probabilmente complicato il negoziato.
Davanti alla sfida che rischiava di dividere i loro ranghi, i duri e puri hanno reagito con realismo. In Pakistan, i militanti di Beitullah Mehsud hanno eliminato un importante leader che aveva trescato con il governo. Dall’altra parte del confine il fantomatico mullah Omar ha riorganizzato le colonne talebane dando autonomia ai «colonnelli», ma al tempo stesso ha promesso punizioni severe per «spie e traditori ». Un richiamo alla compattezza sottolineato con la diffusione della «carta dei mujaheddin», 67 pagine che racchiudono una sorta di deca­logo al quale si devono attenere i combattenti.

Il FOGLIO - " Sciami d’assalto "

 Afghanistan

Kabul. I talebani mandano all’assalto squadre complete di attentatori suicidi, fucile in mano e corpetto esplosivo indosso. L’obbiettivo è sempre penetrare e prendere il controllo temporaneo di un palazzo del governo o di un avamposto militare; e anche se non va mai secondo i piani – pensano i cervelli della guerriglia – la violenza e il caos totale scatenato dalle incursioni sono un successo sul piano mediatico. Sabato tre guerriglieri hanno attaccato una stazione di polizia a Khost, secondo lo schema diventato ricorrente: infliggere la maggior quantità di danno possibile con la tattica convenzionale, kalashnikov e lanciarazzi in pugno, e poi farsi saltare in aria, quando ormai la partita non offre più altre possibilità di aggiungere vittime al bilancio. Subito dopo la prima ondata, contro la stazione di polizia sono arrivati altri due attentatori suicidi. E dopo ancora un sesto, a bordo di una macchina carica di esplosivo. Un settimo, intanto, attaccava una banca a poca distanza. Quattro giorni prima un altro sciame suicida ha assaltato Gardez, di nuovo nell’est del paese. Sei uomini, alcuni travestiti con i lunghi burqa indossati dalle donne per nascondere i volti e le armi, hanno attaccato la sede locale dei servizi, il palazzo del governatore e la stazione di polizia. Tre uomini dell’intelligence afghana sono morti. Negli stessi momenti, altri due attentatori suicidi si sono lanciati contro i cancelli di una base americana a Jalalabad. Il giorno dopo, il 22 luglio, la polizia afghana ha scoperto e arrestato una squadra suicida di sette uomini prima che entrasse in azione sulla strada dell’aeroporto di Herat, nel settore italiano, e altri otto a sud, nella provincia di Nimroz. Questi obbiettivi della campagna estiva – montata dalla guerriglia per sabotare le elezioni afghane e indebolire il sostegno internazionale – sono tutti molto vicini al confine pachistano (Khost è a 15 chilometri), da dove agisce quasi impunito l’Haqqani network, la rete terrorista del Grande vecchio del jihad Jalaluddin Haqqani. La tattica militare non è però efficace: tutti gli assalti sono stati bloccati e respinti nella fase iniziale, in molti casi prima che gli uomini bomba potessero farsi esplodere a distanza utile. Le reclute sono fanatiche ma inesperte, spesso adolescenti. Il disegno che le governa invece no: è grande e studiato e fa pensare all’influenza sempre più forte esercitata dagli arabi e dai pachistani di al Qaida sui loro esecutori afghani.

La STAMPA - Chris Patten : " Gli abusi della storia "

 Chris Patten

Nel suo libro Usi e abusi della storia la storica Margaret Macmillan racconta l’aneddoto di due americani che discutono dell’11 settembre. Uno fa un paragone con Pearl Harbor, l’attacco giapponese agli Stati Uniti nel 1941. Il suo amico non ha idea di che cosa si tratti. E l’altro gli dà questa spiegazione.
Gli dice: «Sai, quando i vietnamiti bombardarono la flotta americana e scatenarono la guerra del Vietnam». La memoria storica non è sempre così lacunosa. Ma la politica internazionale e la diplomazia sono costellate di esempi di precedenti citati inopportunamente per giustificare decisioni in politica estera, che ogni volta hanno portato alla catastrofe.
Monaco 1938 - il vertice tra Adolf Hitler, Edouard Daladier, Neville Chamberlain e Benito Mussolini - è un testimone invitato spesso a corte dai politici che cercano argomentazioni per avventure all’estero. La disastrosa invasione dell’Egitto da parte della Gran Bretagna nel 1956 venne giustificata accostando Gamal Nasser ai dittatori degli Anni Trenta. Se si fosse applicato l’appeasement a lui come a loro, il risultato sarebbe stato catastrofico per il Medio Oriente. Monaco fu usato come giustificazione anche dal presidente Bush per la guerra in Iraq, come lo era per il Vietnam.
Ma le analogie non sono sempre sbagliate, e quelle che lo erano in passato si possono rivelare corrette ora. Uno degli argomenti per la guerra in Vietnam era l’effetto domino. Se il Vietnam del Sud fosse caduto nelle mani dei comunisti, altri Paesi del Sud-Est asiatico avrebbero fatto la stessa fine, uno dopo l’altro. Le cose sono andate diversamente. Il Vietnam si è dimostrato essere l’ultimo, non il primo della serie. L’infame regime di Pol Pot trucidò milioni di persone finché non intervenne lo stesso Vietnam. Nel resto della regione il capitalismo, promuovendo l’apertura dei mercati, innescò lo sviluppo e promosse la stabilità. La globalizzazione produsse il suo effetto domino. Il Pil crebbe, milioni vennero strappati alla povertà, i tassi di analfabetismo e di mortalità infantile crollarono. Oggi gli effetti domino sono persino più importanti di allora. In America e in Europa in questo momento molte persone chiedono il ritiro dall’Afghanistan. Dicono che la Nato e l’Occidente non possono costruire una nazione laggiù e che gli obbiettivi stabiliti, democrazia e prosperità, sono irraggiungibili. I soldati della Nato muoiono invano. Prima o poi i taleban si prenderanno di nuovo il potere, con la licenza, come è già accaduto, di gettare acido in faccia alle donne. Ed è inutile pensare di poterlo impedire. Meglio fare armi e bagagli che stare lì e morire. E perché mai il risultato dovrebbe essere quello di imbaldanzire i taleban? Non hanno necessariamente gli stessi obbiettivi di Al Qaeda.
In Afghanistan sono stati certamente fatti molti errori. Dopo il rovesciamento del regime dei taleban, l’Occidente non ha impegnato abbastanza soldati per estendere l’autorità del governo di Kabul sull’intero Paese. L’amministrazione Bush ha distolto l’attenzione, per preparare la guerra in Iraq. Lo sviluppo è stato lento. La ricostruzione dell’esercito e della polizia si è trascinata senza costrutto. I raccolti di oppio si sono moltiplicati. A volte la risposta militare agli insorti è stata troppo dura, a volte troppo morbida. L’Occidente ha corteggiato personaggi ambigui nel tentativo di isolare i pashtun.
Perciò l’Occidente può far di meglio. Non c’è dubbio. Ma l’idea di abbandonare l’Afghanistan è cattiva, sia per l’Afghanistan che per il Pakistan. Lasciare l’Afghanistan nelle mani dei taleban, sperando contro ogni ragionevole speranza che diventino cittadini per bene del mondo globalizzato? E che effetti dobbiamo aspettarci sul Pakistan? E qui arriva il domino, sbagliato in Vietnam ma non necessariamente nell’Asia meridionale.
L’Afghanistan è la grande prova per la Nato. L’Alleanza ha promesso di portare a termine il lavoro. Se lo abbandona adesso, lasciando al Paese povertà, ignoranza, pregiudizi, e papaveri da oppio, che cosa accadrà? Perché qualcuno dovrebbe credere in Pakistan che l’Occidente è serio quando parla di sostenere il Paese come Stato musulmano e democratico? Una decisione del genere servirebbe a far girare la marea contro i taleban? Incoraggerebbe la classe media pachistana, i lavoratori delle città, disgustati dagli eccessi degli estremisti, a trincerarsi e resistere al fondamentalismo? Rafforzerebbe gli elementi moderati nella classe politica e tra i militari? Potete contare su di noi, sarebbe il messaggio dell’Occidente, ma non guardate oltre la soglia dell’Afghanistan, dove vedrete che non potete contare su di noi.
Se il Pakistan, testate atomiche comprese, dovesse cadere in mano agli estremisti, le conseguenze in termini di esportazione del terrorismo sarebbero terrificanti. Basti pensare al Kashmir. All’India. Come vedrebbe l’India il futuro, se il Pakistan dovesse cadere in mano agli estremisti?
Insomma, l’Occidente deve portare in fondo il suo lavoro in Afghanistan. Farlo meglio, ma farlo. O i pezzi del domino cominceranno a rovesciarsi, uno alla volta. È una prospettiva che non farebbe contento nessuno, nell’Asia del Sud.

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